lunedì 23 gennaio 2017

Una (inutile) polemica sul teatro di oggi

Mi scrive Alberto Garfagnini, da Genova:



Genova  22 gennaio 2017
LETTERA APERTA a DINO VILLATICO
Egr. Villatico, Lei ha definito oggi su  Robinsonn. 8 “meravigliose” (!)le invenzioni teatrali di Vick e ha rimbrottato il pubblico  ignorante a che ha reagito con “qualche fischio ingiustificato”.EccoleggerLa oggi mi ha fornito la solita sgradevole percezione di quanto siano ormai deteriorati i giudizi di coloro che dovrebbero rappresentare la cultura,ma che tuttavia cadono uno dopo l’altro nella trappola del pressapochismo. Anche Lei oggi si e’alineato con quella inspiegabile corrente di pensiero che pervicaci stravolgimenti,volgari e spesso demenziali  delle opere teatrali, siano in realta’ colpi di genio. Vedasi Michieletto e i suoi preservativi inscena, lo stupro di Donna Anna, o Rosina in minigonna e Lindoro in bermuda, ma potrei continuare con le offese all’intelligenza del recente  Ratto o le follie alla Livermore, o la schifezza de “ Il Ballo in Maschera “ di Michieletto (devo andare avanti?)
Tutte cose che molti  critici condividono non si sa bene in nome di quale cultura. I registi alla Vick che Lei ama toto corde (nel suo articolo non c’e’ traccia di una benche’ minima sollevazione del sopracciglio….)contribuiscono da anni ormai a creare tribu’ di “ignoranti” che si recano a teatro senza piu’ sapere cosa andranno a vedere  e “chi”  ha scritto “cosa”  e perche’. C’e’ da dire che e’ facile riempire i teatri  con persone che vivono ormai l’opera come uno spot televisivo e che nulla sanno dell’opera in allestimento.Piu’ facile quindi,  che avere una platea di musicofili (questi ultimi agli STAR-Registi danno molto fastidio, perche’ ohibo’, non cascano  nella  truffa...). Chi dissente viene giudicato come un povero beota (ma dovrebbe aver rimborsato il biglietto). E io non sono un beota, Villatico.
Il danno che i personaggi alla Vick perpetrano impunemente da anni e’ semplicemente devastante ed irreversibile. E non si capisce perche’ debbano attraversare indenni il panorama teatrale, senza subire gogna. Il loro EGO smisurato li rende insopportabili (dovrebbero essere confutati:altro che qualche fischio!). Confutati come? Basterebbe che i Villatico si ponessero loro una semplice  domanda: VICK+Mozart, MA PERCHE’?I Vick o le Cucchi esisteranno fino a che i Villatico plauderanno loro come  cortigiani fedeli. La chiamo in correita’, quindi. Lei approva  che le opere non siamo piu’ rappresentate in originale. Si chieda perche’ la Divina Commedia di Dante sia chiamata cosi’ e non l’ “Apoteosi della Gnocca”, dove Beatrice-  a Suo gusto -, potrebbe essere benissimo uno prostituta fiorentina dedita e lascivi comportamenti con Malacoda…E finisco con questa meditazione che Le sottopongo: se io avessi partecipato a Il Ballo in Maschera a Milano(opera che non conosco) , che idea avrei potuto farmi dell’opera e di Verdi? Sarebbe davvero interessante che Lei scrivesse un bell’articolo sul prossimo Robinson, esaustivo in merito a  quel PERCHE? che le ho suggerito.Ma che dico: LA SFIDO a farlo su Repubblica; suvvia : mi convinca!
 La saluto cordialmente  A.Garfagnini

Ecco la mia risposta:


