mercoledì 9 dicembre 2020

LEOPARDI: IL PIACERE, LA POESIA, LA MUSICA, L’ARTE. SCHUMANN: LA GENTE … I FILISTEI, L’ARTISTA.

 

 

Giacomo Leopardi

 

 

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo,forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito,ma solamente termina colla vita”.


Giacomo Leopardi, Zibaldone, p. 165, 12 luglio 1820


Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse al mondo cosa più importante da fare che piacere alla gente”.


Il filisteo vuole capire in un attimo ciò che all’artista è costato giorni, mesi, forse anni di faticoso lavoro”.


Robert Schumann


Dovremmo riflettere più spesso su questa pagina leopardiana. E sui due splendidi aforismi schumanniani (si possono leggere in Schumann, La musica romantica, a cura di Luigi Ronga, BMM, Mondadori, 1958, ristampato da NUE, Nuova Universale Einaudi, nel 1997, e ripubblicato da SE nel 2007, la prima ed. è del 1942). Perché scopriremmo quanto a volte scambiamo per nostro ultimo piacere, quello che in realtà è il piacere immediato che ci soddisfa o pensiamo che ci soddisfi, ci debba anzi soddisfare al primo impatto. Una considerazione più pacata delle nostre emozioni ci porterebbe a scoprire che in realtà ciò che pensiamo immediatamente soddisfacente è solo una parte di ciò che potrebbe maggiormente appagarci. Ci accontentiamo di solito, sembra, del noto, dell’abituale; lo sconosciuto e il difficile ci spaventano o ci respingono. Nelle arti questo è il metodo più sicuro per vietarci immensi e sconosciuti piaceri. Come quando si dice di una musica: troppo complicata, è rumore, e disordine; perché si pensa che una musica debba sortire subito, senza interruzioni di pensiero, o, peggio, di spiegazioni, solo all’ascolto immediato, l’effetto che si propone. Che l’analisi, la spiegazione, in una parola la conoscenza di com’è fatta, disturberebbe il piacere immediato che procura invece il semplice ascolto.


Ma è così? Davvero se io so come il compositore ha pensato la sua pagina, come l’ha costruita, aggiungerei artificiosamente informazioni che non rendono migliore, più soddisfacente l’ascolto?

Anzi, lo distruggerebbero, annienterebbero il piacere che posso trarne al solo ascolto? Davvero l’emozione, e l’emozione immediata, è tutto ciò che mi serve per goderne? E sono davvero così sicuro che la mia emozione, ciò che io provo casualmente nel momento dell’ascolto, sia l’emozione che mi serve per godere della pagina, sia anzi l’emozione corrispondente all’emozione che il musicista vuole suscitarmi? Su che cosa baso questa mia sicurezza? Sul fatto che provo un’emozione? Ma chi sono io per giudicare la mia emozione un criterio valido, inequivocabile, indiscutibile, che colga perfettamente il senso, anche edonistico, della pagina che sto ascoltando? Non sono assalito dal dubbio che quella sia solo la mia emozione, e non quella, magari, che il musicista vorrebbe che io sentissi. La Sonata in do diesis minore op. 27 n. 2 di Beethoven è nota soprattutto con il titolo apocrifo di “Chiaro di luna”. Ma quel bellissimo adagio iniziale non vuole descrivere nessun chiaro di luna, il suo tema, il movimento ossessivo delle terzine, è una citazione dalla scena della morte del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart. E’ dunque un tema funebre, doloroso, altro che la contemplazione di una notte con il chiaro di luna. Ma facciamo un esempio letterario, forse più comprensibile a chi sia digiuno di grammatiche musicali. Nel primo canto del Paradiso, Dante, sentendosi staccare da terra e ascendere verso l’alto, chiede a Beatrice quale sia la forza che li spinge così verso l’alto, verso le sfere celesti. Per rispondergli, Beatrice chiama in causa l’organicità dell’universo, la correlazione di tutti gli elementi del tutto. Non più legato alla terra, Dante è svincolato dalla legge che attira i corpi verso il basso, è Dio stesso che ormai lo attrae verso di sé. E’ una pagina di altissima teoria cosmologica e teologica, che si risolve però in alcune delle terzine di più alta poesia di tutto il poema.


"Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.

Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;

onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;

né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’ hanno intelletto e amore”.


E’ un inno all’armonia dell’universo, alla sua razionalità, al tenersi delle leggi di tutte le “nature”, tutte le cose, animate e inanimate. E’ la “forma”, in senso aristotelico, che tiene insieme l’universo. Ma la bellezza, sovrana, di questi versi è compresa da chi si affidasse solo alla comprensione della semplice lettura, senza nessuna cognizione della cosmologia tolemaica, della teologia tomista, della terminologia filosofica della Scolastica e quindi anche della nomenclatura del linguaggio filosofico di Aristotele? Probabile che il lettore ingenuo, illetterato, colga ugualmente qualcosa della bellezza di questo passo, ma gli sfuggirebbe la sua ragione strutturale in quel punto del poema, all’inizio appunto del “volo” verso le sfere celesti, volo che condurrà il pellegrino a trapassare la dimensione dapprima terrena e poi celeste dei pianeti e delle stelle fisse per incontrarsi nella dimensione trascendente dell’Empireo, disposto finalmente a sopportare la visione finale di Dio. E’ un’invenzione poetica che fa venire le vertigini. Non c’è paesaggio, non ci sono sentimenti, emozioni, che nascano da cause umane, non ci sono personaggi che non siano punti di luce, fiamme che trascorrono sui raggi di altre fiamme, e Dio stesso, alla fine, dopo una visione ancora figurativa, di un cerchio luminoso dentro cui si cela un’apparenza umana (il Cristo), assorbe il visitatore, l’osservante dentro di sé, e una folgorazione “spiega” ciò che la Ragione non sa dimostrare:


Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.


