lunedì 18 settembre 2017

Ricordo di Maria Callas

Non sono intervenuto con nessuna riflessione sulla Callas nell’anniversario della sua morte. Di proposito. Quel giorno di 40 anni fa ero seduto sulle scale del Provveditorato di Roma, e aspettavo la nomina definitiva per un incarico d’insegnamento di italiano e latino nei licei. Mi ero portato una radiolina, perché volevo ascoltare un mio intervento registrato per un programma radiofonico. L’intervento fu interrotto dalla voce di Fedele D’Amico che annunciò la morte del soprano. Riecheggiando il poeta di Recanati: Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Da allora, la sua morte, nel ricordo, è sempre associata a quel tuffo al cuore sulle scale del Provveditorato di Roma. Anche allora sentii dire e scrivere tante sciocchezze. Come quelle ascoltate e lette l’altro ieri. Fedele D’Amico aveva invece già allora ribadito in che cosa consistesse la vera rivoluzione operata dalla Callas nella rappresentazione di un melodramma: non già il recupero del “bel canto”, né tanto meno l’esibizione del miracolo di una voce “straordinaria”, che anzi la voce della Callas era sì estesa ma disuguale. La vera rivoluzione stava, invece, nell’avere ristabilito il primato dell’attrice, della drammaturgia, sull’edonismo vocale, ma differentemente dall’allora trionfante pratica veristica, riconduncendo la recitazione alla corretta espressione del canto. Non nel senso, dunque, di accentuare i gesti realistici, di obbligare la voce a trucidi effetti di parlato, come faceva il verismo, bensì in quello d’impostare drammaturgicamente proprio l’intera scrittura vocale, anche l’abbellimento, sentito come parte integrante della recitazione. Un esempio illuminante di questa impostazione del canto piegato alla recitazione sta nella scena di Leonora sotto la torre dove si trova rinchiuso Manrico, all’inizio del quarto atto del Trovatore. A un certo punto Leonora dice: sento mancarmi. E la voce davvero si affievolisce. O nel brano che l’ha resa famosa: Casta diva. Bisogna ascoltare, però, tutta la scena, non la sola cavatina di Norma. Prima di attaccare l’aria ascoltate allora come la Callas intona la frase “il sacro mirto io mieto”. E poi ascoltate la successiva, virtuosistica cabaletta. Le fioriture si fanno espressione dell’eccitazione di Norma al ricordo dei primi tempi del suo amore con Pollione. Ecco, qui sta il punto: la recitazione consiste non già nel dare rilievo all’effetto realistico delle parole pronunciate, bensì nell’espressione drammatica del canto, la voce dice qualcosa, ma la sua espressione dice altro. Mi sono già dilungato altre volte su questo aspetto dell’interpretazione drammaturgica di Maria Callas. Un giorno, se ne avrò tempo e coraggio, raccoglierò insieme quelle riflessioni. Non mi dilungo oltre. Ricordo solo che i grandi soprani del primo Ottocento erano ammirati proprio anche, o soprattutto, per le loro capacità drammaturgiche, alla lettera, capacità di costruire il dramma, di riscriverlo con l’interpretazione. E’ ciò che i tedeschi chiamano, giustamente, Drammaturgie, e hanno in proposito inventato la figura del Drammaturg, chi riscrive le azioni sceniche del dramma che si deve rappresentare. Che non è il regista, anche se può coincidere con la figura del regista. Ma proprio chi riscrive la drammaturgia pensata da Shakespeare, da Verdi, da Wagner. Nel teatro tedesco fu Goethe a impostare in questo modo la rappresentazione teatrale. Parallelamente al lavoro di Lessing e dei fratelli Schlegel. Fece storia la sua messa in scena dell’Amleto a Weimar, in abiti moderni, e con alcune scene riscritte dallo stesso Goethe, che comunque ricopriva il ruolo del principe danese, e sembra che fosse affascinante. Non si stenta a crederlo. La Callas faceva, ai giorni di oggi, qualcosa di molto simile. Riscriveva, cioè, la drammaturgia del personaggio. Adelaide Ristori, la più grande attrice italiana dell’Ottocento, racconta nelle sue memorie che quando cominciò a recitare Shakespeare, Racine, Alfieri (sembra che fosse sublime la sua Mirra), il suo modello fu Isabella Colbran, che interpretava l’Ermione e la Semiramide rossiniane. Rossini, tra parentesi, era il modello musicale e drammaturgico perfetto anche per Schopenhauer. Ma in realtà per tutta l’Europa, musicale e no, di allora. E questo vale per chi ancora si ostina a sostenere il valore puramente esornativo dei virtuosismi vocali rossiniani. Ecco, volevo ribadire solo questo. Come quarant’anni fa aveva fatto Fedele D’Amico: che la rivoluzione della Callas fu, prima di tutto e soprattutto, teatrale, e non solo musicale, o meglio, che restituì il suo senso drammatico al canto, dimostrò che si poteva, anzi si doveva, recitare sempre, quando si canta un melodramma. Ma non già scimmiottando il realismo di certi attori, o, peggio, di certi cantanti, bensì appunto che bisogna recitare con il canto. La Callas è stata quanto di più vicino io abbia mai ascoltato all’idea sublime del recitar cantando. I tempi in quegli anni non erano maturi. Ma sono sicuro che sarebbe potuta arrivare a darci un insuperabile Monteverdi. Ma perché sognare e desiderare ciò che non è stato? Riascoltiamo il finale della Gioconda – una musica mediocre che la Callas rende intensissima – e si capisce d’un botto che cosa sia recitare cantando. Si pensa quasi a Greta Garbo. Il confronto non sembri blasfemo. Ma una commedia tutto sommato mediocre come La Dama delle Camelie nell’interpretazione di Greta Garbo diventa sublime. In margine, vorrei dire a chi ha curato il doppiaggio italiano del commento originale francese alla Nuit de l’Opéra, trasmesso da RAI 5, che in italiano il termine soprano è sempre maschile, come maschili sono mezzosoprano e contralto. Il termine non si riferisce, infatti, al genere di chi canta, ma al rigo della polifonia, e nasce nel Quattrocento. In francese, e in spagnolo, è sentito come femminile, solo perché in queste lingue è stato introdotto dalla diffusione europea del melodramma italiano, a Settecento ormai inoltrato. Dava perciò immenso fastidio sentire dire, alla televisione italiana, “la soprano Maria Callas”, “la grande soprano”. Ma mi chiedo: a un orecchio italiano non stride l’articolo femminile accostato a un nome maschile?