Gentile Signor Alberto Garfagnini (lasciamo gli Egr. e simili agli epistolografi d’antan).
Intanto, alcune precisazioni.
1.Non ho mai “rimbrottato” il pubblico né tanto meno l’ho qualificato d’ “ignorante”. Ho semplicemente affermato che i fischi mi parevano “ingiustificati”, e ho anche spiegato anche perché.
2. Dovrei rappresentare la “cultura” e cado invece “nella trappola del pressapochismo”. Dove sta il pressapochismo, nel fatto che la mia cultura abbia parametri diversi dalla sua? E poi sarei io che accusa gli altri d’ignoranza! Ma soprattutto, io esprimo giudizi che argomento, lei lancia strali e giudizi inappellabili: che gliene dà il diritto? o pensa che il solo fatto di non condividere i suoi gusti teatrali costituisca per ciò stesso una devianza, un errore?
3. “Stravolgimenti volgari”. Che cosa c’era di volgare in questo Così fan tutte? Vick non lo è mai. E’, anzi, tra i registi moderni, uno dei più discreti. Altri sì, lo riconosco, possono apparire volgari (ma bisogna poi vedere dove, come e perché), ma Vick, mai. Vorrei, tuttavia, che leggesse invece attentamente il libretto di Da Ponte, pieno zeppo di doppi sensi e di allusioni oscene (l’aria di Despina è quasi un invito all’uso dei preservativi), il che è spiegato bene anche nel programma di sala. Tant’è vero che poi il borghesissimo e moralistico Ottocento giudicava quest’opera di Mozart, e Mozart in genere, “indecente”. Tra parentesi, Carla Maria Moreni, sempre domenica, sul Sole24Ore, è più entusiasta di me riguardo allo spettacolo e non fa un benché minimo accenno ad un’eventuale “volgarità”.
4. “Una platea di musicofili”, gli “STAR-Registi”. Ma da quando il melodramma è affare solo di musicofili? Nasce e si sviluppa soprattutto come teatro. Fin dalle origini. O “recitar cantando” è una fantasia della mia incultura e approssimazione? “Recitar”, si badi. “Cantando” è un gerundio, dunque lo strumento del verbo all’infinito: “recitar”. Per dire che si tratta soprattutto di “recitazione”, teatro. I personaggi cantano, è vero. ma la cosa non è diversa da quanto accade nella commedia e nella tragedia classica o nel teatro barocco inglese, francese, tedesco e spagnolo, dove gli attori recitano in versi. Che non è cosa più “verosimile” di cantare. Si tratta semplicemente di una convenzione teatrale.  La novità del melodramma è che gli attori cantano. Ma cantavano anche nel teatro antico, nel teatro indiano, cinese e giapponese.
5. “Il loro EGO” (dei registi) A parte quest’uso, questo sì, volgare e insopportabile, di maiuscole che nello scritto corrispondono al grido del parlato - alzare la voce fa capire meglio? – da quando un uomo di teatro non esaspera le sue visioni? Quello che ora lei scrive di Vick, e degli altri, pochi anni fa si diceva di Visconti e di Chéreau. La Traviata con la Callas alla Scala, che oggi è una leggenda, all’epoca fu giudicata “volgare e offensiva”. Perché non era la storia romantica al quale il pubblico si era abituato. Ma Visconti aveva ragione: non è una storia sentimentale e romantica, bensì la passione, ricambiata, di un borghese per una prostituta.
6. “Cortigiani fedeli”, i critici che “plaudono” al teatro moderno. Ma che cosa o chi glielo fa supporre? E’ sempre o corrotto o venduto che non la pensa come lei? E’ comprato il pubblico di mezzo mondo al quale questo teatro piace? Si rende almeno conto di avanzare affermazioni non documentate, contro le opinioni di persone, i critici, che hanno invece la professionalità di motivare i propri giudizi e comunque di argomentare le proprie descrizioni?
7. La “Divina Commedia” non fu chiamata così da Dante, ma da Boccaccio. Dante la intitolò semplicemente “Commedia”, perché scritta in “volgare”, di contro alla “tragedia”, ch’è in latino, come l’Eneide. Commedia e tragedia riguardavano lo stile e non, come oggi, un genere. Immagino che lei conosca la classificazione degli stili nella Retorica medievale, seguita da Dante. Tragico è lo stile alto, in latino, comico lo stile basso, in volgare, elegiaco lo stile della poesia individuale. O anche questa è una farneticazione della subcultura “approssimativa” del critico?
