mercoledì 4 febbraio 2015

La percezione del bello è una questione complessa. Naturale che si possa cadere in semplificazioni fuorvianti, quando la si debba affrontare con una certa rapidità. Ma cerco di spiegare almeno un aspetto. Intanto, il concetto di bello non è lo stesso né in tutte le culture né in tutte le epoche. Quando, però, parlo di "competenze" necessarie ad afferrare pienamente il senso di un’opera d’arte, non mi riferisco necessariamente alla conoscenza strettamente tecnica del campo, ma appunto alla conoscenza che si ha, superficiale o profonda che sia, del fenomeno di volta in volta considerato. Ora, un tempio greco, ma potrei anche dire una sinfonia di Beethoven, o un romanzo di Thomas Mann, fanno parte, o dovrebbero fare parte, della cultura media di un uomo europeo, e forse addirittura di un uomo di tutto l'Occidente, ma, con la globalizzazione, anche di molti che appartengono a un'altra storia e a un'altra tradizione. E' probabile, infatti, che un giapponese colto sappia di arte europea molto più di un italiano medio. Ho conosciuto un professore coreano di storia medievale europea in un’Università italiana. Così, per quanto riguarda l'architettura orientale, per esempio, per quanto estranea potrebbe apparirci, essa è tuttavia a noi familiare ormai almeno fin dal tempo delle crociate, e poi della colonizzazione. Ma, per esempio, Haydn componeva i suoi quartetti per i suoi musicisti dell'orchestra di Eszterháza. E se li pubblicava, li pubblicava perché fossero apprezzati da altri musicisti, e soprattutto da altri compositori. Spesso i compositori, dichiaravano apertamente, nelle presentazioni e nelle prefazioni delle partiture pubblicate, che la pubblicazione era indirizzata soprattutto agl’intenditori. Inoltre, il pubblico al quale i compositori destinavano le loro musiche, almeno fino a metà dell'Ottocento, era un pubblico educato alla musica, e spesso anzi la praticava. Ed erano costoro che venivano chiamati “dilettanti”, termine che non indicava, come oggi, persona poco abile o poco esperta, bensì chi della musica, pur conoscendola bene, non faceva la propria professione. Ma c’erano sovrani che potevano permettersi di suggerire a Bach un tema sul quale costruire contrappunti e variazioni. Oggi la situazione è totalmente cambiata. Quella competenza che faceva parte dell'uomo colto medio del tempo, già fin dal Rinascimento (ne parla Castiglione nel suo “Cortegiano”), anzi ancora da prima, poiché nelle Università medievali la musica costituiva materia obbligatoria di studio (Dante la conosceva così bene da adoperare la polifonia come metafora delle beatitudini celesti), oggi quella competenza non c'è più, e va dunque acquisita. La scuola dovrebbe essere l'istituzione che la fornisce. Ma per quanto riguarda la musica, l'Italia sta messa male, e si trova molto indietro, indietro  perfino rispetto ai paesi latinoamericani, nelle cui scuole la musica s'insegna. Ciò detto, c'è una percezione per così dire "naturale" del bello che lo fa cogliere in qualsiasi sua manifestazione. Ma siamo sicuri poi che quella percezione colga davvero il senso del fenomeno che la suscita? All'inizio del Novecento si scoprì la bellezza delle sculture africane. Ma quelle sculture non sono scolpite per essere belle, bensì per essere venerate. Il bello ve lo coglievano gli europei. Che è una dimostrazione indiretta dell'intuizione hegeliana che il bello non è un dato di natura, ma un fenomeno culturale. Il bello in natura non esiste: un tramonto è bello per chi lo vede, non in sé. Anche Leopardi dice qualcosa di simile. E mi scuso per la lunga digressione. Croce, che pure fu un lettore attento di Hegel, non capì mai questa preziosa intuizione, questo aspetto del  problema gli sfuggiva, e pertanto lo semplificò, dando per scontato che la percezione di un europeo fosse la percezione assoluta del bello, quella cioè di tutta l'umanità. Non era il solo, allora, a pensarla così. L'antropologia era ancora agli inizi. E Croce, tra l'altro, la disprezzava, come disprezzava anche la psicanalisi e le scienze matematiche, scienze che per lui non possono assurgere al ruolo teoretico della conoscenza, ma che svolgono la loro funzione intermente nella sfera pratica. Si deve al suo influsso il poco interesse che oggi la maggior parte degli italiani dimostra per le scienze che non siano "umanistiche". E pensare che già nell’antichità Platone e, soprattutto, Aristotele, proprio alle scienze della natura prestarono il massimo interesse. Aristotele fu, tra l’altro, un grande biologo. Come il suo allievo e genero Teofrasto, successore nella direzione del Peripato. E’, infatti, erronea l’idea che Aristotele considerasse non scientifiche le scienze della natura, semplicemente distingueva la verità alla quale accedono dalla verità del pensiero astratto. E ne distingueva anche i metodi. Ma questo è un altro, e assai complesso, discorso.


Fiano Romano, 4 febbraio 2015 

lunedì 2 febbraio 2015

“La teoria dell’argomentazione è lo studio metodico delle buone ragioni con cui gli uomini parlano e discutono di scelte che implicano il riferimento a valori quando hanno rinunciato a imporle con la violenza o a strapparle con la coazione psicologica, cioè alla sopraffazione e all’indottrinamento”.
Norberto Bobbio, introduzione al “Trattato dell’argomentazione” di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (1958), cit. da Armando Massarenti, a proposito della “Retorica” di Aristotele, “Il Sole 24Ore”, 1 febbraio 2015, pag. 23, “Domenica”.
Ecco ciò che manca all’italiano medio, sia cittadino che uomo politico, quando partecipa ai dibattiti televisivi (perché chiamarli “talk-show?” forse perché sono più show che talk, più spettacolo che dibattito?).

Fiano Romano, 2 febbraio 2015