venerdì 29 gennaio 2016

Attacchi poetici



Se Dante è stato, fin da quando ero ragazzo, un amore irresistibile, una corrispondenza che Foscolo chiamerebbe “d’amorosi sensi”, l’altro poeta italiano per il quale sentii subito un coinvolgimento totale è stato, e continua a essere, Leopardi, anzi, più tardi, già negli anni dell’Università, la lettura dello Zibaldone ha rafforzato e approfondito questo coinvolgimento. Devo a Leopardi la commozione di alcuni attacchi tra i più belli della nostra poesia e, forse, della poesia del mondo. Prima di lui, due versi, indimenticabili, avevano incarnato questa bellezza. L’attacco di una canzone di Dante e quello dei Trionfi del Petrarca.  La canzone dantesca si legge in quel capolavoro di leggerezza e d’invenzione moderna ch’è la Vita Nuova. Si tratta di “Donne ch’avete intelletto d’amore”. La prosa che precede la canzone spiega com’è nata. Ed è un’analisi del laboratorio di un poeta di sconvolgente modernità. Anticipa affermazioni simili di Baudelaire (la poesia nasce attraverso uno studio e un esercizio giornaliero e costante di scrittura) e l’impostazione di una parte della critica strutturalistica, per esempio Barthes. In realtà sia Baudelaire che Barthes hanno ben presenti le teorie estetiche medievali, e poi del classicismo francese. Entrambi sanno che la grande poesia non è solo frutto d’”ispirazione”, ma anche, e spesso soprattutto, di lungo e faticoso lavoro (si pensi al lungo lavoro dell’Ariosto sul “Furioso” e di Goethe sul “Faust”). I poeti medievali ne facevano addirittura un merito. “A me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse ... la mia lingua parlò come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia ... poi ... pensando alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento”. L’endecasillabo ha un’accentazione insolita per altri poeti, ma più frequente in Dante: l’accento cade sulla quarta e settima sillaba. Ciò dà al verso un andamento più solenne, meno fluido, che se l’accento cadesse sull’ottava sillaba, cosa più frequente, anche in Dante. E l’accento cade sulla parola “intelletto”. Dante dunque vuole dare particolare rilievo a questa parola che viene scandita dentro un ritmo non del tutto usuale. Di fatti il concetto, se ci si riflette, non è dei più comuni. Ci si aspetterebbe “sentimento d’amore”. No, Dante insiste sulla cognizione dell’amore: le donne, più degli uomini, sanno che cosa sia l’amore. Ecco perché “intelletto d’amore”.  L’urto crea un corto circuito tra emozione e intelligenza.  Sta tutta qui la zampata del grande poeta, nel presentare come normale, intuitivo, un rapporto tutt’altro che pacifico: quello tra l’intelletto, la razionalità, da una parte, e l’amore, la volontà, l’irrazionale, dall’altra. Donne che capite ciò che di solito non si capisce, che penetrate la struttura dell’emozione che chiamiamo amore. Fantastico, sublime! Zampata solo dei grandi poeti. Come il “Sois sage, ô ma Douleur!” di Baudelaire. Saggio, tranquillo, il dolore? L’altro verso è quello che attacca i Trionfi: in realtà non è il verso dell’attacco, ma il secondo, e dice: “per la dolce memoria di quel giorno”. Maurice Bejart chiese a Luciano Berio di scrivere la musica per un balletto. Era il 1974, 600 anni dalla morte del Petrarca. Quel verso fu il titolo della musica – bellissima! – e del balletto – raffinatissimo, affascinante, indimenticabile l’unicorno (una ballerina) che circolava tra i personaggi del poema impersonando la Castità.  Lo vidi al Teatro dell’Opera di Roma. Ma il verso – sublime! – è preceduto da quest’altro verso: “Al tempo che rinova i mie’ sospiri”, la terzina completa dice:

Al tempo che rinova i mie’ sospiri
per la dolce memoria di quel giorno
che fu principio a sì lunghi martiri, ...

