giovedì 11 ottobre 2018

Roma, Teatro dell'Opera, Il Flauto Magico

ROMA. TEATRO DELL’OPERA. DIE ZAUBERFLÖTE (IL FLAUTO MAGICO) di Wolfgang Amadé Mozart. Libretto di Emanuel Schikaneder.

Pamina                                              Amanda Forsyte
Tamino                                              Juan Francisco Gatell
La Regina della Notte                          Christina Poulitsi
Sarastro                                            Gianluca Buratto
Monostatos                                        Marcello Nardis
Papageno                                          Alessio Arduini
Papagena                                          Julia Giebel
Prima Dama                                       Louise Kwong*
Seconda Dama                                   Irida Dragoti*
Tyerza Dama                                      Sara Rocchi*
L’Oratore                                           Andrij Ganchuk*
Primo Armigero                                  Domingo Pellicola*
Secondo Armigero                              Timofei Baranov*
Primo Genietto                                   Giulia Peverelli**
Secondo Genietto                               Ercole Cortone**
Terzo Genietto                                   Agnese Funari**

Direttore e concertatore Henrik Nánási
Regia Barrie Kosky e Suzanne Andrade

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Video Paul Barrit
Ideazione “1927” (Suzanne Andrade e Paul Barrit)
e Barrie Kosky
Scene e costumi Esther Bialas
Drammaturgia Ulrich Lenz
Luci Diego Leetz

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Allestimento della Komische Oper di Berlino

Prima rappresentazione: 9 ottobre 2018
Repliche: 10, 11,12,13,14, 16, 17 ottobre

* Dal progetto "Fabbrica" Young Artist Program del Teatro dell'Opera di Roma
** Scuola di Canto Corale del Teatro dell'Opera di Roma 



Giustamente Ulrich Lenz, il “drammaturgo” dello spettacolo (figura essenziale del teatro tedesco, inesistente sulle nostre scene), nelle note sul programma di sala, smonta la tradizionale ma sbagliata opinione che il libretto del Flauto Magico sia uno scombinato, pasticciato montaggio di suggestioni diverse e contrastanti, e che risulti pertanto lo scombiccherato copione di un teatrante sprovveduto. Piacque invece subito al pubblico, e non solo per la musica, ma proprio per la vicenda così piena di colpi di scena e per i significati ad essa associati, che non sono solo quelli della massoneria, alla quale sia Mozart sia Schikaneder erano affiliati. Piacque immensamente a Goethe, anche lui massone, che ne scrisse quello che oggi diremmo il sequel. Immaginò che la Regina della Notte rapisca il figlio di Tamino e Pamina, che poi è liberato dalle forze del Bene, tra le quali l’Ouroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo del ripetersi ciclico delle cose. La casa editrice di Palermo, Novecento, nel 1983 ne ha pubblicato la traduzione italiana, a cura di Maria Teresa Galluzzo. Goethe aveva colto nel segno, perché di fatti Il flauto magico è innanzi tutto una fiaba, e come tutte le fiabe non ambisce alla coerenza narrativa e soprattutto non imposta psicologicamente i personaggi dell’azione. Tamino è l’eroe che deve superare alcune prove per raggiungere l’amata. Lo affianca un socio “comico”, Papageno, come Sancio Panza affianca Don Chisciotte, I simboli, e qui nel caso anche massonici, fanno parte del racconto, di qualunque racconto fiabesco, ne costituiscono anzi, spesso, il nucleo da cui parte la storia, va comunque cercato in essi il significato più profondo della narrazione. Attraverso i simboli sono suscitate in ciascuno, ascoltatore, lettore, spettatore, le associazioni di idee, di fantasie, di sentimenti che giacciono inconsci nell’animo. Da qui la fortuna che fin dalla prima sera arride fino ad oggi all’opera, tra le più rappresentate e preferite dal pubblico di tutto il mondo. Lo spettacolo che si è visto al Teatro dell’Opera di Roma è affascinante, coinvolgente, e viene dalla Komische Oper di Berlino. Paul Barrit e Suzanne Andrade, i registi, sono anche gli ideatori e animatori di “1927”, un’istituzione e insieme un’idea di teatro che riacquisisce tecniche figurative del cinema muto. Il 1927 è l’anno in cui fu girato il primo film sonoro, Il cantante di Jazz, con Al Jolson. Ma nessuno, allora, credette che l’invenzione del cinema sonoro avesse un futuro. Ciò, perché il cinema muto era arrivato a un grado di sperimentazione di sempre nuove tecniche strabiliante. Soprattutto nell’indagare gli abissi del male, della cattiveria: tre capolavori indimenticabili, Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, nel 1920, e nel 1922 Il dottor Mabuse di Fritz Lang e Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau. Kosky e Andrade rievocano, con mezzi moderni, senza volerne imitare lo stile, ma se mai l’idea, la concezione di un cinema che indaga i lati oscuri dell’uomo, immaginano la scena come uno schermo sul quale si proiettano le figurazioni di un mondo cupo e fantastico. La Regina della Notte è un teschio, uno scheletro in forma di grande Ragno malefico che attira nella sua rete tutti i personaggi che entrano in contatto con lei. Il soprano Christina Poulitsi, impeccabile e precisa, ma piuttosto gelida, e forse così accresce il terrore che incute, appare incapsulata come una crisalide nel fuoco dell’iperbole costituita dalla sua tela di ragno. Solo le zampe si agitano minacciose sul pavimento.



 Tamino, uno straordinario, intenso Juan Francisco Gatell, così come Pamina, una dolcissima Amanda Forsyte, bravissima nel passare dalla gioia al dolore, nel rappresentare, cantando, i mutevoli stati d’animo del personaggio, e Papageno, Alessio Arduini, disinvolto, un clown perfetto, Papagena, Julia Giebel, che gli tiene banda, Sarastro, Gianluca Buratto, solenne ma anche inquietante, ambiguo, sfuggente, il mostruoso Monostatos di Marcello Nardis, con un candido cranio abnorme, e il nero del suo cuore tutto assorbito dall’ampio mantello, e tutti gli altri personaggi, sbucano da fenditure della parete, poggiati su piedistalli aerei, che si muovono come tornelli, e tra di loro le parole delle parti parlate (Il Flauto Magico ha per modello teatrale, anche se lo oltrepassa e stravolge, il Singspiel, alterna cioè parti cantate e parti parlate) i dialoghi, insomma, sono scagliati visivamente in diverse dimensioni e creano quasi un effetto di fumetto, più che di vera e propria didascalia di cinema muto.






 I personaggi cantano, ma quando devono parlare compaiono i fumetti. Si vedono, inoltre, elefanti che volano, lupi che aggrediscono Tamino quando vuole avvicinarsi a Pamina, un simpatico gatto nero che Papageno accarezza sulla testa, un enorme démone che sputa fuoco, durante le prove di Tamino e Pamina, e si fa sorridente quando i due giovani superano la prova. 