8. Il quotidiano “la Repubblica” s’intitola, appunto, “la Repubblica” e non “Repubblica”. Quindi, quando si fa precedere da una preposizione, questa va assimilata all’articolo, e bisogna scrivere “sulla Repubblica”, e non “su Repubblica”. Di fatti immagino che lei dica e scriva “sulla Stampa” e non “ su Stampa”, “sul Corriere della Sera” e non “su Corriere della Sera”. E’ vezzo invalso oggi, lo so, soprattutto nel Nord, di dire “in Fiat” invece che “nella Fiat”, ma ciò non toglie che la forma corretta sia quella che assimila l’articolo alla preposizione. “Nella Spezia” e non “in Spezia”, o, peggio, “in La Spezia”.
E veniamo ora a un’argomentazione generale che discuta quanto è affermato da lei nella sua lettera contro un presupposto “stravolgimento” delle regie moderne.  Anche qui c’è bisogno, però, di una premessa. L’ho detto e scritto tante volte. Repetita iuvant. Non esiste un criterio infallibile per mettere in scena un’opera teatrale, qualunque essa sia. Posso costruire uno spettacolo che rispetti le aspettative più “tradizionali” di una parte del pubblico, ma ciò non mi garantirà un risultato riuscito, o bello. Può venirne uno spettacolo accettabile, come anche, per usare il suo linguaggio, “una schifezza”. Uno dei registi più ossequenti (a suo dire) alla tradizione, e più amato da un certo pubblico, come Zeffirelli, di “schifezze” , mi scusi, ne ha allestite parecchie. Per esempio una Carmen a Vienna. Ma lasciamo correre. Così, se decido d’impostare la mia regia su un’interpretazione nuova dell’opera, non è detto, anche qui, che il risultato sia garantito. Posso fare una “meraviglia”, ma anche una “schifezza”, sempre per usare il suo linguaggio. Se pertanto io scrivo di uno spettacolo che mi è sembrato una meraviglia, il mio giudizio non dipende dal criterio di messinscena adottato dal regista, bensì dal fatto che oggettivamente, almeno per me, lo spettacolo mi è parso una “meraviglia”. Il che non toglie che, comunque, una regia moderna rischia quanto meno un’interpretazione, riuscita o no che sia, mentre una “tradizionale” si limita per lo più ad illustrare il testo, tant’è vero che poi i suoi punti di forza sono le scene e i costumi, laddove uno spettacolo moderno può perfino fare a meno di scene e costumi, perché si fonda sulla recitazione. E ciò vale per tutto il teatro, non solo per il melodramma. L’Amleto recitato recentemente a Londra da Cumberbatch, registrato e proiettato in vari cinema di Europa, era modernissimo, in abiti moderni, quasi senza scene, un’Ofelia che girava con una macchina fotografica appesa al collo e che riprendeva tutto, soprattutto da pazza. Ma raramente si è visto un Amleto più intenso, più profondo, più shakespeariano di questo, tenendo tra l’altro presente che all’epoca di Shakespeare n Inghilterra non c’erano né scene né costumi, e dunque gli attori avevano indosso gli stessi abiti del pubblico. Questo è un punto, per capire la messinscena che Vick, inglese, ha voluto costruire del Così fan tutte.
E adesso entriamo nel nodo della questione. Prendo l’argomento da lontano. Guardiamo la pittura italiana del Rinascimento e del Barocco. Ma potrei fare lo stesso discorso con la pittura spagnola, fiamminga, tedesca, anzi ancora meglio, perché più evidente, più forte l’impatto “attualizzante”. Ma restiamo all’Italia. L’Annunciazione di Leonardo ci presenta davvero una donna del I sec. a C., e cioè la Madonna, o non invece una grande ed elegante Dama Fiorentina dell’ultimo scorcio del Quattrocento, e l’Angelo, a parte le ali, è un angelo ideale o non piuttosto un bel giovane fiorentino, di quelli che piacevano a Leonardo, un bello ed elegante cavaliere che si presenta, quasi discinto, alla Madonna? Nel Martirio di San Matteo del Caravaggio, che si ammira a San Ligi de’ Francesi, a Roma, i personaggi appartengono all’antichità romana del primo secolo o, compresolo stupendo autoritratto, sono invece contemporanei del pittore? Veniamo al teatro. Nell’Ippolito Euripide fa lamentare a Fedra le condizioni di reclusione in cui è tenuta la donna.  