Fiano Romano, 18 settembre 2017

lunedì 4 settembre 2017

Mario Quattrucci, due libri

Mario Quattrucci, Ogni giorno è quel giorno, Torino, Robin Edizioni, 2015, pagg. 184
Un delitto del ‘43 e altri racconti, Torino, Robin Edizionim 2016, pagg. 288

me lo portavo dentro il fare e l’essere
tutto ciò che fummo
ma adesso m’accorgo che ho perduto
anche ciò che non è e non ci attende:
ciò che avremmo dovuto e che non siamo

(Ogni giorno, pag. 33)

Più che una poesia, potrebbe anche essere un’epigrafe, un manifesto, un esergo. O un bellissimo epigramma alessandrino, se non addirittura bizantino, che so, Paolo Silenziario. Ma il termine greco, italianizzato, esergo, affascina di più: ἐξ ἔργον, fuori opera. E’ fuori della pagina, infatti, spesso, il suo senso. O, come vuole una poetica indiana del settimo secolo, lo dhvanya, ciò che nel testo non è detto, ma è l’assunto fondamentale. Vengono a mente i versi di Montale:

codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Era appena cominciato il ventennio fascista. Oggi, quel ventennio è, sembra alle spalle. Altri ventenni sono venuti. E altri ne sono minacciati. Perciò in Quattrucci quell’impotenza si fa doloroso rimpianto. Come dagli torto?