Ecco qua. Oggi si vive l’illusione che poesia, musica, pittura, tutta l’arte, si offrano al primo impatto immediatamente percepibili e comprensibili a tutti; che anzi una poesia, una musica, una pittura, tutta l’arte che non fosse immediatamente percepibile e comprensibile, non sarebbero vera poesia, vera musica, vera pittura, vera arte. Che non sarebbe democratico scrivere una poesia, comporre una musica, raffigurare una pittura, costruire un’opera d’arte che non fossero immediatamente comprensibili a tutti. Ma mi chiedo: che c’entra la democrazia con l’arte? Quale idea si ha dell’arte e della democrazia che le vedano così indissolubilmente congiunte? Arte e democrazie sono due sfere diverse del vivere, una riguarda la conoscenza e l’altra la politica. Democratico, infatti, non è fare arte comprensibile a tutti, ma fornire a tutti gli strumenti per capire l’arte, anche la più astrusa, anche la più difficile. Come accade per le scienze, e nessuno si scandalizza per la difficoltà di un’equazione matematica. Perché, allora, per l’arte dovrebbe essere diverso? O è questa fatica, quest’obbligo di studio, la necessità di fornirsi degli strumenti giusti d’interpretazione, che si vuole saltare? E lo si vuole perché l’arte non è la scienza, non è lo studio, ma l’immediato, l’emozione, il piacere. Riflettiamo su questo. L’immediato è il noto, il consueto. L’ignoto, l’inconsueto spaventano. Spaventano nella politica – il migrante, il nero, il musulmano ecc. - figurarsi in ciò che ci sembra nostro diritto acquisito per nascita: lo scrittore che pago quando compro un libro, il pittore che mi costa soldi se compro un quadro, il musicista cui devo un compenso per la sua prestazione. Costoro hanno l’obbligo di farsi capire da me. Mai che ci venga in mente che invece siamo noi ad avere l’obbligo di fornirci degli strumenti culturali per capirli. E una democrazia li fornisce, una dittatura magari li proibisce, perché non vuole che capiamo. Ecco la differenza: democrazia è una società che permette la comprensione anche delle cose astruse, difficili. Una dittatura quella che m’impedisce di appropriarmi degli strumenti per comprenderle. Il rapporto va dunque rovesciato. Non è l’immediata comprensibilità dell’opera a sancirne la democraticità dell’opera, la possibilità che tutti possano fruirne, bensì il fatto che io possa fornirmi degli strumenti per comprenderla, che mi sia permesso di fornirmeli, il segno che vivo in una società democratica. Ma c’è un ultimo punto da chiarire. Perché dovrebbe essere immediata la comprensione di un’opera, immediato il piacere che se ne prova? In realtà, se si approfondisce, ciò che sembra immediato, non lo è affatto. Mozart ci appaga perché lo conosciamo, o crediamo di conoscerlo, perché ci parla una lingua abituale. E dunque gli strumenti per comprendere quella lingua li possiedo già: per consuetudine di ascolto, perché è la musica che mi accade di ascoltare più spesso. Ma siamo sicuri che i questi strumenti li posseggo tutti? E che approfondire magari come Mozart costruisca la sua musica mi rovinerebbe il piacere di ascoltarla, mi distruggerebbe l’immediatezza di questo piacere? Vediamo un po’.


Gli ultimi cinque quartetti di Beethoven sono tutti e cinque costruiti su temi che hanno per cellula generatrice il nome Bach, con le denominazione tedesca delle note i suoni sono B A C H, si bemolle la do si naturale, due intervalli di semitono che si succedono a distanza di una terza. Nella sua intonazione originale questa cellula la si ascolta solo nel quartetto op. 130, che è nella tonalità di si bemolle maggiore, ma la successione do si naturale è abbassata di una terza e diventa la bemolle sol. Abbiamo pertanto una successione discendente di semitoni: si bemolle la la bemolle sol, che insieme forma una terza minore discendente si bemolle sol:


https://www.youtube.com/watch?v=hXvP0bqw2Cs


La terza è un intervallo ricorrente nella musica di Beethoven, soprattutto degli ultimi anni. La progressione tonale del primo tempo della Sonata op. 106 in si bemolle maggiore (come il quartetto op. 130) è fondata su una successione discendente di terze. Brahms ne farà tesoro. Ma torniamo al semitono. Fin dalle prime composizioni, il semitono è un intervallo ossessivo nella fantasia costruttiva di Beethoven. Ma nell’ultimo periodo diventa quasi l’unica fonte d’ispirazione. Il motivo è molto semplice. E’ l’intervallo che stabilisce l’avvento di una tonica, se ascendente, di una dominante secondaria se discendente. Ora, se io infittisco la presenza di questo intervallo, introduco nella costruzione di una tonalità altre toniche e dominanti secondarie che indeboliscono la preminenza della tonica fondamentale. L’insistenza di una dominante, tuttavia, può essere un espediente che alzi una barriera all’indebolimento della tonica. Esplicito in tal senso l’attacco del Concerto per pianoforte e orchestra op. 37 in do minore. La successione dominante tonica è ribadita energicamente per due volte, alla terza e quarta battuta. Poi, però, finita l’esposizione orchestrale, all’ingresso del pianoforte, dopo le scale affermative e la riesposizione della testa del tema, il pianoforte se ne allontana, avventurandosi in nuove e distanti tonalità. E’ solo l’inizio di una serie di avventure armoniche di cui tutto il concerto è una miniera inesauribile (la misteriosa scansione del semitono, nel finale, da parte dell’orchestra, che introduce la riesposizione del tema del rondò):