Il flauto magico è un folletto, una femmina nuda, una sorta di Campanellino da Peter Pan che circola e svolazza nell’aria. Il glockenspiel, la scatola di campanelli, di Papageno, un pacco di cartone bianco dal quale sbucano, disegnate, le note della musica. E’ tutto un furore d’immagini che sembrano la visualizzazione della musica che si ascolta dall’orchestra. A tenere insieme tutte le complesse e variegate fila musicali della partitura, Mozart passa dal popolare del Volkslied viennese in bocca a Papageno, al sublime da opera serie della Regina della Notte o di Sarastro, di Tamino, o degli Armigeri – in mezzo la vacanza dei tre genietti, il divertissement delle tre Dame, sorta di aerea prefigurazione delle fanciulle fiore del Parsifal – a costruire la cattedrale musicale che dalla buca e dalla scena arriva al pubblico, con mano esperta, con una lettura lucida e intensa, c’è l’ungherese Henrik Nánási.



 Lo assecondano con duttilità ed efficacia tutti gli interpreti. E perciò alla fine esplode entusiastico l’applauso del pubblico. Solo dal loggione si ode qualche sparuto dissenso, qualche timido “buu”. Subito zittito dal fragore degli applausi. Evidentemente non mancano mai in teatro i disinformati illusi che credono tradizione solo ciò che sono abituati a vedere. Il Theater auf der Wieden, dove Il flauto magico di Mozart fu dato per la prima volta, nel 1791, era un teatro famoso per i suoi fantasiosi e surreali effetti di scena. Sono sicuro che a Volfango questo spettacolo sarebbe piaciuto da morire. Perché è un teatro tutto fondato sulla fantasia e sul gioco. In tedesco recitare si dice spielen, giocare. Se ne facciano una ragione gli italiani che storcono il naso appena arriva in Italia uno spettacolo tedesco. Ma ce ne fossero di più! O imparassimo noi a farne di altrettanto fantasiosi e giocosi (in realtà ce ne sono, per fortuna, e non pochi!).

Dino Villatico

martedì 9 ottobre 2018

Luca Scarlini, Il Caravaggio rubato







Nella notte tra il 17 e 18 ottobre 1969, fu trafugato, dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, un dipinto di Caravaggio: la Natività coi santi Francesco e Lorenzo. La tela non è stata più ritrovata. Leonardo Sciascia ne scrive nel suo ultimo racconto: Una storia semplice.


Scrive, tra l’altro: “Sono sempre stato dell’opinione che l’Italia – cioè lo Stato, gli enti locali e ogni altra pubblica amministrazione – dovrebbe rinunciare, totalmente e definitivamente, alla custodia e manutenzione delle opere d’arte e anche dei manoscritti e dei libri rari. Non potendoci permettere il lusso di regalare quadri, manoscritti e libri a quei paesie a quelle istituzioni che sanno ben conservarli e proteggerli, si potrebbero fare delle grandi aste che certamente frutterebbero quanto basta per portare tanta gente dalle baracche alle case e per risolvere il problema idrico di tanti paesi meridionali: e l’effetto sarebbe così doppiamente proficuo, ché ri risolveremmo problemi altrimenti insolubili (a quanto pare) e ci assicureremmo della sopravvivenza (non importa in quale altro paese del mondo) di opere destinate in Italia al trafugamento e alla distruzione. Ma a questa soluzione, che è tanto sensata e ovvia da parere paradossale, si oppone naturalmente l’orgoglio nazionale, che è un sentimento del tutto alieno dalle cose concrete, che si appaga di parole e svanisce. L’Italia è il paese dell’arte: ma le opere d’arte vadano in malora. Ancora una volta dobbiamo amaramente constatare che questo non è un paese civile. Non lo è nelle baracche dei terremotati e degli immigrati, a Montevago come nella periferie torinese; e non lo è nella conservazione delle opere d’arte e delle testimonianze storiche. Sembra che non ci sia relazione tra un Caravaggio facilmente rubato a Palermo e una famiglia costretta a vivere in sei metri quadrati di baracca: e invece c’è, precisa, assoluta. Se il baraccato costituisse preoccupazione. Uguale preoccupazione costituirebbe il Caravaggio di San Lorenzo, la Zisa, Sabbioneta e il disegno di Leonardo. C’è una interdipendenza, un legame d’ordine: del solo e vero ordine che un paese civile deve tenere”. 

 


Queste parole sembrano l’eco di altre simili, scritte da Proust, qualche decennio prima: che l’Italia sarebbe il paese più inestetico del mondo, perché un paese estetico non è un paese con molte opere d’arte, ma un paese che sa preservarle e proteggerle.


Sul furto del Caravaggio sono stati scritti molti altri libri, oltre a quello di Sciascia, e si sono fatte molte ipotesi, tra le quali si è alla fine affermata la certezza che fosse opera della mafia. Recentemente è stato anche girato un film, da Roberto Andò, Una storia senza nome. Questo libricino di Luca Scarlini - Il Caravaggio rubato. Mito e cronaca di un furto, Palermo, Sellerio, 2018 (nella collezione “Il divano”; prima edizione nella collana “La nuova diagonale, 2012), pp. 142, € 12,00 – è una preziosa messa a punto, e dell’opera e della vicenda del furto.


Il quadro non è stato più trovato. Al suo posto è stata collocata una copia. E nient’altro. Il degrado della zona resta quello di sempre. Del resto, a Roma crollano i tetti di chiese storiche, a Genova crollano ponti giudicati miracolo d’ingegneria, e mi dice un’amica archivista che dalle biblioteche scompaiono manoscritti e libri preziosi. Proust e Sciascia non scrivono lamenti, o ingiurie: constatano una realtà. Ci fu addirittura chi accusò Proust di supponenza tipicamente francese. Perché, naturalmente, “l’orgoglio nazionale”, di cui parla Sciascia, scatta risentito, non si preoccupa di verificare se l’accusa di Sciascia e, prima, l’allarme di Proust siano veritieri, ma si limita ad assicurarsi che le parole di nessuno, tanto più se straniero, non offuschino l’onore nazionale, difeso, appunto, quasi solo con e dalle parole. Che dire?


Il disastro corrisponde al livello culturale del paese. Ultimi in Europa quanto a livello d’istruzione, d’innovazione nell’amministrazione pubblica e nell’industria (Riccardo Iacona lo ha bene illustrato ieri sera a Presa diretta). Ma furoreggia, anche, e sempre più rabbiose, l’insofferenza, l’inimicizia per la competenza. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Finiremo tutti nel baratro, come nella Parabola dei Ciechi di Brueghel il Vecchio, consevata nel Museo di Capodimonte a Napoli.