E tutto è: come non sia mai stato
e invece fu
e non è stato invano

Queste righe non sono una recensione, ma una riflessione in divenire, tutta ancora per frammenti, principiante, su un poeta e un narratore di cui si dovrebbe conoscere di più, saperlo nelle vetrine di tutte le librerie d’Italia. Ma questa è, appunto, oggi, la situazione italiana, anche, o soprattutto, della letteratura: diffuso e dibattuto il banale, il superfluo, l’inutile, la bazzecola di propaganda, il calembour pubblicitario, il cincischiamento del selfie. Mai l’occhio che fissa un oggetto, una realtà. Il verso che canti l’oggi (ma lo canti, perdinci! e non sia prosa sminuzzata). Il racconto che denudi la maschera sociale e faccia gridare che il re è nudo. Ecco, Quattrucci fa questo. Per cominciare, lo fa con la lingua. Un italiano scarno, scolpito nel lessico colto e parlato, dal poeta; e dal narratore, un intruglio o, piuttosto, un filtro alchemico, di prosa letteraria e di parlato romano, laziale, umbro, ma che non scade mai nel vezzeggiamento del particolare pittoresco, nel compiacimento del caratteristico, del dialettale. Ma il parlato narrativo non distingue tra lingua letteraria e lingua parlata, le mescola, e fa una lingua letteraria di questo mescolamento. Alle spalle c’è una lunga tradizione. Il primo nome che viene alla mente è certo Gadda, tra l’altro citato attraverso alcuni suoi neologismi, qualcuno famoso, già diventato tradizione. Ma si può andare indietro a Verga, al suo italiano intriso di sintassi siciliana. O perfino a Fogazzaro, scrittore oggi ingiustamente trascurato. E poi ci sono i triestini, Svevo, Slataper. Ma non si tratta di imitazione, quanto piuttosto di rinsaldare una tradizione parallela, antiretorica, della narrativa italiana, si potrebbe perfino fare il nome di Fenoglio. Ma c’è, naturalmente, anche il grande Belli. Soprattutto come inventore di vocaboli che nascono dalla storpiatura di vocaboli colti malcompresi dal parlante. Ma poi c’è anche l’altro livello, quello colto, anzi coltissimo, di cui si compiace l’ispettore Marè. Sarebbe difficile districare la matassa. La raccolta di questi racconti è, più che mirabile (anche!), una continua scoperta di nuovi piani psicologici del personaggio narrato, di nuove derive e invenzioni linguistiche. Ma c’è un racconto che, più di ogni altro, resta impresso nella memoria del lettore. E’ Nico er madonnaro. Il suo senso profondo si chiarisce con la lettura del racconto seguente: Hanno ammazzato Montalbano. Qui i personaggi dei racconti polizieschi si fanno persone, agiscono nella vita reale, si mescolano a persone reali. Viene in mente un film, bellissimo, di anni fa, in cui personaggi dell’animazione si mescolano a personaggi interpretati da attori in carne ed ossa: Chi ha incastrato Roger Rabbit? Reale e fantastico si mescolano, anzi si mescolano i generi, animazione e poliziesco. Quattrucci mescola i piani dell’invenzione narrativa di Camilleri e la propria. Anzi, tratta il personaggio di Camilleri non come un personaggio, ma come una persona reale. Entra ed esce dalla pagina, entra ed esce dal racconto, mescola invenzione e realtà, quest’ultima alla fine più irreale della finzione. Il grande nome è taciuto, ma subito evocato: Borges. Tra l’altro, non so quanti sappiano che il titolo italiano di una sua raccolta famosa di racconti è fuorviante: Finzioni. E’ la traduzione corretta del titolo spagnolo, ma la parola spagnola ficción ha un campo semantico più esteso di quella della parola italiana finzione. Significa soprattutto invenzione, e invenzione narrativa, solo in subordine finzione. Lo traduce meglio la parola inglese fiction. Quattrucci sembra assimilare il significato spagnolo, eludere quello italiano, se non per il fatto che comunque l’invenzione è a sua volta una finzione. E qui soccorre Pirandello. Ricordate come si chiude Sei personaggi in cerca d’autore? Verità? Finzione! No! Verità, Verità! Che finzione! Credo che una delle cifre che individuino la scrittura di Quattrucci sia proprio la densità di riferimenti culturali e letterari impliciti nella sua prosa, ma quasi mai dichiarati. E veniamo al racconto in cui Quattrucci sembra scoperchiare le sue carte. Nico, “cioè Nicola”, è un madonnaro, un pittore di strada. Ma a un certo punto si convince di non essere l’artista effimero di pitture che scompaiono con una spazzatura o che a tutti sembrano copie di immagini più elevate, pur essendo invece invenzioni originali. E così comincia a dipingere vere tele, e trova il modo di venderle, di camparci. Un mercante d’arte scopre la sua bravura e gli chiede di dipingergli copie di quadri moderni di pittori illustri. Nico scopre che il mercante lo frega. Gliele paga poche migliaia di euro quei falsi, ma li vende a fior di milioni. Lo scopre per caso, alla televisione, vedendo un compratore che si vanta dell’acquisto, lo crede un originale e non sa che invece è una copia. Nico allora monta su una tragica sceneggiata. Ricopia il quadro di cui si è vantato alla televisione il compratore. E ci scrive sopra: questo l’ho fatto io. E si spara. Proprio nell’indagare i modi di quel suicidio, Marè scopre come sono andate le cose. Il messaggio è terribile: la vera arte non è riconosciuta più da nessuno, ci si deve eliminare, si deve inscenare un delitto, perché finalmente gli occhi ipnotizzati del compratore, e del lettore, di oggi, distingua il vero dal falso, la verità dalla finzione. O piuttosto: la finzione vulgata, quella della pubblicità, del commercio, dell’inebetimento sociale di oggi, del declino delle competenze, della truffa dei nomi bombardati dal consumo, e dalla macchina pubblicitaria, tutto questo, questa finzione ch’è falsa, che non inventa, distinguerla, invece, dalla finzione che inventa un mondo, dall’immaginazione che inventa l’arte. E non è un caso che un messaggio così dolente sulla barbarie dell’incultura dominante sia espresso da un narratore di genere, dallo scrittore di racconti polizieschi. Perché il genere, cacciato dalla porta dell’estetica crociana, rientra, e di prepotenza, nell’immaginario della scrittura, dalla finestra dello sguardo sulla realtà. Il selfie, l’ombelico avidamente contemplato di tanti scribacchini di oggi, è qui sostituito dall’io consapevole di uno scrittore che sa benissimo come in ogni rigo della sua scrittura si materializzi l’orrore dell’oggi, anzi l’interminata fuga con cui l’oggi pensa di eludere sé stesso, e non sa invece, che alla fine di quella fuga non potrà incontrare che il proprio irrilevante non senso, la propria effimera insignificanza. Lo scrittore, chi è veramente scrittore, gli mette perciò lo specchio della propria scrittura davanti alla faccia: guardati, è questo che non vuoi vedere. Ma solo guardando ciò che non vuoi vedere, riuscirai, forse, a vedere te stesso.

Fiano Romano, 4 settembre 2017