https://www.youtube.com/watch?v=R1QNhRNxvTI



Negli ultimi quartetti, il semitono – a differenza di quanto accade in Mozart – non introduce un clima cromatico, cangiante all’armonia, con la certezza che poi comunque si ritorna alla tonica, in Mozart sempre ribadita con forza, ma fa intravedere piani armonici multipli, anche lontanissimi, che possono perfino mettere a rischio la tonalità d’impianto. In certi momenti anzi Beethoven sembra visionariamente anticipare avventure armoniche del Novecento, la dissonanza acquista un’autonomia impensabile prima di lui. E si badi, ciò accade già nel Beethoven giovane: la prima sinfonia attacca con un accordo di settima, che però non si risolve subito sulla tonica, ma cade sulla dominante: la tonica è rinviata. E’ un attacco rivoluzionario, insolito: già nella sua prima sinfonia Beethoven mette dunque la propria firma. E non c’è solo questo. La frenesia ritmica del finale non ha precedenti. Se ne possono individuare le suggestioni haydniane, ma è un’altra cosa. Tornando agli ultimi quartetti, Beethoven non sente più il bisogno, se mai l’ha sentito, di ammorbidire l’urto di una condotta armonica insolita. E’ ciò, anzi, che gli rimproverano i critici musicali sulla stampa contemporanea: “Se Beethoven continua a cercare così spudoratamente l’inaudito, tra qualche anno nessuno vorrà ascoltarlo” decreta un critico viennese dopo la prima del Concerto per violino e orchestra (cito a mente). Per avere un’idea dell’esasperazione costruttiva alla quale giunge Beehoven negli ultimi quartetti si ascolti la Grande Fuga, immaginata all’inizio come finale del Quartetto op. 130. La cellula BACH si riduce al semitono. Si può dire, anzi, che l’unico intervallo tematico sia il semitono congiuntamente all’intervallo relativo, la settima:


https://www.youtube.com/watch?v=HQb_locz2_U


Ma è questo il punto. Beethoven non scrive per essere immediatamente percepibile, compreso. Scrive una scrittura che sia essa stessa chiara, comprensibile, coerente. Ma che perché se ne comprenda la chiarezza e la coerenza si deve fare lo sforzo di capire a quali regole questa scrittura ubbidisca che non siano le regole già note. Tanto più in un quartetto, genere non ancora destinato al grande pubblico, come una sinfonia, un concerto, ma a un pubblico ristretto di conoscitori delle tecniche musicali, prima di tutto agli stessi esecutori del quartetto, ma principalmente agli altri compositori. E questo avviene ancora. Il quartetto è un po’, ancora oggi, il laboratorio specialistico di un compositore. Una delle pagine più complesse e insieme affascinanti dell’ultimo Luigi Nono è proprio un quartetto, Fragmente – Stille. An Diotima:


https://www.youtube.com/watch?v=4KWEW9loCk4


Ma si pensi anche ai quartetti di Bartók e di Schoenberg, di Webern (op. 28):


https://www.youtube.com/watch?v=MWP3njVO_iw&t=0s


Anche il quartetto di Webern è costruito sul nome BACH. La serie che ne deriva è così illustrata da Mario Bortolotto:Ora, tal serie è composta di sole seconde minori, terze minori e maggiori. Siccome in essa il rovescio è identico al retrogrado, le possibilità di recezione sono ridotte: ciò che viene percepito, nella trama intervallare, è appunto e solo una costanza implacabile di intervalli identici: essi, in una sezione di quattro suoni, si configurano secondo la sigla B.A.C.H., su cui tante musiche si sono composte”. Oltre al nome Bach, l’allusione ai quartetti beethoveniani è esplicita.


Ora, se io illustro tutto questo, faccio cioè comprendere quanto complessa sia la costruzione di un quartetto, anche se parte magari da elementi semplicissimi, un intervallo, un ritmo, un accordo, se informo quale teoria cosmologica, quale visione filosofica si sottenda al sublime inno all’armonia dell’universo che Dante mette in bocca di Beatrice nel primo canto del Paradiso, diminuirò il piacere che proverà l’ascoltatore ascoltando, il lettore leggendo, offuscherò l’emozione suscitata dalla intensità espressiva della musica, dalla bellezza sovrumana dei versi? Certamente, no. Allora, da che cosa nasce questo fastidio, quest’antipatia per la difficoltà di un’opera, per la complessità di una pagina? Il lettore di queste superficiali e provvisorie righe si risponda.


Fiano Romano, 3 dicembre 2020



lunedì 7 dicembre 2020

Roma, Il Barbiere di Siviglia in tempo di covid 19

 

Roma, Teatro dell’Opera, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, libretto di Cesare Sterbini dalla commedia di Pierre-Augistin Caron de Beaumarchais.