Fiano Romano, 9 0ttobre 2018

domenica 7 ottobre 2018

Roma, Teatro di VillaTorlonia: Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi







REATE FESTIVAL

Claudio Monteverdi
Il ritorno di Ulisse in patria
Libretto di Giacomo Badoero

(Prima rappresentazione a Roma e a Rieti)

Enrico Torre Humana Fragilità, Pisandro, Feace
Piero Facci Tempo, Nettuno,
Vittoria Giacobazzi Fortuna, Giunone
Sabrina Cortese Amore, Minerva
Gianluca Bocchino Giove
Mauro Borgioni Ulisse
Lucia Napoli Penelope
Roberto Manuel Zangari Telemaco
Giacomo Nanni Antinoo, Feace
Luca Cervoni Anfinomo, Feace
Antonio Sapio Eurimaco
Michela Guarrera Melanto
Andrés Montilla-Acurero Eumete
Alessio Tosi Iro
Tonia Lucariello Ericlea
Attori Alessio Arzilli
Alessandro Meringolo
Andrea Sorrentino

Direttore Alessandro Quarta
Regia Cesare Scarton
Scene Michele Della Cioppa
Costumi Anna Biagiotti
Luci Andrea Tocchio

Reate Festival Baroque Ensemble

Sopratitoli a cura di Prescott Studio, Firenze

In collaborazione con Fondazione Alberto Sordi per i giovani, Accademia Filarmonica Romana, Teatro dell’Opera di Roma.

Roma, Teatro di Villa Torlonia: 5, 6, 7 ottobre 2018
Rieti, Teatro Flavio Vespasiano: 10 ottobre 2018


Strano, inaudito, ma è la prima volta che a Roma si rappresenta Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi. A Venezia c’è voluta l’impresa di Eliot Gardiner per portarle sulla scena della Fenice tutte e tre le opere di Monteverdi che ci sono rimaste, La favola di Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea. Alla Scala sono state messe in scena una alla volta, una per anno, dirette da Rinaldo Alessandrini, con la regia di Robert Wilson, La favola d’Orfeo nel 2009, Il ritorno di Ulisse in patria nel 2011, e L’incoronazione di Poppea nel 2015. Altrove, in Europa, in molti teatri sono di repertorio. Eppure Claudio Monteverdi è il più grande compositore e drammaturgo di tutta la nostra storia musicale e teatrale. E’, in qualche modo, il nostro Shakespeare: il teatro tragico che, fino all’Alfieri, l’Italia non è mai riuscita a portare sulle scene con un respiro che eguagli il teatro elisabettiano, spagnolo del “siglo de oro” e francese classico. Salvo, appunto, Monteverdi. E Francesco Cavalli, suo allievo e successore a Venezia, sia nella Cappella Ducale che in teatro. Proust scriveva che l’Italia è il paese più inestetico del mondo, perché un paese estetico non è un paese con tante opere d’arte, ma un paese che sa preservarle, custodirle e valorizzarle. E in quest’ultimo affare noi siamo un vero disastro. Opportunamente, dunque, il festival di Rieti, Reate Festival, che però s’inaugura al Teatro di Villa Torlonia di Roma, ha sfidato l’insipienza e la scellerataggine di una tradizione votata allo scempio del nostro patrimonio artistico e culturale, e ha messo in scena proprio la meno fortunata, la meno nota, e famosa, delle tre opere monteverdiane, ma non certo la meno bella, perché sono tre insuperati capolavori. Alla nobile impresa hanno collaborato, oltre al festival reatino, la Fondazione Alberto Sordi, l’Accademia Filarmonica Romana e il Teatro dell’Opera di Roma. Impresa da far tremare le vene e i polsi. Il trionfo e il diffondersi del melodramma romantico, infatti, e poi di quello cosiddetto veristico, ha fatto perdere la consapevolezza di che tipo di teatro e di canto fosse quello del melodramma italiano seicentesco. Teatro, appunto, prima ancora che canto. Non a caso ho sopra citato Shakespeare. 



Nell’intenzione dei compositori romani Giulio Caccini e Jacopo Peri, ai quali per primi venne l’idea e, sostenuti dalla fiorentina camerata de’ Bardi, ne sperimentarono l’impostazione musicale a Firenze nel 1600, doveva essere una restaurazione dell’antico teatro tragico greco. Poeta del gruppo, il fiorentino Ottavio Rinuccini. L’opera messa in scena s’intitolò Euridice. E, fino a Monteverdi, vissero nell’equivoco di avere risuscitato la tragedia greca. Ma un vero e proprio teatro musicale, nel senso moderno del termine, nasce solo sette anni dopo, nel 1607. con la rappresentazione a Mantova della Favola di Orfeo: Alessandro Striggio ne scrive il testo, Monteverdi la musica. E alla Musica, che si presenta come Personaggio nel Prologo, è affidata l’esposizione della nuova concezione teatrale, in cui la musica si fa carico di rappresentare gli affetti – oggi diremmo le passioni, i sentimenti – del dramma. Ma sempre di dramma si tratta. Che si fonda su due presupposti. Il fondamentale, esposto con l’affermazione che la musica debba essere “serva dell’orazione”, vale a dire della parola, significa che la musica può servirsi dell’arte retorica così come se ne servono l’oratoria, la poesia e il teatro. E ciò perché – e qui entra l’altro presupposto – perché musica e poesia si servono della stessa materia: il suono. Il che non vuol dire dunque, come da molte parti si continua a sostenere, che la musica debba seguire fedelmente i concetti e le immagini del testo, ma più profondamente che deve organizzarsi in forme retoriche riconoscibili allo stesso modo della poesia, trarre cioè dalle parole quella musica che esse già contengono. Il pensiero corre subito all’idea del “levare” di Michelangelo, alla scultura, come forma della statua già contenuta nel marmo da cui lo scultore la scolpisce. C’è molto neoplatonismo in questa idea. E del resto L’Orfeo è un dramma profondamente neoplatonico, sia nel testo che nella musica. Il potere che ha la musica di ammansire gli dei inferi è dovuto alla sua capacità di estrarre dalla parola l’idea che la fa significare: la parola è solo la forma esteriore dell’idea che la musica estrae dalla sua forma, come la noce dal suo guscio. C’è in ciò anche un influsso cabalistico: il cuore della noce è il nodo in cui si contatta il divino. Questa concezione del rapporto tra la parola e la musica determina profondamente il tipo di canto, che nasce dunque dalla dizione del testo, la melodia è cioè già insita nelle parole, non sovrapposta ad esse. Il musicista non fa che estrarla, manifestarla, renderla evidente, e in tal modo potrà anche distribuirne le successioni, le combinazioni, l’organizzazione generale del percorso musicale, così come la retorica organizza un discorso, predispone e dispone l’ordine delle parti. Una tale concezione arriva fino a Bach, che anch’egli sostiene di organizzare le parti musicali come le parti di un discorso. E’ una nuova concezione della forma musicale, che solo superficialmente sembra dipendere dal testo, mentre in realtà costruisce architetture che corrispondono analogicamente alle architetture del discorso retorico. In pratica, questo canto deve rendere udibile il suono significante delle parole, partire dalla dizione, e non invece, come sarà pratica successiva, imporre una melodia al testo: il cantante non è cantante, ma attore. Per l’Arianna, opera di cui ci è rimasto solo il Lamento, morta la Romanina, la giovanissima cantate romana che Monteverdi aveva educato al suo tipo di “parlar cantando” (e non “recitar cantando”, come per i fiorentini), il compositore rifiutò l’offerta della cantante Giulia Caccini, figlia di Giulio, e ingaggiò un’attrice, Virginia Andreini. Questo dovrebbe far capire in che direzione si muovesse la drammaturgia musicale di Monteverdi. Ebbene, di tutti gli interpreti di questa rappresentazione romana il solo Mauro Borgioni, nel ruolo di Ulisse, sembra aver capito fino in fondo una tale drammaturgia musicale. La sua dizione ha reso comprensibile il testo sempre, e sempre, cosa più importante, il senso della sua intonazione musicale. Mirabile, la recitazione, intensa, veramente drammatica. Splendida la scena del riconoscimento di Telemaco, suo figlio. 