Ma queste condizioni sono quelle del mito o quelle dell’Atene del V secolo in cui scriveva Euripide? Nell’Edipo a Colono Edipo chiede a Teseo l’ospitalità. Teseo gli risponde che quanto a sé gliela concederebbe, ma deve prima chiedere il parere dell’Assemblea (Boulè) dei cittadini ateniesi. Ora, Teseo è un Re del periodo mitico, l’Assemblea fu fondata dopo le riforme di Clistene, quando Atene divenne una democrazia. Evidente l’anacronismo.  Ma funzionale a ciò che Sofocle intende suggerire al pubblico: che in una democrazia anche il Re (leggi: Arconte) ha i suoi poteri limitati e controllati dall’assemblea popolare. Andiamo avanti. Passiamo a Shakespeare. Nel Re Giovanni a un cero punto, nella battaglia, sparano i cannoni. Ma siamo nel 1215, l’anno della Magna Charta! I cannoni non erano stati ancora inventati. Nel Giulio Cesare, Cesare si rivolge alla moglie Calpurnia chiamandola “madam” e le dà ora del “thou” ora del “you”.  Lo stesso fa Racine nella Bérénice. Tito e Berenice si danno del voi, com’è uso francese, ma non romano antico, e Tito chiama Berenice Madame, e Berenice chiama Tito Seigneur. Allora? Guardiamo le stampe delle rappresentazioni. Gli attori vestono abiti del Seicento. In Francia, come in Italia, come in Spagna. Il teatro è sempre stato teatro contemporaneo e ha sempre portato sulla scena i problemi del tempo. sia la tragedia sia la commedia sia il melodramma. Tanto più, poi, l’opera buffa, ch’era sempre allestita in abiti contemporanei e proponeva al pubblico problemi della società contemporanea. Non l’ha mica inventato Ibsen di portare sulla scena i dibattiti morali e sociali del tempo. Molière, allora. Ogni volta che leggo il Misantropo mi vengono i brividi: “La legge mi dà ragione e i giudici mi condannano!” dice Alceste.  Ma questo è il teatro. I registi “moderni” hanno il solo torto di volere restituire al pubblico di oggi questa contemporaneità. Possono, certo, sbagliare, esagerare, ma come tutti. Quando, però, centrano il problema fondamentale del testo lo spettacolo è entusiasmante. L’intuizione di Visconti, quando allestì la Traviata alla Scala fu che la vicenda non è una storia sentimentale e romantica, come ormai poteva intenderla il pubblico del secondo Novecento, se vista in abiti del primo Ottocento, ma il rifiuto sociale di una puttana. Posticipò l’azione alla fine dell’Ottocento, oggi l’avrebbe ambientata all’oggi. Dopo la festa Violetta butta in aria le scarpe e si massaggia le caviglie. Scandalo! Ma signori! Violetta è una “cocotte”, non lo sapevate? Solo che questa “puttana” (Verdi nelle lettere la chiama così) è più nobile degli altri personaggi che la condannano. E difatti perla sua morte scrive la musica di un’eroina. Si chiama teatro. La vicenda è ambientata nel 1850 (didascalia del libretto). L’opera andò in scena nel 1853. Verdi fu costretto a retrodatare la vicenda al XVII secolo, perché il pubblico (sempre lui!) non sopportava un melodramma tragico in ambienti e abiti contemporanei. L’opera buffa sì, ma il melodramma tragico no. Poi, nella ripresa parigina Verdi rimise le cose a posto. Nessuno chiese in seguito di retrodatare la vicenda. Verdi, a Ricordi che gli rammentava di essere un “grande musicista”, rispondeva: “io sono solo un teatrante”. Bisognerebbe ficcarselo bene in testa quando si va a teatro. Se Verdi, Mozart, Wagner avessero voluto fare solo musica, e non teatro, avrebbero scritto oratori e sinfonie, e invece hanno scritto melodrammi, drammi musicali. Se ne facciano una ragione i “musicofili”. Se no, si chiudano in casa e si ascoltino l’opera coi dischi o con i cd. Nemmeno con i dvd, perché anche quelli sono “sporcati” dai registi-star!