Direttore Daniele Gatti

Istallazione e regia Mario Martone

Maestro del Coro Roberto Gabbiani

Costumi Anna Biagiotti

Luci Pasquale Mari

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma


Nuovo allestimento

Teatro dell’Opera di Roma


CONTE D’ALMAVIVA Ruzil Gatin

ROSINA Vasilisa Berzhanskaya

DON BARTOLO Alessandro Corbelli

FIGARO Andrzej Filończyk

DON BASILIO Alex Esposito

BERTA Patrizia Biccirè

FIORELLO Roberto Lorenzi

AMBROGIO Paolo Musio

UN NOTAIO Pietro Faiella


Non è Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, ma la messa in scena del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini in un teatro vuoto al tempo della peste. Se non si entra in questo ordine di idee non si comprende appieno il senso di questa messa in scena di Mario Martone, in cui riprese cinematografiche, televisive e azione teatrale concorrono a formare un unico spettacolo. L’essere si dice in molti modi, scrive Aristotele. E anche il teatro si rappresenta in molti modi. Non sorprenda, qui, l’avvio alto, dotto: Aristotele aveva compreso perfettamente la natura del teatro, che non è rappresentazione del vero, ma del verosimile. Ed è proprio su questa intuizione della natura ideale, Aristotele direbbe “filosofica”, del teatro, come scena del possibile e non del reale, che bisogna tornare a riflettere. Soprattutto da parte di un pubblico, come quello italiano, che per lo più, sembra, del realismo ha invece fatto il suo ideale di teatro – e di cinema, di letteratura. Sembra che questo spettacolo, che inaugura la stagione 2020-2021 del Teatro dell’Opera di Roma, sia stato visto alla televisione – programmato con il sostegno di Rai Cultura – su RAI 3, da circa 680.000 telespettatori. E che abbia ricevuto un notevole consenso. Forse il pubblico italiano è più maturo, attento, aggiornato, di quanto una chiassosa minoranza di nostalgici delle quinte di cartapesta e delle crinoline, oltre che degli strilli del tenore o dei gorgheggi sei soprani, farebbe supporre.  

 


L’attacco è mozzafiato. Senza preparazione l’orchestra attacca subito la sinfonia: sarebbe ora che le cose si chiamassero con il loro nome: le opere italiane di Rossini – e di Donizetti, di Verdi – non hanno ouvertures o overtures (all’inglese), bensì sinfonie: la sinfonia del Barbiere, ma la Ouverture dl Guillaume Tell, che nel Guglielmo Tell ridiventa sinfonia. Telecamera su Daniele Gatti, il direttore, sull’orchestra, sugli strumentisti dell’orchestra, tutti con la mascherina, tranne i suonatori di strumenti a fiato. E questa è già una visione inquietante. Poi abbiamo il coro che entra in platea e canta: “Tutto è silenzio; / nessun qui sta / che i nostri canti / possa turbar”.


Carrellata sul teatro vuoto, vuotissimo. Viene un nodo alla gola. Guido Gatti sulla motocicletta scorrazza per le strade di Roma, come Nanni Moretti in un film famoso, e va a prelevare il baritono Andrzej Filończyk, che entra in teatro, si veste, ed è Figaro. Comincia l’opera. Cioè: comincia la messa in scena dell’opera nel teatro vuoto ai tempi del virus. Tranne l’orchestra, confinata nella buca – e se si fosse sollevata, come ai tempi di Rossini? L’affossamento è dovuto a Wagner – tranne l’orchestra, e gli strumenti del basso continuo, sulla scena, i cantanti attori vagano per tutto il teatro, platea, scena, e anche nei corridoi, nel foyer. Rosina si affaccia dal palco reale, ora presidenziale. In veste da camera. L’abito per il pubblico lo indossa davanti alle telecamere: come a dire: in pubblico. E il primo piano del suo volto è un altro tassello del senso di questa messa in scena: Figaro dice: “grassotta, genialotta”, e abbiamo sotto gli occhi un bel faccino rotondetto. Anche di Figaro Almaviva, Ruzil Gatin, aveva detto: “ti vedo grasso e tondo”. Filończyk risponde alla descrizione. Ma il fatto che in evidenza sia la messa in scena non significa poi che l’opera passi in secondo piano, né tanto meno che l’interpretazione musicale sia subordinata alle condizioni stravaganti della messa in scena. Il teatro musicale è tale perché a misurare il procedere dell’azione è solo la musica, come scrive bene Fabrizio Della Seta: “la musica non è la sonorizzazione di un progetto drammatico predisposto altrove: è essa stessa la manifestazione sensibile di tale progetto".  (Cos’è il teatro musicale: alcuni chiarimenti preliminari, in Linguaggi, esperienze, tracce sonore sulla scena, Ravenna, 2020). 


 

 

 La musica è la misurazione del tempo, e dunque dell’azione di un dramma. Qui entra in gioco l’interpretazione musicale di Daniele Gatti. Finalmente un direttore che ha fatto esperienza della lezione di Abbado nell’interpretare Rossini. Tanto per cominciare il miracoloso equilibrio tra orchestra e voci. Ma anche, appunto, la misurazione del tempo. I tempi di Rossini non sono solo un’inflessibile macchina musicale, sono – e tutt’altro che inflessibile – un dinamico motore sonoro dell’azione teatrale. Con effetti di estraniamento che fanno pensare a Stanlio e Ollio, a Chaplin, a Buster Keaton. Le conseguenze di un’azione sono sempre sproporzionate al motore che le ha mosse. “Piano, pianissimo, / senza parlar, / tutti con me / venite qua” – all’inizio dell’opera, oppure, alla fine: “zitti zitti, piano piano, / senza fare confusione”, e in tutti e due i casi succede un casino della madonna. O i sospiri di Rosina e Almaviva, “dolce nodo”, e Figaro ripete, stizzito, per fargli fretta: “nodo”, “andiamo”. I tempi di Gatti sono infallibili, finissimi. Come la concertazione, l’attenzione alle sfumature timbriche sia strumentali che vocali. 