Gli altri interpreti, tutti bravissimi, va detto, e intonatissimi, non sempre però rendevano fedelmente questa impostazione vocale in cui la dizione precede il canto e non viceversa, vale a dire un canto che s’impone al testo. Non ci fossero stati i sopratitoli (ma perché solo in italiano e non almeno anche in inglese, per il pubblico non italiano?), non sempre sarebbe stato facile seguire lo svilupparsi dell’azione. In ogni caso si è comunque ammirata l’intensità espressiva e drammatica della Penelope di Lucia Napoli, il brio e la scioltezza di Michela Guarrera, Melanto, e di Antonio Sapio, Eurimaco, la nobiltà del Telemaco di Roberto Manuel Zangari, la compostezza dell’Ericlea di Tonia Lucariello, l’efficacia comica dell’Iro di Alessio Tosi, e tutti gli altri, tutti giovani, ammirevoli per l’entusiasmo visibile e udibile nella rappresentazione di un’opera così difficile e complessa. Il direttore e concertatore Alessandro Quarta ha condotto con rigore e intelligenza la lettura non semplice di un’opera che ancora oggi sorprende per la sua inaudita modernità. Avrebbe forse potuto concedere maggiore libertà alla recitazione, più fluidità ai ritmi danzanti, ma sarebbe cercare il pelo nell’uovo, e si capisce che invece il mantenersi in ben delimitati confini espressivi ha evitato sbavature e sbandamenti. Una matura compagnia di professionisti non avrebbe potuto agire meglio. L’interpretazione – con la riserva di una non ancora chiarissima e perfetta dizione – è ammirevole, questi giovani sono sulla strada giusta. Lo spettacolo non avrebbe sfigurato anche in un teatro di maggiore richiamo. Nel Prologo, bellissimo, si è ammirata l’Umana Fragilità di Enrico Torre, a cui si contrappongono il Tempo di Piero Facci, la volubile Fortuna di Vittoria Giacobazzi, l’Amore di Sabrina Cortese). La regia di Cesare Scarton, che si serve di scene funzionali, mobili, di Michele Della Cioppa, a raffigurare interni ed esterni di un palazzo miceneo, e dei sontuosi e bei costumi di Anna Biagiotti, ambienta l’azione in epoca indeterminata, abiti di oggi per gli umani, tra Otto e Novecento per gli dei (bravissimi, tutti! e in particolare il Giove di Gianluca Bocchino e Sabrina Cortese che ora impersona Minerva), supponendo il passaggio da un’epoca arcaica, aristocratica, fondata sul dovere, a una più giovane, democratica? fondata sulla ricerca del piacere (i Proci). Plausibile. Già Sofocle nel Filottete imposta un simile contrasto tra morale aristocratica, individualistica, e morale democratica, collettiva, utilitaristica. Ma il discorso qui si fa complesso. Al pubblico, comunque, il messaggio arriva. E i valorosi e coraggiosi interpreti sono tutti applauditi con fervore. Chi può, chi è ancora in tempo, tra Roma e Rieti per vedere lo spettacolo, si precipiti. Ne trarrà non solo godimento, come da qualsiasi cosa bella, ma ne uscirà con la sensazione di avere vissuto un’esperienza importante.



Fiano Romano, 7 ottobre 2018

mercoledì 3 ottobre 2018

Mariana Enriquez, La hermana menor. Un retrato de Silvina Ocampo







Mariana Enriquez, La hermana menor. Un retrato de Silvina Ocampo, Barcelona, Editorial Angrama, 2018, “Biblioteca de la memoria”, pagg. 187.

In Italia non si riesce a immaginare che cosa fosse la vivacità culturale di Buenos Aires nella prima metà del Novecento, e oltre. Come New York, Buenos Aires concentra i suoi teatri in una sola strada, Corrientes. Ma a differenza di New York, in quella strada esistono anche molte librerie e alcune case editrici. Le librerie restano aperte anche dopo la fine degli spettacoli. Così lo spettatore al quale sia piaciuta la commedia, il dramma che ha appena visto, può entrare nella libreria accanto al teatro, e comprarsi il copione, e poi, magari, sbirciando qua e là, tra gli scaffali stracolmi, anche altri libri. Intorno ci sono anche numerosi ristoranti, qualcuno eccezionale. E taluni aperti fino alle 4 del mattino. Nelle strade adiacenti a Corrientes sono ubicati i teatri sperimentali, quelli che a New York sarebbero off, e off off. Durante la terribile crisi, che mise l’Argentina in ginocchio, i settori che non l’hanno sofferta furono non a caso i cinematografi, i teatri e le librerie. I teatri e i cinematografi erano pieni, e i libri si vendevano più di prima. Gli argentini rispondevano alla crisi consumando più cultura. Anche adesso, che un’altra crisi devasta il paese, mi dicono che succede lo stesso: i teatri sono pieni. E così pure le librerie. Ma Buenos Aires è anche una città internazionale, e non solo per la provenienza degli emigranti da diversi paesi dell’Europa, moltissimi gli italiani, e molti anche tedeschi ed ebrei dell’Est europeo, francesi e, naturalmente, spagnoli. Oltre agli inglesi che nella prima metà del secolo scorso detenevano il controllo dell’economia argentina. Pertanto, soprattutto nelle famiglie benestanti, e quella degli Ocampo fu da sempre ricchissima, era, ed è, naturale la conoscenza di più lingue, oltre allo spagnolo, soprattutto inglese, italiano, francese, ma non è rara la conoscenza del tedesco. La curiosità letteraria fa inoltre parte della disposizione culturale degli argentini fin dal secolo XIX, soprattutto dopo il 1810, anno della dichiarazione d’indipendenza dalla Spagna. Alcuni scrittori sono diventati anche presidenti della Repubblica, come Domingo Sarmiento (1811-1888) e Bartolomé Mitre (1821-1906). Il modello a cui guardavano gli scrittori romantici, prima, e naturalisti, dopo, era naturalmente la Francia. Ma con più di un occhio aperto a quanto accadeva nelle lettere britanniche. Nel 2016 è uscito per Anagrama il bellissimo romanzo Echeverría di Martín Caparrós, scrittore argentino nato a Buenos Aires nel 1957. Esteban Echeverría è il poeta e narratore che ha dato l’avvio a una letteratura nazionale, orgogliosamente argentina, autonoma rispetto alla letteratura della madrepatria spagnola, e che guardava ai modelli più moderni della Francia. Il romanzo comincia con il giovane che guarda la pistola con cui vuole suicidarsi. Ha letto il Werther di Goethe e crede che il suicidio sia la soluzione per finirla con la sua infelicità. Il monologo interiore del poeta dura per decine di pagine, la pistola sempre in pugno. Per sua e nostra fortuna non si uccide. E scrive, anzi, due capolavori: La cautiva, la prigioniera, romanzo in versi come l’Evegenij Onegin di Puškin, e El matadero, il mattatotio, straordinario racconto della feroce e sanguinaria dittatura di Rosas, sorta di saggio su come s’impone e come funziona una dittatura. L’Argentina ne ha fatto prova più di una volta. Echeverría, nato a Buenos Aires nel 1805, morì in esilio a Montevideo nel 1851. 