Fiano Romano, 23 gennaio 2017 

Giudicate voi.



venerdì 20 gennaio 2017

Rafael Chirbes, Paris-Austerlitz.



Rafael Chirbes, Paris-Austerlitz, Barcelona, Anagrama, 2016, pagg. 156, € 15,90

E’ l’ultimo romanzo di Rafael[1] Chirbes. Finito a pochi mesi dalla morte.  Ma trascinato per anni, dal 1996 al 2015, prima di trovare una stesura definitiva. Credo tuttavia che questa non sia la stesura definitiva, se non per l’editore, che lo ha pubblicato postumo. Chirbes ci avrebbe sicuramente lavorato ancora, lo avrebbe ulteriormente prosciugato, avrebbe eliminato qualche ridondanza, qualche ripetizione.  Ma anche così è un capolavoro. Duro, disperato, senza illusioni sull’infelicità dell’uomo. Un giovane spagnolo dell’alta borghesia di Madrid, genitori ricchi e “illuminati”, ostentatamente di sinistra, lascia la famiglia e si piazza a Parigi, senza il becco di un quattrino., inseguendo il miraggio di una mostra dei suoi quadri. Scoprirà alla fine di essere stato imbrogliato e derubato dal gallerista. La narrazione non segue l’ordine degli eventi, ma va su e giù, sull’onda dei ricordi. E’ il giovane stesso a raccontare gli avvenimenti, in prima persona. Cacciato dall’appartamento che condivideva con alcuni amici, perché da mesi non paga la sua parte dell’affitto, il giovane decide di spendere gli ultimi soldi in un ristorante. Il ristorante è pieno e lo fanno sedere allo stesso tavolo di un anziano operaio, Michel, un uomo robusto, muscoloso, e ancora prestante. Normanno, di famiglia contadina, sulle mani i segni del suo lavoro, le unghie con i bordi neri. I due dividono il dessert, perché l’ultimo rimasto: l’île flottante. E cominciano a parlare. Escono insieme per bere qualcosa in un bar. Michel invita il giovane a casa sua. Nasce così la loro storia. Ma raccontata dalla fine, quando è finita, e quando Michel è morto in ospedale di cancro. I temi si ammucchiano, si sovrappongono, la fragilità del sentimento amoroso, il suo logoramento, il disagio, l’angoscia, quando finisce in uno, ma non nell’altro. E il ricatto oggettivo della malattia, di cui Michel fa un’arma per trattenere il giovane. Il commiato finale è straziante, Michel è stato trasferito dall’ospedale di Vincennes a quello di Rouen, avvolge il collo del giovane con le braccia: non lasciarmi qui solo. Ma il giovane torna a Madrid. E’ una storia come ce ne possono essere tante, anche tra un uomo e una donna. Ma qui sono due uomini, e questo crea problemi nelle loro famiglie. Soprattutto in quella del giovane spagnolo. La madre, bella, ricca, “progressista”, all’idea, però, di un figlio che convive con un altro uomo e per di più di classe sociale inferiore, crolla. La disuguaglianza sociale pesa anche nel rapporto tra il giovane e Michel. Michel glielo rinfaccia, il giovane protesta, ma riconosce che è così. Conduce l’operaio alle mostre, nei musei. Ma si accorge che è un mondo che non gli appartiene. I due mondi, quello intellettuale del giovane e quello contadino e operaio di Michel non s’incontrano. Finita la furia del desiderio, l’amore si spegne. Ma nel giovane, non nel vecchio operaio. Michel guarda il giovane mentre si fa la doccia: come sei bello! Il giovane, finanziato dai suoi, affitta un appartamento, dal quale può vedere quello di Michel. Ma è l’inizio della separazione. Il lettore è condotto via via a scontrarsi con la durezza di questa separazione pagina per pagina, attraverso gli atti quotidiani del giovane e dell’operaio. E’ una storia comune, come tante, ma proprio per questo il dolore dell’inevitabile è raccontato con intensità quasi insopportabile. Perfino l’uso del preservativo diventa per Michel un segno del fatto che il giovane non gli si abbandona: si può scopare solo per chiedere aiuto. Non è necessario amarsi. Ecco la pagina iniziale e quella finale del romanzo.