 

 

Il cast è di prim’ordine, quasi perfetto. Forse un po’ troppo trattenuto il Figaro di Filończyk, forse. Ma forse perché siamo abituati a interpretazioni più scatenate. Ne esce invece la figura di un borghese calcolatore e arrivista, mosso soltanto dalla cupidigia del guadano. Bella l’idea di un Almaviva tutt’altro che espansivo, un correttismo Ruzil Gatin. Qualche limite vocale, forse, nei registri acuti. Ma è ben disegnata la figura di un nobile arrapato e arrogante. Le Nozze di Figaro dimostreranno di che pasta fosse il suo amore per Rosina. Rossini le dà per conosciute e scontate. Impagabile il don Bartolo sulla sedia a rotelle di Alessandro Corbelli. Alex Esposito tratteggia alla meraviglia la perfidia, la miseria, la pusillanimità, e l’avidità di Don Basilio. Patrizia Biccirè dà il giusto rilievo alla serva Berta, anche lei un personaggio che ambisce ad altro, a cambiare posizione. E finalmente ha il suo giusto rilievo anche la figura di Fiorello, Roberto Lorenzi, bel giovane servizievole, ma anche seccato dall’indifferenza e tracotanza dell’aristocratico Almaviva, che lo fa attendere inutilmente per ore all’ingresso del teatro. Bellissime le riprese, perfetto l’occhio del regista televisivo che registra il lavoro del regista teatrale. Uno spettacolo tutto da godere, e che, sembra è stato goduto. Ma fa riflettere, anche. E in qualche punto fa venire i brividi. Perché quel teatro vuoto non è teatro. Bastano poche immagini delle glorie passate, Anna Magnani, Maria Callas, elegantissime, tra la folla plaudente e sorridente del pubblico degli anni passati, durante l’intervallo tra il primo e il secondo atto, per ricordarci che il pubblico in un teatro, non è una massa passiva, ma l’altro personaggio dello spettacolo, quello che riconosce in ciò che vede e ascolta, sulla scena, quell’ “universale” in cui Aristotele individua la natura filosofica del teatro.



lunedì 23 novembre 2020

Tre Quadri di Francesco Filidei: nuova musica?



Francesco Filidei

Tre Quadri di Francesco Filidei, concerto per pianoforte e orchestra che ripensa la storia del concerto


Questa non è una recensione, ma una riflessione stimolata dall’ascolto di una nuova musica. Si tratta di Tre quadri, di Francesco Filidei, concerto per pianoforte e orchestra, commissionato da Milano Musica, Casa da Música di Porto e Festival Warsaw Autumn. E’ stato trasmesso in diretta il 12 novembre su radio3, e visto e ascoltato in differita su RAI5 il 22 novembre, dall’Auditorium Rai “Arturo Toscanini” di Torino, Orchestra Sinfonica della RAI diretta da Tito Ceccherini, al pianoforte Maurizio Baglini. E’ un concerto che in qualche modo ripensa la storia del concerto. Ripensa: non ripercorre. Pensiero di una tradizione, avanguardie comprese (e perché no?), non calco di essa. I tre quadri sono i tre tempi classici di un concerto, almeno da Vivaldi a noi. Ma in questa reinvenzione del concerto hanno ciascuno un titolo: 1. November, 2. Berceuse, 3. Quasi una bagatella. Il secondo titolo evoca Chopin, già solo nel titolo. In realtà anche nella “materia” musicale, e uso non a caso questo termine, perché, come in Chopin, la musica si fa materia di un pensiero, di un emozione: si badi, “materia”, non “espressione”. Significa che la musica non esprime un sentimento, ma lo materializza, lo riduce a fenomeno sonoro. Fuori di metafora: non è linguaggio, ma atto, forma, materia formata, nel senso in cui Aristotele intende questi termini. Il terzo ricorda, infine, Beethoven, almeno a quelli che conoscano le splendide Bagatelle di Beethoven. Ne compose tre cicli: op. 33, op. 119, op.126 (le più affascinanti). E altre sparse, singole, dalla giovinezza alla maturità. Quasi appunti di viaggio. Per Elisa, è uno di essi. Così definisce il dizionario Treccani i significati della parola:

bagattèlla s. f. [etimo incerto]. –1. a. ant. Gioco di prestigio, di bussolotti. b. Gioco simile al biliardo che si fa sul tavoliere del biliardino, a 9 buche, con 4 palle bianche, 4 rosse e una nera, lanciate con una corta stecca. 2. Cosa di nessun conto: scrivere, stampare delle b.; o che comporta poca fatica: fare quel salto per lui è una b.; più spesso iron.: ha da pagare un’ammenda di ventimila euro: una bagattella! (o anche, al plur., bagattelle!); e dico, con quella b. di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo, c’è giudizio? (Manzoni). 3. In musica, breve componimento per lo più di tono lieve e sereno, talora (come in Beethoven) a carattere malinconico.Dim. bagattellina,bagattellùccia,bagattelluzza.