Qui si chiarisce, come meglio non si potrebbe, come per il Petrarca la poesia nasca sempre, e solo, dal ricordo. Anche qui, con un’idea che meno romantica non si potrebbe immaginare: la poesia nasce non già dall’immediatezza del sentimento, ma dalla rielaborazione che la memoria compie di quel sentimento. Schubert, pensato sempre come un’icona del romanticismo, sembra, invece, condividere a sua volta questa idea e scrive, in una lettera, che la musica è sempre memoria di momenti trascorsi, mai dell’immediatezza,  e dunque anche la gioia cantata dalla musica appare triste, perché non gioia immediata, bensì gioia ricordata. Più o meno negli stessi anni Leopardi scrive concetti simili. In una pagina famosa e bellissima dello Zibaldone, in cui confronta l’impressione profonda che eccita il ricordo di una torre e l’impressione più fredda che invece suscita la visione della torre reale: il ricordo suscita nel poeta quello che Leopardi chiama “doppio sguardo”. la visione della torre reale che richiama il ricordo della torre già vista. Leopardi ci offre alcuni degli attacchi più belli di tutta la nostra poesia. Li elenco, qui sotto.

Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna ...

 Dolce e chiara è la notte e senza vento ...

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo
e delle gioie mie vidi la fine.

Può bastare così. Da che cosa nasce la bellezza, il fascino di questi versi? Più che dalle immagini, dalla loro musica. Provate a cambiare l’ordine delle parole: la notte è dolce, chiara e senza vento. Quasi un bollettino meteorologico. Oppure: Notte placida, e raggio verecondo della luna cadente. Certo che le immagini della notte, della luna, dell’Orsa Maggiore giocano il loro ruolo. Ma acquistano il rilievo poetico che hanno perché scandite in quel ritmo, intonate con quei suoni. L’attacco delle Ricordanze, poi, si affida a quella fila di versi che s’insinuano l’uno nell’altro, come un’onda inarrestabile (la tecnica si chiama enjambement). Ecco perché la poesia è in fondo intraducibile. “La fille de Minos et de Pasiphäe” non suona allo stesso modo se traduco “La figlia di Minosse e di Pasife”, eppure le due frasi significano la stessa cosa. Ecco, una lingua è anche, o soprattutto, la sua musica. Tanto più la lingua di un poeta, ch’è poeta proprio perché reinventa la lingua che scrive.  Ecco perché una pronuncia, un’accentazione errata mi offendono non solo l’orecchio. Offendono la percezione musicale della lingua. Non si tratta, perciò, solo ci correttezza di dizione, ma, più radicalmente, di disturbo della percezione musicale di una lingua. Calvino percepiva ogni errore linguistico come un crimine irreparabile, e ne soffriva come di una ferita inferta sul suo corpo. Ci rifletta chi superficialmente ritiene gli errori di pronuncia colpe veniali perdonabili. No, non sono perdonabili. Fanno male, terribilmente male, a chi li subisce. Anche perché basterebbe molto poco – magari consultare google – a correggere i propri errori.
Se mi chiedessero: e in musica, quali sono gli attacchi per cui stravedi? Sul momento posso indicarne, provvisoriamente, quattro: l'inizio della Passione secondo San Giovanni di Bach, l'inizio dell'Ouverture delle Nozze di Figaro. della Nona di Beethoven, e della Nona di Mahler. Ma Beethoven ne ha molti, accattivanti: l'attacco del Trio dell'Arciduca, della Sonata op. 96 per violino e pianoforte, dell'op. 101 per pianoforte. Ciascuno si faccia il suo catalogo.