 

Ma veniamo al secolo di questa ”hermana menor”, sorella minore. E’ Silvina Ocampo, sorella di Victoria, la fondatrice della rivista Sur, sud, focolaio vivacissimo della cultura argentina del Novecento. Silvina nasce e muore a Buenos Aires, 1903 – 1994. Percorre dunque l’intero secolo. Sposa Adolfo Bioy Casares, l’autore dell’Invenzione di Morel, uomo affascinante e inguaribilmente attratto da tutte le donne che gli capita d’incontrare. Silvina si vedrà così le amanti del marito gironzolare per casa, senza nascondersi, senza vergogna. Di qualcuna diventa, si dice, anche lei l’amante. Quasi certamente lo fu della madre di Adolfo, che anzi fu proprio lei a buttarle tra le braccia il figlio. Si racconta anche che si sarebbe portata a letto la nipote, Silvia Angélica, Genca, già amante del marito, un ménage à trois di allegra disinvoltura. Certo, la società in cui viveva era spregiudicata, libera, ignorava i problemi di genere, un po’ come il circolo di Bloomsbury che ruotava intorno a Virginia Woolf. Gli Ocampo, si è detto, erano ricchissimi, straricchi. Una privilegiata? Sì, e allora? Lo sapeva e usava il privilegio per guardare disincantata la realtà. Era anche appassionatamente antiperonista. Quando viaggiavano in nave verso l’Europa (Silvina aveva paura dell’aereo), e andavano soprattutto Parigi, i genitori si portavano dietro una vacca, perché ai bambini non mancasse il latte fresco ogni giorno. Profondamente radicati nella società argentina, o meglio nella società dell’alta borghesia di Buenos Aires, ma internazionali, poliglotti, aperti alla modernità. Le case, enormi, appartamenti di 800 metri quadrati nel centro di Buenos Aires, e le ville, nella periferia chic della capitale, e a Mar del Plata, venivano arredate da Le Corbusier e da Gropius. L’inglese, del resto, è la lingua quasi materna di Silvina, che l’apprende prima ancora dello spagnolo. Si aggiungerà il francese, ma anche l’italiano. L’ambiente letterario di Buenos Aires era internazionale e poliglotta, certamente di più che quello di New York. Diventa l’amica inseparabile di Borges, che andava a cena da lei quasi tutte le sere. Borges era già amico di Bioy Casares, e dunque entrava in qualche modo in un ambiente familiare. Silvina conosce Cortázar e Puig, Sábato, Rodolfo Wilcock e altri intellettuali argentini. Ma anche stranieri. Amava la pittura, dipingeva lei stessa. Anzi, da bambina pensava di fare la pittrice. A Parigi chiede a Picasso di darle lezioni di disegno. Ma Picasso rifiuta. Non amava dare lezioni di pittura. Allora si rivolse a Léger, che ammirava molto. Ma anche Lèger si tira indietro. Alla fine prende lezioni da De Chirico. Non simpatizzarono. Ma da de Chrico apprese la capcità di uscire dal reale, d’immaginare e raccontare storie trasversali, anche crudeli, quel fantastico, o surreale, così tipico della narrativa latinoamericana. Carlos Fuentes, straordinario scrittore messicano, di cui Silvina fu amica, si avvicina al mondo visionario della scrittrice argentina in un romanzo enigmatico, fantastico, e feroce, come La silla del Águila, Il seggio dell’Aquila, malamente tradotto in italiano con Il trono dell’Aquila che distorce il senso del titolo, perché non si tratta di un trono, ma del seggio del Presidente della Repubblica Messicana. Ma la dimensione del romanzo non è quella della scrittura di Silvina Ocampo: la sua misura è il racconto, spesso breve, come per Borges. Ma Silvina è anche poeta. Qualche settimana fa ho pubblicato qui, su questo sito, otto poesie. E un breve commento. Il libro di Mariana Enriquez ha per sottotitolo “un retrato de Silvina Ocampo”. Un ritratto, non una biografia, né tanto meno un saggio critico. La scrittrice, nata anche lei a Buenos Aires nel 1973, raccoglie diverse testimonianze, tra cui anche quella del marito Bioy Casares, grafomane impenitente, che teneva un diario in cui annotava tutto, giorno per giorno, ma proprio tutto, scrivendo migliaia di pagine, ciò che accadeva nella sua casa, gli incontri, le discussioni, gli amori, le amicizie. Era assai più giovane di Silvina, ma le restò attaccato tutta la vita, a suo modo, l’amava profondamente, la malattia che negli ultimi anni precipitò Silvina nella demenza, e poi la sua morte, lo sconvolsero, distrussero la sua tranquillità per sempre. Ma la Enriquez introduce in questo ritratto di Silvina anche le interviste, fondamentale quella rilasciata all’amica Noemí Ulla. Il ritratto di Silvina disegnato dalla Enriquez procede per argomenti, ci sono retrospettive, previsioni, premonizioni, Silvina era una sensitiva, si credeva d’indovinare il futuro, leggeva le carte, ma non i Tarocchi, bensì i naipes spagnoli, il racconto è interrotto da flash back, si intrecciano testimonianze di amici e di altri scrittori e scrittrici. Prosa scorrevole, stile accuratissimo, come quasi tutto ciò che oggi si pubblica in spagnolo. Ecco un episodio che dipinge assai bene il carattere di Silvina. Racconta María Esther Vázquez, donna di cui si innamorò Borges, non ricambiato: “Vino a Buenos Aires un periodista italiano joven, de un diario de Lecce, venía a entrevistar a Borges, Bioy y Silvina. Se alojaba en mi casa. Me pidió conocerla a Silvina. Era un 9 de julio. La llamé y nos invitó a tomar el té. La mesa, como siempre en casa de los Bioy, era muy parca, dos o tres biscochitos, alguna medialuna. Habìa tres televisores. Le pregunté para qué. Es que cuando mis nietos comen acá cada uno quiere ver un programa diferente, entonces les hemos puesto un televisor a cada uno, me explicó. Ella miraba mucha televisión. Le gustaban Los tres chiflados, Benny Hill y Laurel y Hardy. La hacían reir a gritos. Con sus nietos veían a Los Muppets. Bueno. Ella enseguida quedó encantada con el italianito. Él me dice por lo bajo ‘no hay azúcar’. Le digo ‘tenés azúcar’, Silvina, con ese modo muy particular, dice ‘ay, voi a ver’. Se levanta, se va, y al rato vuelve, se apoya en la puerta que daba al comedor como se apoyan las divas del cine mudo. Nos mira y nos dice: ‘Las hormigas se comieron todo el azúcar’. Eso la define perfectamente. Creaba una especie de misterio que no tenía que ver con ninguna lógica”. (Venne a Buenos Aires un giovane giornalista italiano, di un giornale di Lecce, veniva a intervistare Borges, Bioy e Silvina. Alloggiava da me. Mi chiese di conoscere Silvina. Era un 9 di luglio – festa nazionale argentina - , la chiamai e c’invitò a prendere un tè. La tavola, come sempre a casa dei Bioy, era molto parca, due o tre biscottini, qualche cornetto. C’erano tre televisori. Le chiesi perché. E’ che quando i miei nipoti mangiano qui ciascuno vuole vedere un programma differente. Allora gli abbiamo messo un televisore per ciascuno, mi spiegò. Guardava molto la televisione. Le piacevano I tre marmittoni, Benny Hill e Stanlio e Ollio. La facevano scoppiare dal ridere. Con i suoi nipoti vedevano I Muppets. Bene. Restò subito incantata dall’italiananuccio. Lui mi dice a bassa voce “non c’è zucchero”. Le dico “hai lo zucchero”, Silvina, con quel modo molto particolare, dice “oh, vado a vedere”. Si alza, se ne va, e subito ritorna, si appoggia alla porta che dava sulla sala da pranzo come si appoggiano le dive del cinema muto. Ci guarda e ci dice: “Le formiche hanno mangiato tutto lo zucchero”. Ciò la definisce perfettamente. Creava una specie di mistero che non aveva a che vedere con nessuna logica). Scrive Borges: “Yo sospecho que para Silvina Ocampo, Silvina Ocampo es una de tantas personas con las que tiene que alternar durante su residencia en la tierra”. (Sospetto che per Silvina Ocampo, Silvina Ocampo è una delle tante persone con le quali deve alternarsi durante la sua residenza sulla terra). E’ un ritratto, nella sua brevità, perfetto, di una delle più grandi scrittrici del Novecento, del secolo breve, che per lei fu lunghissimo. Mi auguro che presto se ne faccia e se ne pubblichi una traduzione italiana.

