martedì 18 dicembre 2018

Giorgio Minotti, Per Emilia. Casa Chopin e la vocazione per la bellezza

 

Leggo il romanzo con ritardo. E’ uscito tre anni fa.

E’ sempre una scommessa immaginarci come siano andate le cose tra persone realmente esistite. Ma non ultimo compito della scrittura è proprio anche inventare l’indimostrabile, fantasticare sul possibile. E questo fa, in Per Emilia, Giorgio Minotti. Il titolo ricorda, forse non a caso, una famosa bagatella di Beethoven: Per Elisa. Come la bagatella beethoveniana, il notturno chopiniano non è tra le pagine che il compositore avesse previsto di pubblicare. Minotti immagina e racconta, per spiegare la nascita del notturno, quale fosse la vita familiare tra le mura della casa in cui viveva la famiglia di Chopin a Varsavia. Restituisce molto bene il clima insieme tipicamente polacco, cattolico, di una famiglia borghese nella Varsavia del primo Ottocento, e la passionalità estroversa, romantica con allora si manifestavano i sentimenti. Ricorda, in qualche modo, il bel film di Rohmer La marchesa von O., dal racconto di Kleist. Come nel film, la gestualità, il linguaggio, sono romantici.

E’ attraverso questo filtro, romantico, che vanno lette anche le confessioni delle due ragazze, le sorelle di un genio molto particolare come era certamente Chopin. E penso che vada letta anche in questa luce l’idea che l’arte, e in particolare la musica, e soprattutto la musica di Chopin, sia, come suggerisce il titolo del romanzo, una perenne, inarrestabile ricerca della bellezza.

Perché altrimenti proprio su questo punto si potrebbe dissentire. Nelle Lezioni di Estetica, Hegel, infatti, e dunque nei primi decenni dell’Ottocento, gli anni della formazione musicale ed estetica di Chopin, mette in guardia dall’identificare l’arte con la bellezza, e addirittura nega che esista una bellezza della Natura. Il sole che sorge e tramonta è solo un fenomeno naturale legato alla rotazione terrestre. Che noi possiamo ammirare la bellezza di un’alba o di un tramonto, è solo un’impressione dei nostri sensi, coltivata dalla nostra cultura. E’ l’occhio umano che fa bello un tramonto. Il fenomeno in sé, per Hegel, come per il nostro Leopardi, che scrive cose simili, è “indifferente”.

Il culto della bellezza faceva però parte della sensibilità romantica, e dunque si adatta bene ai personaggi di qeusto romanzo. Tanto più che l’autore ne scrive con ironia. L’assunto del romanzo è semplice: suppone che il Notturno in mi minore, di cui non ci è arrivato il manoscritto, pubblicato postumo da Fontana come op. 72 n.1, sia stato improvvisato da uno Chopin diciassettenne alla morte della sorella Emilia, non ancora quindicenne. Chopin era un compositore già maturo a 15 anni, quegli incredibili capolavori che sono gli Studi op. 10 furono composti quando Chopin aveva 18 anni. La sorella Ludwika gli chiede di dettarle il Notturno, Chopin recalcitra, ma poi, sotto giuramento di non rivelarlo a nessuno, glielo detta e lei lo trascrive.

Il romanzo è un lungo racconto di Ludwika, che intravede nel Notturno non solo il dolore per il distacco dalla sorella Emilia, ma il segno di una crisi, della perdita della fede e di una visione della vita priva di speranza. Ciò fa disperare le sue sorelle e sua madre Justyna. Ma è molto probabile che fosse così: la Sonata in si bemolle minore, con la terribile Marcia Funebre, e lo sconvolgente, gelido finale, sembra confessare un visione nichilistica della vita, e dunque riconoscere nella morte l’annientamento totale, lo sprofondamento nel nulla. La famiglia Chopin non poteva accettarlo.

Come, da parte della madre, non è accettato il rapporto del figlio con la scrittrice George Sand, la “strega”, una donna più vecchia di lui, quasi un’orrida rivale materna. Le sorelle, invece, la difendono: sanno che la vita del fratello segue altri binari, altri stili di vita, non più borghesi, nella società libera e snob, spudoratamente antiborghese, della Parigi di Luigi Filippo. Chopin avrebbe chiesto alla sorella di non rivelare a nessuno il segreto del notturno. E a sua madre, che anche lei ne aveva una copia. Ma Ludwika ritiene di poter tradire il proprio giuramento, con la giustificazione che l’umanità non può essere privata di un simile capolavoro di “bellezza”.

