martedì 8 marzo 2016

Una riflessione su Harnoncourt



Quando scompare una figura importante del mondo della cultura, com’è stato Nikolaus Harnoncourt, molti si diffondono in elogi, anche quelli che parevano non apprezzare l’opera dello scomparso, e molti anche si sentono autorizzati a esprimere, spesso nella maniera più volgare e ingiustificata, il proprio represso livore, frutto o d’incomprensione o d’invidia. Non amo i coccodrilli. Nella mia attività di critico ho dovuto scriverne qualcuno. Ma le parole sembravano sempre ostacolare la commozione del momento, e proprio quel vuoto che mi feriva, l’assenza che mi tormentava, era ciò che non potevo scrivere. La libertà di questo spazio mi permette di scrivere ciò che voglio. Ma non voglio approfittarne. Mi limito, perciò, a una sola osservazione. E spero che anche da questa sola riflessione possa evidenziarsi la grandezza intellettuale di colui che ci mancherà molto.  Harnoncourt è stato a lungo denigrato, se non addirittura sbeffeggiato in Italia. Il termine filologia in un paese che sembra nutrire un’irrazionale diffidenza per tutto ciò ch’è serio e frutto di lungo studio, in un popolo che si vanta quasi sempre a sproposito delle proprie virtù d’improvvisazione (é in realtà il nostro principale difetto, altro che virtù!), tale termine sembra sinonimo di pignoleria, di pedanteria. E di archeologia fasulla. Io stesso, ho messo, è vero, più volte in guardia sull’applicazione incondizionata e irriflessiva della cosiddetta pratica musicale filologica. Ma appunto contro l’assenza di riflessione, non già contro la pratica. E precisiamo subito che la filologia può applicarsi al testo, non alla pratica. Il che non vuol dire che non si possa ricercare e ipotizzare una pratica che recuperi le pratiche del passato. Ciò che non sarà mai possibile recuperare è l’orecchio del passato.  Per il pianoforte hanno scritto Mozart, Beethoven, Schumann, Chopin, Debussy, Bartók e Stockhausen, tra molti. Le loro partiture si sono impresse sulla tastiera del pianoforte e ancora di più nella memoria dei pianisti e degli ascoltatori. Ciò detto, nonostante gli eccessi irriflessivi, la ricerca di comprendere come si suonava e si cantava nel passato è stata una stupenda e oggi indispensabile, ineliminabile ricerca. Certo Bach interpretato da Furtwaengler, da Karajan e perfino da Karl Richter (forse, anzi, il peggiore, perché pretendeva di essere fedele) ci appare oggi inascoltabile. Dobbiamo però rispettarne le proposte, che corrispondevano alla cultura del tempo. Chopin suonava Bach sul pianoforte e sembra, a testimonianza di Liszt, molto “alla Chopin”. Diremmo per questo che Chopin fraintendeva Bach? Tutt’altro! Lo conosceva profondamente, e innerva intimamente molte delle sue pagine, dagli Studi ai Preludi e perfino nelle Ballate. Era il Bach della cultura del suo tempo. Come per Beethoven: le Variazioni Diabelli sono un immenso monumento a Bach. Come lo è la bellissima trascrizione orchestrale del Ricercare a 6 dall’Offerta Musicale, composta (è il caso di dirlo) da Webern. Ma con Harnoncourt accade qualcosa di nuovo. E di simile a quanto era avvenuto qualche decennio prima con la lettura della poesia medievale, per esempio di Dante, ad opera di Auerbach. Il famosissimo sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, che ci sembra così familiare, così comprensibile, significa in realtà tutt’altra cosa da quello che ci suggerisce una prima non “filologica” lettura.  Gentile significa nobile, onesta significa degna di onore e pare non significa sembra, ma appare.  E così via. Ecco, Harnoncourt ha compiuto un’operazione simile con la musica. Non lasciatevi ingannare, sembra dirci, questa melodia così chopiniana di Bach non è chopiniana, ma profondamente bachiana, ed è una geniale trasposizione sulla tastiera della vocalità barocca, esattamente come la cantabilità chopiniana è una geniale e complessa trasposizione sulla tastiera della vocalità romantica. L’eredità di Bach è solo uno stimolo. Ma è appunto Chopin che legge chopinianamente Bach, non Bach che anticipa Chopin.   