Bromeaba, le tomaba el pelo, me reía mientras caminábamos por el sendero de grava. Se prestaba al juego. Colaboraba buscando alguna anécdota divertida que hubiéramos compartido. Se le animaban los cortos pasos de viejo. Las tardes en que me acerqué a verlo al Hôpital Saint-Louis parecía que cicatrizaba la herida que habían dejado nuestros desencuentros (maintenant, on s’aime comme des bons amis), y que incluso quedaba en suspenso la enfermedad. Un halo inocuo flotaba entre los rayos del sol de invierno del que habíamos disfrutado sentados en un banco del jardín. Pero cuando llegaba el momento de la despedida, se plantaba inmóvil ante la puerta y fijaba en el vacío aquellos ojos amarillentos que se le encharcaban, los dos sabíamos que la tregua había concluido: ni el mal renunciaba a su trabajo, ni mis visitas le producían consuelo. Lo decía su amiga Jeanine: sufre cuando te ve, le traes los recuerdos, echas sal en la llaga. Me marchaba de allí sin volver la cabeza y buscaba alguno de los bares de République para tomarme un par de calvados.

(Scherzavo, lo prendevo in giro, mi sorrideva mentre camminavamo per il sentiero di ghiaia. Si prestava al gioco. Collaborava cercando qualche aneddoto divertente che avessimo condiviso. Gli si animavano i passi corti di vecchio. I pomeriggi in cui mi spinsi a vederlo all’Hôpital Saint-Louis sembrava che si cicatrizzasse la ferita che avevano lasciato i nostri mancati incontri (maintenant, on s’aime comme des bons amis), e che restasse perfino in sospeso la malattia. Un alone innocuo galleggiava tra i raggi del sole invernale di cui avevamo approfittato seduti su una panca del giardino. Ma quando arrivava il momento del commiato, si piantava immobile davanti alla porta e puntava nel vuoto quegli occhi giallognoli che gli si allagavano, tutti e due sapevamo che la tregua si era conclusa: né il male rinunciava al suo lavoro, né le mie visite gli producevano conforto. Lo diceva la sua amica Jeanine: soffre quando ti vede, gli porti ricordi, butti sale sulla piaga. Me ne andavo via di lì senza voltare il capo e cercavo qualcuno dei bar di République per scolarmi un paio di calvados)[2].

No me dejes, suplicaba. Ma hacía daño, me clavaba las uñas en la espalda. Voy a perder el último tren, insistí. Y, para librarme, me vi obligado a separar con cierta violencia los dedos que había hundido en los hombros y a tirar con fuerza de sus brazos hacia arriba. Tengo que irme, repetí varias veces con una voz suave que pretendía excusar la brusquedad del gesto con que lo había apartado. Insistí: volveré y encontraremos el modo de que te vengas conmigo a España para reposar durante algún tiempo. Lo haremos así. Se agitaron un istante sus brazos y piernas, descarnados como patas de insecto; luego se quedó inmóvil, dejó caer la cabeza sobre la almohada y emepzó a sollozar de manera entrecortada, con un gran pesar; y los sollozos se convirtieron en pocos segundos en un lamento initerrumpido que fue creciendo de volumen, ocupó la habitación y me siguió por los pasillos del hospital mientras me dirigía hacia la perta de salida.
(Non lasciarmi, supplicava. Mi faceva male, mi ficcava le unghie nella spalla. Perderò l’ultimo treno, insistei.  E, per liberarmi, mi vidi costretto a separare con una certa violenza le dita che aveva affondato negli omeri e a tirare sopra con forza dalle sue braccia. Devo andarmene, ripetei più volte con una voce soave che pretendeva scusare l’asprezza del gesto con cui l’avevo scostato. Insistei: tornerò e troveremo il modo di farti venire con me in Spagna per riposare un certo tempo. Faremo così. Si agitarono un istante le sue braccia e le sue gambe, scarnificate come zampe d’insetto; poi rimase immobile, lasciò cadere la testa sul cuscino e cominciò a singhiozzare in modo convulso, con grande fatica; e i singhiozzi si convertirono in pochi secondi in un lamento ininterrotto che andò crescendo di volume, occupò la stanza e mi seguì per i corridoi dell’ospedale mentre mi dirigevo verso la porta d’uscita)[3].