Fiano Roma, 29 gennaio 2016

giovedì 28 gennaio 2016

Una noterella filologica: la Monarchia di Dante



Monarchia. - È il titolo (e non De Monarchia, estraneo alla tradizione manoscritta) di un trattato in tre libri di argomento politico, scritto da Dante in lingua latina. Il titolo non si riferisce genericamente a ogni stato in cui sia sovrano un re; si riferisce invece all'Impero: quell'unico principato che sta sopra tutti gli altri, relativamente a ciò che ha principio e fine nel tempo (cfr. Mn I II 2)”.
Pier Giorgio Ricci, curatore dell’edizione critica della “Monarchia”, Milano, Mondadori, 1965.
Dante non ha mai scritto un “De Monarchia”, come si sente spesso dire e più spesso si legge, anche da parte di emeriti studiosi di letteratura italiana e perfino di letterature classiche.  Il motivo è molto semplice, ed è ideologico: un trattato politico che riguarda il Potere Universale dell’Impero non può ammettere che tale Potere, la Monarchia Universale, sia denotato nel titolo dell’opera con un caso obliquo, ma pretende e ammette il solo caso soggetto, cioè il nominativo. Sarà pure una minuzia di bizantinismo medievale, ma per Dante ha un valore politico immenso: in parole povere la Monarchia, anche grammaticalmente, non può essere soggetta a nessun altro soggetto, non può dipendere, nemmeno come caso grammaticale, da nessun altro caso che la subordini al proprio dominio. Dante compie uno sforzo sovrumano per presentare il termine, anche nel corpo del testo, fin dalle prime righe, sempre, e solo al nominativo.  Quando gli serve il caso obliquo ricorre al sostantivo “Monarcha”, monarca, imperatore, pur di non intaccare la soggettività della Monarchia, presentata sempre al nominativo, “Monarchia”, e scrive, per esempio, “Ius Monarche”, diritto del Monarca. In calce: l’accento va sulla prima a, in quanto la i, breve, non può essere accentata, dunque: Monàrchia.  E’ possibile che nel tardo Medio Evo l’accento fosse scivolato sulla i, come in “philosophia”, che andrebbe pronunciato “philosóphia”, ma si leggeva, forse, già “philosophía”, come in italiano. Dante, però, conosceva bene la prosodia latina, scrive anche versi latini, e dunque è assai più verosimile che, almeno quando scriveva in latino, dicesse “Monàrchia” e “philosóphia”.
Sorprende perciò che uno studioso del livello di Luciano Canfora, nel suo interessantissimo, e documentatissimo, “Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante”, Roma, Salerno, “Astrolabio”, 2015, a pag. 21 scriva “ne fa ampio uso nel De monarchia”.  Ma poi a pag. 31 presenta addirittura tutt’e due le titolazioni: rigo 11, “(De Monarchia, II, 36)”; righi 15-16, “Nel brano ora ricordato della Monarchia, Dante ecc.”
Mi perdonino i lettori questa noterella filologica. Ma la lettura del libretto di Canfora me ne ha risuscitato l’antica e mai smessa passione.
In calce: nel latino scritto medievale i dittonghi ae ed oe si scrivevano e, come si pronunciavano, e dunque, qui, Monarche sta per Monarchae.