E questo fa Harnoncourt: ricolloca il testo nel suo contesto, nella sua epoca, ma serbando il senso moderno della distanza, della rievocazione. Tanto è vero che a un certo punto l’uso degli strumenti “originali” o ricostruiti secondo il modello antico non gli servono più, e può dirigere i Wiener, la Philarmonia di Londra, l’Orchestra dell’Opera di Zurigo. Ma impostando in maniera diversa le arcate, i respiri delle frasi, e abbassando quasi sempre il diapason. Sul diapason andrebbe aperta una lunga parentesi. Non è vero che fosse dovunque più basso del nostro: a Lipsia era altissimo, quasi un tono sopra, rispetto a Köthen, e Bach perciò a Lipsia abbassa la tonalità di opere composte a Köthen, per esempio quando trascrive i concerti per violino, ma qui entrano anche problemi di digitazione della tastiera, il che dimostra anche che il diapason non era comunque lo stesso in ogni luogo, i musicisti dovevano adattarsi volta per volta. Ecco, di questa operazione correttamente “filologica”, vale a dire di reinserire l’opera nel suo contesto, nella sua epoca, Harnoncourt non sarà mai ringraziato abbastanza. Perché la sua lettura dell’antico non è mania di studioso o d’intellettuale cavilloso, bensì atteggiamento moderno che si confronta con l’antico, cercando di comprenderne tutte le implicazioni strutturali e poetiche. Ma sta proprio qui la sua modernità: che si confronta con l’antico senza la pretesa di leggerlo come moderno, perché la modernità dell’antico sta nella sua individualità storica, nel modo come l’antico affronta i problemi del suo tempo. La modernità di Beethoven non sta nel suo stile, oggi inimitabile, bensì nella maniera con cui si confronta con la tradizione, come la modifica, e come talora la stravolge. Allo stesso modo che la modernità di Sofocle non sta nel presentarci con Edipo il personaggio intravisto, e totalmente frainteso, da Freud, ma un uomo che cerca di capire la propria collocazione nella storia che il destino lo costringe a subire. La sua domanda, alla fine dell’Edipo a Colono, chiarisce questa posizione: d’accordo, non sapevo di uccidere mio padre e di scopare mia madre, ma perché io? E’ una domanda terribile. La stessa che si saranno fatti gli ebrei di Auschwitz e oggi si fanno i profughi dalla Sira. Beethoven non conosceva i corni coi pistoni. E’ commovente vedere la sua lotta per ottenere dall’orchestra suoni che i corni non potevano dare. Oppure: il suo pianoforte era meno esteso di un pianoforte moderno. Commovente, anche qui, la sua lotta quando sbatte contro quei limiti che vorrebbe travalicare. Per non parlare dei problemi di forma: è sempre entusiasmante vedere con quanta libertà li risolve, e sempre in modo nuovo. E’ quella libertà ch’è moderna, non le soluzioni che trova, oggi superate. Pensate al primo movimento della Sonata op. 101. Che forma sonata è? Un tema cantabile, potrebbe essere Schubert, che ritorna più volte su sé stesso e poi si sospende. Che l’ultimo movimento lo riprenda rielaborandolo contrappuntisticamente è una lezione modernissima di come si costruisce un’opera con una sola idea. L’artista superficiale crede che moltiplicare le idee faccia l’interesse di un’opera.  Quelli che sembrano i due temi contrapposti nel primo tempo dell’op. 57, la cosiddetta Appassionata, sono l’uno l’inversione dell’altro. Harnoncourt queste cose le sapeva bene. Anzi, ci ha insegnato a riconoscerle anche con il puro ascolto. La filologia di cui menava giustamente vanto era u’atteggiamento culturale, non una pignoleria di specialista (anche, ma perché no?).
Fiano Romano, 8 marzo 2016