Quella “porta d’uscita” è insieme la fine dell’amore, della vita di Michel, del romanzo. Questa densità metaforica della scrittura è tipica di Chirbes. Ho cercato di rendere nella traduzione la secchezza dell’originale. Resta l’amaro in bocca dell’insignificanza dei nostri gesti quotidiani, e tuttavia anche la consapevolezza che in ciascuno di quei gesti sta racchiuso il senso del nostro destino, del percorso della nostra vita, che trae significato proprio dall’accumularsi di tanti gesti e di tante azioni a prima vista senza significato. O con un di più di significato, che il tempo si preoccupa presto di dissolvere, di sciogliere nell’aria. In margine: talune descrizioni, soprattutto notturne, di Parigi, sono mirabili. Chi conosce la città, leggendo, è assalito da una nostalgica emozione. Chi non la conosce, prova voglia di andarci, se non altro per confermare o smentire l’affermazione del giovane spagnolo che Parigi è la città più bella del mondo. Quanto a me, comfermo. Mi auguro che qualche editore italiano si accorga di quest’ultimo libro di Chirbes. Chi, perché conosce lo spagnolo, legga il romanzo nella lingua in cui è stato scritto.
Fiano Romano, 20 gennaio 2017


[1] L’accento cade sulla e: Rafaél.
[2] Questo inizio è stato già da me citato nel blog Lo stile. L’attacco di due recenti romanzi spagnoli: Henández e Chirbes, del 16 gennaio scorso. E alle pagine 7 e 8 del romanzo.
[3] Pagg. 152-153.

lunedì 16 gennaio 2017

Lo stile. L'attacco di due recenti romanzi spagnoli: Hernández e Chirbes.



Lo primero que vi fue la sombra. Inmóvil, fija, eterna, proyectada sobre un pequeño muro semiderruido que no levantaba más de metro y medio del suelo. Después presté atención al paisaje de fondo, el horizonte, el bosque, los árboles espigados y desnudos que desbordaban el encuadre de la imagen. Nada se movía en la escena. Nada se oía. Por un momento pensé que el archivo era defectuoso o que mi conexión no funcionava correctamente. Pero enseguida advertí que la barra de reproducción había comenzado a avanzar. El tiempo corría, aunque los objetos de la escena no se desplazaran, aunque todo permaneciera igual después de varios minutos. La sombra, el paisaje, el muro, el plano. El movimiento parecía haberse frenado ingual que lo hace en una fotografía.
Miguel Ángel Hernández, El instante de peligro, Barcelona, Editorial Anagrama, 2015, pag. 15.
(Per prima cosa vidi l’ombra. Immobile, fissa, eterna, proiettata su un piccolo muro semidistrutto che non s’alzava più di un metro e mezzo dal suolo. Dopo prestai attenzione al paesaggio di fondo, l’orizzonte, il bosco. gli alberi slanciati e nudi che oltrepassavano l’inquadratura  dell’immagine. Niente si muoveva nella scena. Niente si udiva. Per un attimo pensai che l’archivio fosse difettoso o che la mia connessione non funzionava correttamente. Ma subito mi accorsi che la sbarra di riproduzione aveva cominciato ad avanzare. Il tempo scorreva, anche se gli oggetti della scena non si spostavano, anche se tutto rimaneva uguale dopo vari minuti. L’ombra, il paesaggio, il muro, il piano. Il movimento sembrava essersi fermato come lo fa in una fotografia).
Miguel Ángel Hernández, L’istante di pericolo.
Articular históricamente el pasado no significa conocerlo come verdaderamente ha sido. Significa apoderarse de un recuerdo tal como éste relampaguea en un instante de peligro.
(Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo come veramente è stato. Significa impossessarsi di un ricordo così come esso lampeggia in un istante di pericolo).
Walter Benjamin