Da considerare un aspetto ermeneutico non secondario: che il termine nasce per designare un gioco. In subordine: cosa di poco conto. In musica i due significati si associano, pezzo di poco conto, un gioco musicale. Uno scrittore potrebbe chiamarli abbozzi, un pittore schizzi. Debussy si lascia affascinare dal termine, in senso pittorico, per una delle sue partiture più sconvolgenti: La mer. Non chiamo in causa a caso Debussy. Abbozzo, schizzo, con tutto ciò che il termine comporta di provvisorietà, casualità, è anche il senso che sembra conferirgli Filidei. Purché si sottintenda che la provvisorietà musicale – l’improvvisazione – è pur sempre un programma, richiede un’attenta progettazione (anche nel jazz!). I romantici preferirono al termine beethoveniano quello di foglio d’album, in tedesco Albumblatt. La “cosa di poco conto” che sarebbe la bagatella in realtà per il compositore conta moltissimo. Il termine vuole porre una distanza tra la leggerezza programmatica del genere e i titoli alti, accademici, di altri generi musicali, come potrebbero essere una sonata, una suite, a parte il fatto che poi questo genere “leggero” indica un pezzo singolo e non una successione di pezzi. Frescobaldi, Bach lo avrebbero chiamato “capriccio”, termine che Paganini recupera dalla pratica barocca: e si noti, Paganini usa un termine barocco, ma anche la sua pratica, per un genere moderno. Ma forse il confronto che chiarisce meglio il senso del termine è quello latino di nugae (non c’è il singolare), baie, ciance, bagattelle, con cui Catullo chiama i propri carmina, le sue meravigliose poesie. Una cosa da poco, appunto. Anche se magari raccontano la lacerazione di un amore finito. Le bagatelle (Beethoven scrive un t sola, e anche noi adotteremo l’ortografia beethoveniana) di Beethoven sono pagine straordinarie, visionarie, che aprono un universo musicale nuovo. Sono già, in parte, ciò che saranno i “pezzi”, Stücke, di Schumann. Uno schizzo, un epigramma (le nugae catulliane sono in realtà epigrammi della più pura tradizione alessandrina). Ma un epigramma può in taluni casi assurgere al respiro di un idillio, di un breve, ma intenso poema. In questo senso li reinventerà Leopardi. E riflettete a quanto la tradizione influisca nell’invenzione del moderno.

Perché questa digressione? Perché Filidei chiama il terzo tempo del suo concerto “Quasi una bagatella”. Ora, in genere, il tempo di un concerto tutto è tranne che una bagatella. E Filidei di fatto ci mette in guardia. Non una bagatella, ma “quasi”. Poi però l’attacco del tempo ci assale con una citazione gigantesca, schiacciante: l’accordo iniziale del Quinto Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven. All’accordo, in Beethoven, seguono improvvisazioni del pianoforte che con arpeggi scorrono per tutta la tastiera. Beethoven ripete l’accordo tre volte, e il pianoforte alla fine si calma, chiude con una cadenza. Solo a quel punto l’orchestra attacca il primo tema del primo tempo del concerto. Filidei all’accordo dell’orchestra fa seguire una sola nota del pianoforte. Che tra l’altro ricorda anche come il concerto è cominciato, con un timido singolo suono nel registro acuto della tastiera, seguito da una sorta di mordente. Da questo timido attacco si sviluppa la narrazione di November. E la chiamo non a caso narrazione. Anche l’attacco del terzo tempo, “Quasi una bagatella”, è una narrazione, e una narrazione piena di allusioni. Cita Beethoven, ma lo mutila, o, se volete, alla figura colorata sostituisce un negativo in bianco e nero. Ma anche qui, da questo minimo impulso nasce il percorso accidentato, ricchissimo (c’è perfino un’altra citazione, questa volta da Respighi), del tempo. Anche il tempo centrale, Berceuse, nasce da suoni singoli del pianoforte, ma questa volta tre, che propongono tre registri distanziati della tastiera, nell’ordine: molto grave, sovracuto, medio. Mi sono soffermato su questi tre attacchi per suggerire un’osservazione. Tutti e tre i tempi partono da un’idea semplicissima, timbrica, più che melodica o armonica. Ed è l’esplorazione dei timbri del pianoforte, dell’orchestra, delle possibilità di articolarli in dinamiche diverse, perfino opposte, piano, forte, motivi di poche note, aggregati che rasentano il cluster, che costituisce l’ossatura, la colonna vertebrale di tutto il concerto. Ciò genera nell’ascoltatore via via sorpresa, piacere, riconoscimento di ciò che accade. Ed è questa successione di reazioni nell’ascoltatore a essere prevista dalla scrittura, a generare il senso di una narrazione. La citazione beethoveniana non è casuale. Beethoven è infatti un eccelso drammaturgo della propria musica, calcola al secondo di pausa l’effetto che la musica produce nell’ascoltatore. Sempre. Ma nelle bagatelle questa previsione, il calcolo della sorpresa si fa addirittura sistema della scrittura, programma del percorso musicale. Il che deve essere piaciuto immensamente a Schumann. Non ci sono veri e propri temi, vere e proprie melodie, ma accenni, schizzi di tema, di melodia, o quando la melodia si fa spudoratamente cantabile è subito interrotta da qualcosa che la contrasta. Può succedere perfino che la battute iniziali e finali, identiche, non abbiamo niente a che vedere con il corpo della bagatella, come avviene nella sesta bagatella dell’op. 126, sei battute, alla breve, Presto, attaccano e chiudono la bagatella, il corpo della quale è costituito da una sorta di barcarola in 3/8, Andante amabile e con moto. In realtà il rapporto tra le due parti, apparentemente inesistente, all’ascolto, si rivela nella scrittura chiarissimo, l’attacco e la melodia della barcarola sono costruiti sui primi accordi della mano sinistra e sui suoni emergenti della volata della mano destra del Presto che apre e chiude il pezzo.