Fiano Romano, 28 gennaio 2016

mercoledì 27 gennaio 2016

27 gennaio: nasce Mozart



Oggi, 27 gennaio, è nato Mozart.
Non è il caso di aggiungere parole alle troppe già dette e scritte su di lui.
Ma vorrei riflettere su un punto. Ormai, universalmente, Mozart è ritenuto creatore di musica bella, appagante, armoniosa, per qualcuno addirittura olimpica, serena quanto altre mai. Eppure i suoi contemporanei lo sentivano, invece, difficile, disturbante, spesso addirittura aspro, troppo cervellotico, “drogato”, come scrive un critico del tempo, citato più sotto. Oggi diremmo, “artificioso”, “troppo intellettuale”, come si dice, per esempio, di Boulez.
Quando apparvero i sei Quartetti dedicati a Haydn la critica ne parlò con rispetto, perché Mozart era pur sempre, ormai, un’autorità musicale riconosciuta da tutti, e per di più era tra i compositori meglio pagati; era, però, spendaccione, aveva le mani bucate, la sua povertà nasce dai suoi sperperi, affittava una carrozza per mandare la moglie a Baden, come se oggi uno prendesse un taxi da Milano a Cortina. Però di fatto, soprattutto sulla “Wiener Zeitung”, gennaio 1787, i Quartetti furono impietosamente stroncati: “Peccato che Mozart, nel lodevolissimo intento di diventare un innovatore, si sia spinto troppo lontano; e non certo a vantaggio del sentimento e del cuore. I suoi nuovi Quartetti sono troppo, troppo drogati e, a lungo andare, nessun palato riesce a tollerarli. Perdonatemi questo paragone preso dal libro di cucina”. Curioso che più tardi si scrivessero cose simili di Beethoven,  anzi si aggiungeva che se Beethoven avesse continuato così, dopo qualche anno nessuno avrebbe più voluto ascoltarlo (sempre la “Wiener Zeitug”, a proposito del Concerto per violino). Ci sarebbe motivo di dubitare riguardo alla preveggenza della critica musicale, in ogni tempo.  Si noti, però, l’epiteto di “innovatore” con cui viene designato Mozart.
Peggio si comportarono i compositori, soprattutto italiani. Sarti, in una lettera, li definì “inascoltabili”, e soggiunse, con disprezzo, “questi tedeschi che non sanno riempire con decenza un pentagramma adesso si mettono a scrivere quartetti” (cito a mente). Era scandalizzato soprattutto dalle dissonanze dell’Introduzione al Quartetto in do maggiore, soprannominato poi, appunto, “delle dissonanze” (ma che titoli inappropriati si davano e si danno alle composizioni! come “Chiaro di luna” per una sonata così profondamente tragica come l’op. 27 n.2 di Beethoven). I teatri Italiani, tranne in parte il San Carlo di Napoli, dove ci fu la prima italiana della “Clemenza di Tito”, recalcitravano ad accogliere le sue opere. Il “Don Giovanni”, alla Scala fu quasi un fiasco (la Scala, invece, aveva onorato e applaudito il Mozart adolescente) e a Bari fu dato per la prima volta solo negli anni ’80 del secolo XX. In quegli stessi anni una collega di conservatorio, insegnante di canto, mi chiese: “Ma sei proprio sicuro che Mozart scrive bene per la voce?”.
Questa diffidenza degli italiani per la musica tedesca ha dunque lunga origine. Come se gli italiani avessero dimenticato la felice, e feconda, convivenza rinascimentale e barocca con i musicisti d’Oltralpe! Un fiammingo, Adrian Willaert, è il fondatore della cosiddetta Scuola Veneziana, e allievo di un compositore fiammingo è Palestrina. La cupola brunelleschiana del Duomo di Firenze fu inaugurata con il motetto (si dovrebbe scrivere così) “Nuper rosarum flores” di Guillaume Dufay (pronunciare “dufài”, con la u lombarda, e accento sulla a, non “dufaì”, senza la u lombarda e con accento sulla y finale, come si sente spesso impropriamente dire, in italiano il cognome suonerebbe Del Faggio; i francesi moderni lo attualizzano e lo pronunciano “dufé”, ma il dittogo ay nel francese del ‘400 non era ancora contratto e si pronunciava ài”).