Il romanzo è tutto un dialogo tra le due sorelle, Ludwika e Izabela, e tra le due sorelle e la madre, raccontato da Ludwika in una lettera alla figlia Ludka da leggere dopo la propria morte. Si legge d’un fiato ed è bene ricreata l’atmosfera sentimentale dell’epoca. Dietro l’educazione, il riserbo delle sorelle – più sfacciata è la madre – si cela però un’irrequietezza e un coinvolgimento emotivo che fanno immaginare il clima acceso e appassionato dentro il quale crebbe il giovanissimo Chopin.

Giorgio Minotti, Per Emilia, Casa Chopin e la vocazione per la bellezza. Il mistero del Notturno op. 72, Varese, Zecchini Editore, 2015, pp.156, € 17,00

domenica 16 dicembre 2018

Maurizio Baglini Project







«Il mio obiettivo» - commenta Maurizio Baglini - «è creare un nuovo punto di riferimento musicale a Roma, dove si possano ascoltare programmi freschi e originali, senza barriere tra i generi. Questa prima edizione accosta Mendelssohn a Gershwin e propone grandi autori del nostro tempo come Azio Corghi e Sofia Gubaidulina. Per quanto riguarda gli interpreti, ho coinvolto colleghi non solo di chiara fama, ma anche disponibili a creare insieme qualcosa di nuovo: vorrei che Villa Torlonia diventasse una sorta di Wigmore Hall romana»

Il pianista pisano sta parlando del suo Maurizio Baglini Project, al Teatro di Villa Torlonia di Roma per la stagione da camera di Roma Tre Orchestra, in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tre e con il Teatro di Roma. Sono andato alla penultima serata, sabato 15 dicembre.

Ho scritto tante volte che l’arte è sempre arte contemporanea. Anche quando si legge Omero o si guarda un vaso greco. La filologia, l’archeologia, lo studio delle condizioni storiche, anziché allontanare questa contemporaneità, distrarre da essa, la esaltano, la intensificano. L’incontro notturno tra Ettore e Andromaca non vuole essere una condanna della guerra – Omero è pur sempre il poeta di un’aristocrazia guerriera – ma nemmeno ne costituisce un elogio incondizionato. L’Iliade, della guerra ci mostra sia l’eroismo cavalleresco che la ferocia omicida.

La seduzione di un adolescente che certi vasi greci ci mostrano spudoratamente, l’adulto che solletica il sesso del ragazzo, non è né elogio né condanna, ma rappresentazione di una reciproca disponibilità. Siamo, però, sicuri che la nostra società attuale non conosca né la violenza di una guerra né l’attrazione tra un uomo e un ragazzo, al di fuori o indipendentemente dal giudizio morale che se ne possa dare?

L’arte rappresenta, racconta, non giudica. La musica non fa eccezione. Tra l’altro la musica è un’arte asemantica: i significati sono suggeriti da convenzioni retoriche, che cambiano di epoca in epoca, non dalla corrispondenza tra suoni e parole. Tanto meno, comunque, fa eccezione, quando è la musica di un compositore del nuovo, di un musicista avverso a ogni muffa passatista (ma non alla tradizione!), come Schumann. Il Carnaval (e mi raccomando: dire Carnavàl, non Càrnaval) op. 9 si chiude con la marcia degli associati di David (Davidsbündler) contro i Filistei. Chi sono i Filistei, per Schumann? I tradizionalisti, i nostalgici del passato, coloro che ipostatizzano la perfezione in qualcosa che c’è già stato e sono pertanto nemici del nuovo. dell’inesplorato, coloro, cioè, che vogliono, dall’arte – ma anche dalla politica – sempre e solo, la conferma del confermato. Contro costoro marciano gli associati di David, i nuovi artisti, coloro che cercano in tutto, sempre, il nuovo, che anzi vedono il nuovo anche nei grandi del passato, per esempio in Bach, sperimentatore infaticabile della costruzione musicale. Baglini ha chiesto ad Andrea L’Abbate, esperto di figurazione digitale, di costruire immagini che potessero associarsi alle musiche del Carnaval. E le fa proiettare su uno schermo mentre lui suona. Qualche ascoltatore potrebbe sentirsene distratto, ma qualcun altro invece stimolato a riconoscere combinazioni nuove di idee. Tanto più poi che sulla tastiera Baglini ci offre una lettura insieme scrupolosa e modernissima della folgorante partitura. Disturbava un po’ il rumore del proiettore. Ma l’efficacia dell’interpretazione di Baglini sta nell’evidenza con cui si muovono e si percepiscono le varie voci del contrappunto, il senso costruttivo dei processi armonici, il gioco variegato dei timbri pianistici, la differenziazione dei modi d’attacco, la mutevolezza dunque del tocco. 