Filidei non si comporta diversamente. Ciò che all’ascolto appare diversificato, nella scrittura risulta conseguente, logico, derivato da ciò che precede. In parole povere la musica è costruita come una narrazione di eventi sonori legati l’uno all’altro che si succedono in modo da destare insieme sorpresa e piacere nell’ascoltatore. Ciò distingue il concerto dalla musica della avanguardie postdarmstadtiane, intese per lo più a una logica tutta interna della scrittura, e apparentemente (apparentemente!) indifferenti alle impressioni d’ascolto. Le lezioni di Sciarrino, maestro per un certo tempo di Filidei, devono avere appunto indirizzato la fantasia di Filidei a questa sollecitazione di una percezione narrativa della musica. Non a caso, come Sciarrino, Filidei è interessato al teatro, a scrivere per la scena. Ma le somiglianze o, meglio, le affinità finiscono qui. Perché poi Filidei appare molto più disposto di Sciarrino a rompere gli equilibri, le ripetizioni, le omogeneità sonore. A chi ama individuare influssi e dipendenze affido la ricerca di eventuali suggestioni. Più interessante mi sembra cogliere invece l’originalità, l’individualità di una simile scrittura, tesa a far coincidere la coerenza della costruzione con la varietà degli effetti drammatici – ebbene sì: drammatici -, percepire quanto la molteplicità degli eventi musicali nasca da un’intuizione e intenzione unica, unitaria. Proprio come nelle Bagatelle beethoveniane, o nei Notturni chopiniani, negli schizzi sinfonici debussiani. Ma naturalmente solo dal punto di vista della costruzione, non certo dal punto di vista stilistico. E qui, credo, bisogna fare una riflessione. Si accusa la musica “di ricerca” di ripetere avanguardie defunte, di ricorrere a schemi di 70 anni fa. E che cosa si vorrebbe opporle? La restaurazione di un’armonia e di un melodizzare che attraggono per la loro semplicità, e fanno esclamare, ah, questa sì che è musica? In altre parole si esige che a una scrittura complessa, intricata, problematica, si sostituisca una scrittura di effetti musicali già noti all’ascoltatore, semplice, decifrabile, riconoscibile, che non provochi perplessità, dubbi, respingimenti, perché non vi si riconosce ciò che abitualmente si aspetta da una musica. Peccato che gli esempi di un tal genere di musica che ci vengono additati, e a cui ci si appella, e che provengano soprattutto dal mondo anglosassone e americano, non compiano poi affatto quest’operazione di restaurazione. Glass, Nyman, Bryars, Adam e altri non restaurano l’armonia tonale, ne disattivano anzi le funzioni, di cui s’impossessano come di una maschera. Inoltre, ogni compositore vive e si sviluppa all’interno della cultura in cui nasce o in cui decide d’impiantarsi. I compositori inglesi e americani attingono, da parte loro, a un patrimonio musicale che non appartiene al compositore europeo, o può appartenergli solo come prestito, esemplare l’esempio di Ravel. Senza contare che la musica, di ogni paese, in ogni epoca, ma soprattutto nella nostra, svolge molteplici funzioni, un concerto di musica “assoluta” non è teatro musicale, non è una musica per film, né una musica d’arredamento, da ascoltarsi negli aeroporti, in metropolitana, nei negozi. Un compositore italiano non è un compositore cinese, non è un compositore africano, o australiano, per ciò che possa significare essere cinesi, africani, australiani senza nessun’altra precisazione, di città, di regione. ecc. ecc. e senza contare che le commistioni, le esplorazioni di territori lontani, perfino estranei, e pertanto le assimilazioni da altre tradizioni non sono cose proibite. Se qualcosa le avanguardie ci hanno insegnato, anzi, soprattutto con il loro tramonto, è che non esiste un solo tipo di musica, come non esiste un solo tipo di poesia, di teatro, di cinema. 