Ecco, allora rifletto: chi oggi lo considera un modello di bellezza musicale, ne penetra anche le audacie armoniche, le asprezze timbriche, la follia inventiva? Goethe lo considerava un musicista “demoniaco”. E aveva ragione. Tutto il Kyrie della Messa in do minore, un sublime torso, una sorta di “prigione” mozartiano, è di un’arditezza, di una visionarietà quasi deliranti, folli. L’Andante della Sonata in la minore K. 310 per pianoforte ha nella sezione dello sviluppo improvvisi urti di seconde che fanno rizzare i capelli, e così pure l’Andante della Sonata in fa maggiore K. 494 (con il rondò K, 533), sempre nella sezione centrale dello sviluppo, presenta urti di settime, seconde da fare invidia a Stravinsky, in progressioni che rinviano a lungo la risoluzione. Allora?
Ma non sarà il caso di riascoltare Mozart in tutta la sua forza di musicista “innovatore”? Accade insomma, per Mozart, quanto in poesia con Dante. Il Quinto Canto dell’Inferno è da tutti celebrato come una sublime narrazione di amore passionale, talmente intensa che il poeta sviene alla fine del racconto. Ma quanti si rendono conto che Francesca parla a Dante con le immagini e le metafore dello Stil Novo?  “Amor che a cor gentil ratto s’apprende”. Ecco ciò che turba Dante. Aveva cantato l’amore per Beatrice come una Via di Salvezza, l’impatto con una donna-angelo, messaggera di Dio, un itinerario della mente a Dio (itinerarium mentis ad Deum, San Bernardo, tra gli altri), e si ritrova che quell’itineriario conduce alla dannazione. Ecco ciò che lo sconvolge, e gli ritornano in mente la selva, le tre belve, la porta dell’Inferno. Il viaggio, l’itinerario, sarà proprio questo, che conduce nel mondo dei morti, e solo la conoscenza del rischio, in ogni atto, di fare la scelta sbagliata, lo guiderà finalmente alla visione di Dio. Dante non si sente superiore ai dannati, ai purganti che incontra, ma riconosce in ciascuno il rischio di fallimento della propria vita che ha dannato i dannati e costretto al Purgatorio le anime peccatrici, rischio che lui stesso ha corso, che corre ancora, se non lo guarda in faccia, se non se ne libera, e non si prepara così, finalmente purificato, all’impatto con l’Assoluto, l’Amor che muove il sole e l’altre stelle. Ecco l’amore che non danna, ma salva.
Forza! Ogni nota che Mozart ha stilato sul pentagramma è il frutto di una fatica inenarrabile (lo scrive lui stesso nella dedica a Haydn), di un pensiero incandescente, di un tormento inarrestabile, che si chiarifica, si sublima, solo al filtro di un paziente lavoro di selezione e di prosciugamento degli stimoli creativi. Solo l’essenziale ha stanza nell’opera, il superfluo è inesorabilmente, senza pentimento, spazzato via. Beethoven impiega una vita per comprenderlo, e anche lui ci arriva, anche lui, nelle opere tarde, toglie, prosciuga. Come prima di Mozart e di Beethoven aveva fatto Bach nella Messa in si minore e nell’Arte della fuga. L’ispirazione è, forse, un dono della Grazie, o dell’inconscio, ma l’opera è sempre il frutto di un lungo, paziente e testardo lavoro. Anche quando sembra nascere dal niente, anzi proprio quando sembra nascere dal niente.
Per una ghirlandetta
ch’io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore.