Fiano Romano, 3 ottobre 2018




martedì 2 ottobre 2018

Silvio Perrella, Da qui a lì. Ponti, scorci, preludi




Silvio Perrella, Da qui a lì. Ponti, scorci, preludi, Roma, Gaffi Editore, 2018, Trieste – Roma, Italo Svevo, “Piccola biblioteca di letteratura inutile. Idea e cura di Giovanni Nucci, pagg. 86, € 12,50


L’accostamento di Chopin a Montaigne potrà sorprendere e far storcere il naso a molti. Ma prima di sorprendersi e di storcere il naso, sarà bene leggere per intero il capitoletto, che poi è il primo del libro, e domandarsi le ragioni dell’accostamento. Poco più avanti compare il nome di Goffredo Parise, si citano i suoi splendidi Sillabari. Allora, mettiamo un po’ di ordine nelle idee. Che c’entrano i Preludi di Chopin con gli Essais di Montaigne, si sarà domandato chi appunto si è sorpreso e ha storto il naso. E perché Parise? Allora, tanto per cominciare, un po’ di linguistica. La parola “essai”, francese, ha finito con il significare, in italiano, “saggio”, ma ciò è avvenuto proprio per l’uso che ne ha fatto Montaigne. Il significato base del termine è prova, collaudo, tentativo. E del verbo che ne deriva, “essayer”, provare, collaudare, tentare. Del resto anche in italiano si dice: saggiare la situazione, saggiare il terreno. Allora – ideo, in latino –, come scrive Silvio Perrella, i preludi di Chopin “sono ‘saggi’ musicali, visioni, scorciatoie, in sintonia con Montaigne che ha intitolato la sua opera Saggi; è arte dell’alba”. Chiamato in causa Parise, Perrella precisa che la “possiamo chiamare arte dell’inizio”. 





Il libro sono diciotto preludi verbali che alternano uno dopo l’altro caratteri romani e corsivi, e in ciascuno si racconta un collegamento, un’associazione, “da qui a lì”, appunto, come sul terreno o nelle città fanno i ponti se si deve attraversare un corso d’acqua, un vuoto, una strada sottostante. Ogni capitoletto parte da un pretesto (alla lettera: un pre-testo) o figurativo o letterario o musicale o che viene suggerito da un ricordo personale, per esempio il ponte Oreto a Palermo, il Ponte dei Sospiri a Venezia. A Palermo, Perrella ci è nato, e quel ponte è la sua infanzia. A Venezia, il ponte introduce a un carcere. Ma Perrella lo ha visto la prima volta con il padre, e scopre che tutta Venezia è una città di ponti. Senza, la vita quotidiana vi sarebbe impossibile. Ma i saggi, i preludi hanno anche un altro aspetto particolare: non mostrano paesaggi interi, vedute complete, non esauriscono lo spunto, l’argomento di partenza. Ci presentano la realtà per scorci, da un angolatura insolita. Di fatto, verrebbe da dire, tutta l’arte, l’arte di tutti i tempi, è così, mostra particolari, scorci, visuali parziali di eventi, d’immagini che s’intravedono o si sottintendono. Perfino certi grandi poemi, come l’Iliade, che non racconta tutta la guerra di Troia, ma soltanto un episodio, l’ira di Achille, e le conseguenze della sua diserzione dal campo degli Achei. Aristotele vi teorizzò sopra che l’opera d’arte non racconta, non rappresenta mai il tutto, ma solo una parte, dietro la quale, o sotto, s’indovina, s’immagina il resto. Proprio per questo l’artista può disegnare nitidamente il particolare, il frammento, che a quel tutto rimanda. L’Edipo Re di Sofocle non porta sulla scena tutta la vita dell’eroe, ma solo il momento in cui Edipo viene a conoscere la verità della sua condizione. Indagando sulla verità Edipo scopre che il colpevole del delitto sul quale sta indagando è proprio lui che indaga. Invenzione degna di un’Agatha Christie, che infatti in un romanzo la copiò. Ma torniamo al prezioso libretto di Perrella. 