Bromeaba, le tomaba el pelo, me reía mientras caminábamos por el sendero de grava. Se prestaba al juego. Colaboraba buscando alguna anécdota divertida que hubiéramos compartido. Se le animaban los cortos pasos de viejo. Las tardes en que me acerqué a verlo al Hôpital Saint-Louis parecía que cicatrizaba la herida que habían dejado nuestros desencuentros (maintenant, on s’aime comme des bons amis), y que incluso quedaba en suspenso la enfermedad. Un halo inocuo flotaba entre los rayos del sol de invierno del que habíamos disfrutado sentados en un banco del jardín. Pero cuando llegaba el momento de la despedida, se plantaba inmóvil ante la puerta y fijaba en el vacío aquellos ojos amarillentos que se le encharcaban, los dos sabíamos que la tregua había concluido: ni el mal renunciaba a su trabajo, ni mis visitas le producían consuelo. Lo decía su amiga Jeanine: sufre cuando te ve, le traes los recuerdos, echas sal en la llaga. Me marchaba de allí sin volver la cabeza y buscaba alguno de los bares de République para tomarme un par de calvados.
(Scherzavo, lo prendevo in giro, mi sorrideva mentre camminavamo per il sentiero di ghiaia. Si prestava al gioco. Collaborava cercando qualche aneddoto divertente che avessimo condiviso. Gli si animavano i passi corti di vecchio. I pomeriggi in cui mi spinsi a vederlo all’Hôpital Saint-Louis sembrava che si cicatrizzasse la ferita che avevano lasciato i nostri mancati incontri (maintenant, on s’aime comme des bons amis), e che restasse perfino in sospeso la malattia. Un alone innocuo galleggiava tra i raggi del sole invernale di cui avevamo approfittato seduti su una panca del giardino. Ma quando arrivava il momento del commiato, si piantava immobile davanti la porta e puntava nel vuoto quegli occhi giallognoli che gli si allagavano, tutti e due sapevamo  che la tregua si era conclusa: né il male rinunciava al suo lavoro, né le mie visite gli producevano conforto. Lo diceva la sua amica Jeanine: soffre quando ti vede, gli porti ricordi, butti sale sulla piaga. Me ne andavo via di lì senza voltare il capo e cercavo qualcuno dei bar di République per scolarmi un paio di calvados).
Rafael Chribes, Paris-Austerlitz, Barcelona, Ediotorial Anagrama, 2016, pagg.7-8.
Ecco qua gli attacchi di due romanzi spagnoli. Uno dal secondo romanzo di Miguel Ángel  Hernández, El instante de peligro, L’istante di pericolo, che fa seguito al bellissimo Tentativi di fuga (in spagnolo Intento de escapada).   Il secondo brano è l’inizio dell’ultimo romanzo di Rafael Chirbes. Il titolo del romanzo di Hernández nasce da un pensiero di Benjamin. sopra citato, e collocato dallo scrittore a intestazione del romanzo.  Il romanzo di Chirbes ha il titolo di una stazione ferroviaria di Parigi, città dove si svolge la vicenda. Perché cito queste due pagine, tradotte un po’ provvisoriamente e all’impronta? perché mi sembrano una conferma di ciò che chiamo lo “stile” di uno scrittore. Duttilissima l’articolazione del periodo. Dalla più nuda paratassi a un uso sobrio, ma sapiente di subordinate. Efficacissima la collocazione delle parole, la scelta dei vocaboli, senza per questo cadere in vacui preziosismi.  In entrambi gli scrittori un’idea ossessiva tipica della letteratura spagnola: l’ossessione del tempo, la divaricazione, la separazione tra la realtà e la sua percezione. Nel romanzo del giovane Hernández c’è perfino un’allusione alla teoria del tempo, come misura del movimento. In Chirbes il dolore del passato, il ricordo di ciò che si è perso, innerva ogni frase, la fa quasi sanguinare. Il ritratto del “vecchio” Michel, un operaio, amante, anzi ex-amante del giovane narratore, è una figura mirabile, esempio di come la sofferenza si faccia più acuta e insieme più pudica in chi non ha né la cultura né il linguaggio per esprimerla. Mi fermo qui. Che io sappia i due romanzi non sono stati ancora tradotti in italiano. Chi può, li legga in spagnolo, oltretutto sono scritti in una lingua bellissima. Altrimenti facciamo tifo perché qualche editore se ne accorga. Del resto Chirbes vinse anni fa lo Strega come migliore narratore straniero, e una volta tanto lo Strega era meritatissimo.
Buona lettura!
A breve, spero di poterne scrivere più diffusamente sul mio blog.
Fiano Romano, 16 gennaio 2017