Ma quanta frequentazione, quanta attenta lettura di poeti latini, provenzali, francesi , siciliani, toscani, quanta riflessione su che cos’è poesia e su che cosa non è, ci sono volute per ottenere il miracolo di tanta spontanea freschezza? E’ tra le rime di Dante meno conosciute. Eppure Dante conosce anche questa accattivante, irresistibile, leggerezza, la stessa con cui descrive Matelda nel Purgatorio. Mozart compie, assai spesso, lo stesso miracolo. E con lo stesso paziente, testardo, lunghissimo studio. In latino la parola “studium” significa, soprattutto, amore.

Fiano Romano, 27 gennaio 2016

martedì 26 gennaio 2016

Five versions of darkness: Emanuele Arciuli alla Sapienza di Roma



ROMA. IUC. ISTITUZIONE UNIVERSITARIA DEI CONCERTI. AULA MAGNA DELLA SAPIENZA. FIVE VERSIONS OF DARKNESS. EMANUELE ARCIULI.

Five versions of darkness, cinque versioni dell’oscuro, ha intitolato Emanuele Arciuli il suo concerto di sabato 23 gennaio nell’Aula Magna dell’Università di Roma La Sapienza, per la IUC, Istituzione Universitaria dei Concerti. Serata formidabile, un viaggio negli Inferi del Romanticismo e dell’Oggi: gli inferi in realtà si celano nel sottofondo di qualsiasi epoca, anche nelle grotte di Lascaux. Ognuno di noi ha, comunque, un proprio lato oscuro, che in genere i più o rimuovono o reprimono. C’è perfino un bel film di Christopher Nolan in cui si fa emergere questo lato oscuro anche in un personaggio di fumetto come Batman: The Dark Knight, il cavaliere oscuro. In ogni caso è un lato con cui i “normali” non vogliono fare i conti. Ecco allora che, per esempio, nelle cronache di un giornale, un suicidio, un omicidio inspiegabili diventano “attimi di follia”. Ma che cos’è, poi, la follia se non proprio l’emergere di questo lato oscuro di noi stessi, il lato che c’imbarazza o, peggio, vorremmo annientare? Gli artisti, invece questo lato ce lo sbattono in faccia, ci dicono: ecco, vi riguarda, c’è anche in voi. Altrimenti perché ci sconvolgerebbe la Medea di Euripide, il Macbeth di Shakespeare? Dante sviene al racconto di Francesca non perché resti commosso dalla sua storia e ne provi pietà, bensì perché vi riconosce la propria storia interiore, quella che avrebbe potuto salvarlo e nell’Inferno scopre invece che è una storia dannata, che conduce alla condanna eterna. Francesca gli h parlato con il linguaggio dello Stil Novo, ed è una dannata. I poeti sanno, dunque, che la poesia nasce proprio lì. E lo sanno i musicisti. Robert Schumann, come pochi altri. E proprio l’ultima pagina pianistica di Schumann apre il concerto di Arciuli: Gesänge der Frühe, titolo quasi intraducibile, canti del mattino, o piuttosto della prima ora del mattino. Ma è un crepuscolo, quest’alba, che sembra preludere, invece che al giorno, alla notte più profonda. In realtà il manifestarsi della luce, più che aprire alla speranza, sembra spalancare la visione di un abisso. La luce illumina, appunto, l’abisso. Non c’è contraddizione: la luce può essere l’uscire da un incubo, oppure rivelare, per contrasto, in tutta la sua oscurità l’incubo stesso. La luce, se troppo abbagliante, acceca, toglie la vista di sé stessa. L’armonia si contorce, la melodia si attorciglia. Il canto si fa perenne, e inutile, ritornare su sé stesso, senza lasciare intravedere alcuno sbocco, alcuna fessura di scampo. In un uguale tempo sospeso, e verso una terribile rivelazione, ci conduce anche il brano di Salvatore Sciarrino, Perduto in una città d’acque (1991). Il musicista va a visitare Luigi Nono negli ultimi giorni che gli restano di vita. L’acqua di Venezia diventa così lo specchio in cui si affievoliscono i suoni, si riflette il disperdersi del tempo, lo sprofondare nell’ultimo silenzio. I suoni estremi dell’acuto e del grave, intonati insieme, spalancano in mezzo il vuoto di un silenzio irredimibile. Piccoli fruscii o frulli d’ali (del vento? dei gabbiani?) non ne incrinano l’immobilità. Il rumore, lo strepito, le grida dell’Inferno dantesco  –rieccolo! Francesca è una sorta di fantasma, di incubo, dell’emozione romantica - alludono allo stesso sbocco:  Liszt ne coglie perfettamente l’inquietudine e il dissolvimento.  Après une lecture de Dante, dopo una lettura di Dante, fantasia quasi sonata, come la definisce lo stesso Liszt, questo sprofondamento lo fa percepire anche armonicamente, come se i confini, i limiti degli accordi sfumassero nell’indistinto, affondassero nel nulla. Il ritmo giambico, che apre e innerva tutto il pezzo, sembra guidarci a quell’esito finale, lo stesso, ossessivo, e lancinante, pensiero del tardo, e bellissimo, poema sinfonico, Dalla culla alla tomba. Segue una pagina affascinante di George Crumb, Eine Kleine Mitternachtmusik, una piccola musica della mezzanotte (il titolo allude a una famosa serenata mozartiana,) del 2001, nove variazioni su Round Midnight di Telonius Monk.  Si sprofonda anche qui, ci si addentra perfino nelle viscere del pianoforte, pizzicate dalle dita del pianista. La notte, più che un incubo, sembra l’esaudimento di un desiderio, una finalmente raggiunta oasi di pace. Ma il cammino che vi conduce è tutto inquietudine e strazio. Non lascia sperare niente nemmeno il Bartók di Szabadban, all’aria aperta (1926). Il silenzio della notte, la solitudine della puszta, il rullio di una barcarola, le danze dei contadini, il furore della caccia, sono suoni diversi di uno stesso paesaggio inospitale e feroce. Due bis, in tema, chiudono la serata: il preludio in re bemolle maggiore (goccia d’acqua, ahinoi! è stato anche chiamato) di Chopin (op. 28) e un libero gioco, malinconico e introverso, di Bill Evans. Arciuli non solo ha immaginato e costruito un programma così accattivante e denso di allusioni. ma ci ha fatto seguire i pensieri e le fantasie dei compositori attraverso una mutevolissima arte del tocco, un’intelligenza dell’armonia che sfida l’ascoltatore e gli presenta la pagina limpida e chiara come carta stampata. Come sempre, le interpretazioni più accattivanti sono quelle che coniugano intelligenza e sensibilità, che anzi non distinguono tra l’una e l’altra. Successo, neanche a dirlo, infuocato e trionfale.
Dino Villatico
Roma, 25 gennaio 2016