Alcune pagine mi hanno addirittura commosso, perché mi ci sono riconosciuto, perché anche io ho vissuto la stessa esperienza. Per esempio le pagine sulla Venere allo specchio di Velázquez. Ci fu nel 2005 una bellissima mostra del Velázquez al Museo di Capodimente di Napoli, e lì vede il quadro Perrella. Io l’avevo visto, anni prima, alla National Gallery di Londra. Ma in mezzo a tanti capolavori non ne restai particolarmente colpito. O non ero maturio per comprenderne la profonda bellezza. Poi andai alla mostra di Capodimonte. Rivederlo a Napoli fu una folgorazione. Wittkower, se non sbaglio, lo definisce il più bel nudo della pittura occidentale. Perrella s’interroga sul senso di quel bellissimo nudo, sul senso che il passaggio del quadro abbia lasciato a Napoli. Lo scorcio del nudo (il viso si vede solo nello specchio) ritrae forse uno scorcio del ricordo, o il baluginare di un pensiero che riflette sulla fugacità dell’amore e la caducità della bellezza. Come da lassù, da Capodimonte – e sono io a riflettervi – lo scorcio in basso della città. Nella mia camera da letto ho appeso una riproduzione del quadro, la locandina, appunto, della mostra napoletana. Poi, apgine avanti, c’è Leopardi, negli ultimi suoi anni cittadino napoletano. “Leopardi dalla sua postazione visiva raffigura il golfo di Napoli. … Dinanzi a quel paesaggio è evidente che il tempo non è per nulla progressivo. L’umile ginestra lo dimostra crescendo là dove sembrerebbe impossibile. Ed è proprio lei la misura che lo sguardo del poeta si sceglie per congedarsi da un mondo che gli sembra scagliato contro illusioni vane e senza alcuna misura”. Parole terribili, ma desolatamente vere. Soprattutto oggi. Perrella c’invita a riflettere sui ponti, sui passaggi (come, nel secolo scorso, Walter Benjamin). Il ponte ci conduce da un luogo a un altro. La prima cosa che una guerra distrugge sono i ponti. Per bloccare l’attraversamento, il passaggio da una terra all’altra. Finita la guerra, i ponti si ricostruiscono. Perché sono necessari, perché nessuna terra può essere abitata se non ha ponti che permettano di percorrerla, attraversarla. Anche la poesia, la musica, la pittura, l’arte, hanno bisogno di ponti. Ve l’immaginate un’Eneide se Omero non avesse scritto l’Iliade e l’Odissea? O un Petrarca senza i trovatori e i trovieri, o senza lo Stil Novo? La pittura ad olio in Italia senza Antonello da Messina che ne importa la tecnica dalle Fiandre? I Concerti Brandeburghesi senza Corelli, Vivaldi, Couperin? Rossini senza Paisiello, Cimarosa e Haydn, Mozart? La dodicesima notte di Shakespeare senza quella commedia stupenda che sono Gli ingannati dell’Accademia degli Intronati di Siena? La cultura ha sempre lanciato ponti, tra un paese e l’altro, tra una lingua e l’altra, tra una letteratura e un’altra. Mai alzato muri. Oggi, in Italia, i ponti crollano e si vogliono alzare muri, per ora solo metaforici, ma altrove se ne alzano di veri. Quale ginestra sbriciolerà il malto che li tiene insieme? E sbriciolati i muri che hanno diviso le nostre vite, avremo poi la forza di sostituirli con strade, ponti, che non crollino? Il libricino si legge d’un fiato, sono solo 74 pagine, e 12 di Titoli di coda, un indice, la descrizione tipografica, il catalogo della Piccola Biblioteca di letteratura inutile. Ma è il fiato, che poi ci manca, se, finita la lettura, pensiamo all’oggi.

lunedì 1 ottobre 2018

Biennale Musica di Venezia: Elliott Carter







Venezia, Biennale Musica, Crossing the Atlantic, 62° Festival Internazionale di Musica Contemporanea. 29 settembre 2018. ARSENALE – TEATRO ALLE TESE. Elliott Carter.