Ed ecco, subito dopo, il confronto con l’oggi, due partiture di Giancarlo Simonacci fresche d’inchiostro: Sette variazioni su una melodia popolare per pianoforte e Lucide onde per clarinetto in si bemolle e archi. Le variazioni sono un percorso dall’evidenza cantabile del canto popolare ricuperato all’elaborazione via via più astratta della sua conformazione ritmica, melodica, armonica. Si potrebbe dire dalla comprensibilità tonale all’astrazione seriale, sulla quale aleggia, tristissima, l’ombra di Webern. Pezzo bellissimo e di presa emotiva immediata. Alla faccia di chi ancora si ostina a rimproverare a certa Nuova Musica un distacco dall’ascolto dei più. Come se poi il numero di ascoltatori garantisse la qualità di una partitura. Uno non è uguale a uno in nessuna democrazia e tanto meno nell’arte. Non bisogna confondere la validità di una musica con la sua ricezione. Altrimenti Allevi sarebbe Mozart (lui se lo dice da sé) e Rihm un imbrattapentagrammi. Il successivo brano per clarinetto è affascinante. Abilissimo e duttilissimo Luca Cipriano nel sondare gli effetti espressivi, meravigliosi sul clarinetto, ottenuti saltando da un registro all’altro. Il sostegno ondivago degli archi fascia il lamento del clarinetto con un amplesso di irresistibile dolcezza.

Per il brano finale torna sul palcoscenico Maurizio Baglini e c’è al completo la Roma Tre Orchestra diretta da Fabio Sperandio. Ed è un brano mozzafiato di Frédéric Chopin. Nientemeno che le Variazioni op. 2 su “Là ci darem la mano” dal Don Giovanni di Mozart, la pagine che fece esclamare a Schumann: Giù il cappello! Ecco un genio. Titolo di una recensione che coglieva, da subito, l’essenza della musica di Chopin. Ed entrambi, sia Chopin sia Schumann, non avevano allora che 18 anni! Ma aveva ragione Schumann. La partitura è davvero sbalorditiva. Chopin, forse perché anche lui demoniaco, coglie perfettamente il lato demoniaco della musica di Mozart. Altro che seduzione di una ragazza. Qui è in gioco il senso dell’esistenza umana. Già qui, in un’op.2! Nella variazione lenta i minacciosi rulli di timpano sembrano sprofondare l’ascoltatore in zone segrete della mente. E poi c’è ancora chi dice, e scrive, che Chopin non sa scrivere per orchestra! Aveva ragione Brahms: l’orchestra non lo interessa come il pianoforte, e spesso si contenta di una scrittura convenzionale. Ma poi ci sono intuizioni di una modernità sconvolgente. Lo squillo dei corni nel finale del secondo concerto, il tremolo degli archi che sostene la melodia di ottave parallele del pianoforte nel Larghetto del primo concerto: Brahms lo citò nel suo secondo concerto per pianoforte. Ma qui, in queste variazioni, fin dalla prima variazione, con la furia delle dita sulla tastiera, Chopin ci sbalordisce non per il virtuosismo che chiede al pianista (anche!), ma per la febbre che comunica all’ascoltatore. Un trionfo, meritatissimo, accoglie alla fine, con ripetute chiamate, tutti gli interpreti.

Maurizio Baglini Project
Teatro di Villa Torlonia – Roma
dal 13 al 16 dicembre, l’articolo si riferisce al concerto del 15 dicembre
Con il contributo della Regione Lazio, Laboratorio di linguaggio musicale 2018
Agli altri concerti hanno parteipato il pianista Roberto Prosseda e la violoncellista Silvia Chiesa