Elliott Carter, nato e vissuto per 104 anni, dal 1908 al 2012, a New York, è una figura centrale del XX secolo, non solo dell’America. Come Henry James o Thomas Stern Eliot, anch’essi nati negli USA, nel romanzo e nella poesia raccolgono la complessa eredità narrativa e poetica dell’Europa e dell’America, così Carter sintentizza magnificamente, nella sua opera, la cultura musicale (e non solo musicale) americana ed europea. La Biennale Musica veneziana di quest’anno, che non a caso s’intitola Crossing the Atlantic, ha voluto dedicargli un omaggio con musiche che vanno dal 1987 al 2003. Quindi occupano l’ultimo stadio dell’attività di Carter, stadio in cui si avverte un progressivo prosciugamento dei riferimenti a una sapienza artigianale del far musica che va da Ives a Schoenberg, da Petrassi, di cui era molto amico, alle astrazioni di Stiockhausen. Accademia dell’avanguardia? Ce ne fossero accademici come lui così poco accademici! I grandi compositori del Novecento tutto sono stati tranne che accademici, o intolleranti, propulsori di muri e di steccati, artistiche o ideologiche che fossero le chiusure e le esclusioni. Riascoltare oggi la loro musica ci mostra invece un atteggiamento verso la pagina scritta di grande libertà. Imprevedibili gli esiti da un’opera all’altra, pur nella riconoscibilità di un’impronta stilistica, o meglio: di uno stigma strutturale, di un modo di costruire la partitura. Il concerto procedeva a ritroso: dal 2003, Dialogues per pianoforte e ensemble, all’eleganza astratta di Luimen per sei strumenti (tre strumenti a pizzico: chitarra, mandolino e arpa; ai quali si aggiungo una tromba, un trombone e un’arpa), del 1997, e infine al Concerto per oboe e orchestra, del 1986-1987. Il gioco contrappuntistico è sottile, intricato, raffinatissimo. Per certi versi possono evocare i Contrasti di Bartók. Ma c’è un’assciutezza del gesto, una poetica del togliere che ci trasferisce in zone lontane dal caos quotidiano dell’oggi. E’ come se alla crisi della avanguardie Carter non rispondesse con soluzioni semplificatrici e tanto meno alternative, sotto certi aspetti restaurative – ma il termine è fuorviante -, come proprio in America era avvenuto con i cosiddetti minimalisti. E nemmeno vuole ricorrere a una integrale ridiscussione dei parametri, come aveva fatto Cage. Carter prosegue per la sua strada. Come alcuni, grandissimi, poeti suoi contemporanei, che reintroducono, o non hanno mai abbandonato, la metrica classica della poesia inglese: Stevens, Strand, in qualche modo Heaney, che però appartiene a un’altra tradizione, quella irlandese, ma soprattutto Anthony Hecht, nel quale il mondo classico, e non solo inglese, ma antico, greco e latino, ha un immenso spazio – come avveniva già con Shelley. Carter, al passato musicale, americano ed europeo, non vuole rinunciare. Non vuole rinunciare a una musica nella quale l’operazione di costruzione della forma copra un ruolo essenziale, determinante. Una torre d’avorio? Può darsi. Voi vivete pure nel caos di un oggi che sembra avere perduto ogni senso di una direzione qualsiasi, ogni volontà di radicarsi a un punto di riferimento (titolo, non a caso, di una bellissima raccolta di saggi, scritti in vari momenti e raccolti in volume da Boulez). Io i miei punti di riferimento li mantengo ben chiari e sono la guida del mio scrivere. Se sbaglio io, e avete ragione voi, scomparirò. Ma temo che ciò che ora chiamate molteplicità dei punti di vista, sia, più miseramente, meno nobilmente, una rinuncia alle scelte, alla prese di posizione, al posizionarsi in una prospettiva della visione invece che in un’altra. Per l’avvento del terzo millennio, Daniel Barenboim, direttore della Staatsoper di Berlino Unter den Linden, commissionò a Carter un’opera, What next?, che andò in scena il 16 settembre 1999 a Berlino, e negli USA il 24 febbraio del 2000, a Chicago, sempre sotto la concertazione di Barenboim. Paul Griffiths, musicologo inglese e critico musicale del Times, scrittore, drammaturgo, ha scritto il libretto. C’è un incidente stradale. Sono morti tutti, ma nessuno sa di essere morto. Aspettano i soccorsi. Arrivano i becchini che li infagottano in ruvide tele e gli spazzini spazzano il sangue sull’asfalto e i segni dell’incidente. Una voce si alza dall’orchestra, che grida: what next? Sipario! E’ un’opera bellissima. Ero a quella prima berlinese. Fu un trionfo. Ma uscii dal teatro con un senso profondo di angoscia: il futuro, noi, siamo quei cadaveri infagottati frettolosamente. Siamo morti, il nostro mondo non c’è più. Ma non ce ne accorgiamo. L’opera è costruita, come il Fidelio, o il Wozzeck - le citazioni non sono casuali -, con numeri chiusi, per lo più di forme strumentali, ma che inglobano tutta la tradizione musicale occidentale dal madrigale al jazz in un’unica cifra stilistica, tenuta insieme da una capillare rielaborazione contrappuntistica, che sottopone ogni idea musicale (non amo il termine abusato di “materiale”, che ritengo offensivo per l’intelligenza del musicista) a radicali trasformazioni. Ecco, questa sapienza contrappuntistica è la cifra costante della scrittura di Carter, il segno, o lo stigma, del suo volersi collocare su un piano alto, riservato, se si vuole privilegiato ed esclusivo, ristretto, del fare musica. Musica, prima di tutto, come sapienza di scrittura, alla Bach, per non indurre in equivoci. Ma senza rinunciare a una sua severa godibilità: la godibilità dell’intelligenza, che sottopone anche il piacere del suono a una rigorosa architettura. In un’epoca ossessionata dal primato del timbro, del suono, questo privilegio della struttura, della scrittura sull’effetto, può sembrare retrivo. Ma attenti: Carter non esclude timbro, suono, effetto, la rivoluzione debussiana e di Ives non è dimenticata. Con maggiore complessità Carter non rinuncia all’articolazione simultanea di tutti i parametri musicali, senza privilegiarne nessuno, e anzi, collocando l’astrazione della scrittura contrappuntistica sullo stesso piano del suono, del timbro, del ritmo, dell’effetto sonoro, nel senso ch’è proprio l’elaborazione contrappuntistica a individuare il posto assegnato di volta in volta, nella costruzione musicale, al timbro, all’intervallo, al suono. Insomma, se si vuole, la scrittura prevale sull’effetto, ma solo nel senso che l’effetto è il risultato della scrittura, non in quello che sia l’effetto a determinare il modo della scrittura. Se proprio vogliamo trovare un modello, sarà il trobar clus dei trovatori, la musica reservata, l’esercizio individuale di un indicibile che prova a farsi dicibile. Il magistero di un Orazio nella poesia, il privatissimo, ed escludente esercizio stilistico di un Proust o di un Queneau, la solipsistica architettura di un Benn. Elitario? Aristocratico? Ebbene sì. E allora? E’ forse proibito? Non è forse poeta un Mallarmé perché non immediatamente comprensibile? Non è musica, ma matematica, un Boulez, come qualcuno ha detto e scritto e ancora si scrive, perché pretende dall’ascoltatore la cultura specifica per comprenderlo? Non è poesia Arnaut Daniel perché di difficilissima e talora impossibile comprensione? Tanto più che poi gli “effetti” possono essere la cadenza del pianoforte nei Dialogues (strepitoso Lucio Perotti!), o i ricami timbrici degli strumenti a pizzico in Luimen, la cui lontana origine sembra essere la cadenza di flauto e corno alla fine del primo tempo della Nona di Mahler. Ma ancora nell’Oboe Concerto (questa è la dicitura inglese, interprete formidabile Fabio Bagnoli, all'oboe: affronta una parte irta, complicatissima) del 1986-1987 invece si ascolta una scrittura più compatta. Un pannello denso, in cui l’elaborazione quasi tematica delle idee musicali persiste come fedeltà a una tradizione che non si vuole abbandonare. E tuttavia si sbaglierebbe a interpretare la riconoscibilità delle idee come nostalgia di un’elaborazione tematica. In realtà ciò che sembra teme, o suggerimento di un tema, è un gesto, un tentativo di canto conoscendone l’inattuabilità, oltre che l’inattualità. E dentro questa lotta per non dire ciò che si amerebbe dire, Carter commuove, ci chiede aiuto, preannuncia la nostra empasse di sopravvissuti all’epoca in cui non era colpa dimostrarsi cantabili, espressivi. Qualcosa di analogo, ma in maniera più esplicita, la si ritrova nel Concerto in re, detto Concerto di Basilea, di Stravinskij. Ma lì la melodia è dichiarata, spudoratamente intonata dagli archi. Qui, come in una sorta di dhvanyāloka, l’arte indiana del non detto, la melodia è il rimosso, l’assente, che si conosce indicibile, ma al quale ci riferisce. E chi sa che in questo messaggio – terminale? - Carter non ci parli come un antico sapiente. Il detto è solo l’apparenza, la superficie esprimibile del non detto, ch’è la vera sostanza di ogni dire. In qualche modo, lontanissimi l’uno dall’altro, qui, Carter e Cage, entrambi americani, finiscono per comunicarci lo stesso messaggio: che l’arte è un gioco di iniziati. Ma pericoloso, perché la tessera giocata è la nostra vita. E forse, più che all’India, bisogna pensare alla Cina: a I Ching, per Cage, al Tao per Carter. “L’Essere e il Non-Essere si generano l’un l’altro; il difficile e il facile si completano l’un l’altro; il lungo e il corto si formano l’uno dall’altro; l’alto e il basso si invertono l’un l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il prima e il dopo si seguono l’un l’altro”. Perché “la Via è vuota: nonostante l’uso non si riempie mai”. A introdurci in questo mondo così pieno di significati ch’è la musica di Elliott Carter è stato il PMCE, Parco della Musica Contemporanea Ensemble, diretto da Tonino Battista. E migliore introduzione non si poteva dare. Il complesso è formato da straordinari e sensibilissimi, giovani musicisti, ciascuno un solista formidabile, ma insieme un organismo vivente di grande musica. La serata sarebbe bello poterla riascoltare anche altrove, fuori della Biennale, a Roma, a Milano, dovunque ci sia qualcuno disposto a confrontarsi con la complessità e la problematicità dell’oggi, che restano complesse e problematiche anche nella musica. Alla faccia di chi vuole nascondersi, non vedere la realtà, e chiede perciò semplicità, o meglio, semplificazione, e linearità, vie senza problemi. Che non esistono. Da nessuna parte. Non sono, anzi, mai esistite.

Venezia, Biennale Musica, Crossing the Atlantic, 62° Festival Internazionale di Musica Contemporanea. 29 settembre 2018. ARSENALE – TEATRO ALLE TESE. Elliott Carter.