Maurizio Baglini 

Una delle scemenze più inaccetabili che ho recentemente letto - e naturalmente da parte di italiani - è che la poesia di Louise Glück, premio Nobel di quest’anno per la letteratura, non è una poesia moderna, tanto meno d’avanguardia, ma piuttosto “tradizionale” (che cosa significhi una poesia “tradizionale” però non è stato spiegato), e che il Nobel le è stato conferito perché la giuria svedese è composta da vecchi (sic!). Ora, a parte l’assurdità di simili affermazioni, che tuttavia sono state formulate, e si possono ancora leggere in rete, va osservato che se fosse vero che la giuria svedese fosse composta solo da vecchi parrucconi, allora questi vecchi parrucconi avrebbero oggi tra i 60 e gli 80 anni, e allora negli anni 40-70 del secolo scorso, quando avevano 20-50 anni, la poesia che avrebbero amato, e che dunque amerebbero ancora, era proprio la poesia di avanguardia e quindi non avrebbero mai scelto di dare il Nobel a un poeta “tradizionalista”. Tradizione e avanguardia a parte, mi sembra che ci sia una grande confusione. Come sa da una notte a un mattino uno possa buttarsi alle ortiche la tradizione da cui nasce. Di questa tradizione, invece, fa parte anche l’avanguardia. Chi è povero di idee la scimmiotta. Chi le idee ce l’ha, ne tiene conto ma va oltre, fa altro. E’ quello che fa Filidei. Che se poi vogliamo accusarlo di usare schemi di 70 anni fa, usarne di 200 anni fa, come da qualche parte si propone, è più moderno? Sono discussioni che lasciano il tempo che trovano. Che confondono lo stile – e quello sì che invecchia – con il pensiero che regge un’opera, e questo si rinnova ogni volta che se ne scrive una, affondasse pure le sua radici in una lunga tradizione. L’Ars Nova del Trecento rompe con la tradizione polifonica dei secoli precedenti, ma non sarebbe sorta senza le premesse teoriche e pratiche di quella tradizione. Così accade anche oggi. E che ciò accada lo dimostra, tornando al concerto di Torino, il confronto tra i Tre Quadri di Filidei e le altre due pagine in programma, con una sorta di marcia del gambero, dall’oggi all’inzio del ‘900: In cauda III di Donatoni (1996) e Le chant du rossignol di Stravinsky (1914). Donatoni è un compositore che ha percorso l’intera parabola delle avanguardie postdarmstadtiane, dopo un inizio bartokiano a una sempre più marcata volontà di espungere il compositore dalla pagina per lasciare che la materia musicale si sviluppasse per così dire da sé (il che, in parte, non smentisce le origini bartokiane). Abbiamo così una composizione massiccia, compatta, che sembra esplodere per una sorta di tensione interna, come una stella nana sul punto di collassare. Stravinskij, in una delle sue partiture più mirabolanti, che quasi scrivono la storia del suo percorso dalle scintille korsakoviane alle asprezze ritmiche e timbriche degli anni folli che precedono il conflitto mondiale, squaderna una tale molteplicità di soluzioni armoniche, timbriche, ritmiche, da prefigurare quasi un secolo di avanguardie, e insieme il loro superamento, proponendo una tale molteplicità d’interventi che ancora oggi stupisce. Ed ecco, se mai, è a questo tipo d’invenzione musicale che sembra riattaccarsi Filidei, non per imitarla, ma per adottarne la libertà costruttiva. E il cerchio si chiude. 


Tito Ceccherini

Tradizione innovazione non sono due poli che si contrastino, ma due facce di un’unica evoluzione, il passato feconda il presente non con modelli da copiare bensì con proposte di procedimenti da attuare. Il modello invecchia, il pensiero no. E tornando a Beehoven, nella ventesima variazione Diabelli, costruita come una serie omoritmica di accordi, i cui suoni sono però il risultato di un movimento canonico delle parti, il tema delle variazioni, il valzer di Diabelli, è ridotto al solo semitono. Che non sia fantasia di musicologo pazzo, lo dimostrano gli appunti preparatori schizzati da Beethoven. Allora: che cosa impedisce a un compositore di oggi di sentirsi stimolato a procedere nello stesso modo? Filidei non riduce a un singolo intervallo un tema. Ma da un singolo suono sviluppa un intero concerto in tre movimenti. Avanguardia? Può darsi. Ma allora, per coerenza, rifiutiamo anche l’avanguardia di Beethoven. Tanto più che anche il concerto di Filidei è capace di emozionare. E forse è proprio questo che molti trovano insopportabile o perché tradisce l’avanguardia o perché – come osa? - usando procedimenti che si suppongono d’avanguardia (ma abbiamo visto che non è vero), riesce lo stesso a commuovere. E allora, dall’una e dall’altra parte, i conti non tornano più. Un’ultima parola per gli interpreti. Comincio anche qui dalla fine. L’orchestra che applaude direttore e pianista, direttore e pianista che applaudono l’orchestra. Perché, in tempo i covid19, il pubblico non c’è. Tito Ceccherini, il direttore ha letto tutt’e tre le pagine con mirabile chiarezza. Ne ha fatto seguire il percorso con sensibilità musicale rara. Maurizio Baglini, il pianista, ha fatto nascere a poco a poco la musica dalla tastiera come se fosse Schumann. Con un finezza del tocco, una fluidità del fraseggiare - le difficilissime volate leggere come un volata lisztiana o chopiniana – che in realtà sono il risultato di una lucidissima lettura della partitura, di com’è costruita, che valore abbia una figura musicale rispetto a un’altra. E adesso si capisce perché il suo Schumann risulti così intrigante, così nuovo: perché è letto con ciò che nasce da quella musica fino ad oggi, e la musica di oggi risulta così avvincente perché rivela le radici, anche lontane, da cui nasce. Un concerto ch’è stato un’esperienza insieme emotiva ed intellettuale. Non succede tutti i giorni. Ma è lo stesso Francesco Filidei a confessarcelo e a confermarlo in un’intervista concessa a Valerio Sebastiani su Quinte Parallele, il 29 aprile di quest’anno:La grande sfida odierna sta proprio nell’essere comunicativi, riuscendo al tempo stesso a superare certe necessità che appartengono al passato”. Be’, se questo non è un nuovo modo di pensare la musica, oggi, e di non cercare dunque scorciatoie, o ripetendo le formule delle avanguardie novecentesche, o restaurando parametri armonici passati, non so proprio che cosa si possa intendere per nuova musica. E il mondo di oggi non ha bisogno di restaurazioni, di riproposte, di risciacquature del già sciacquato, di qualunque tipo esse siano, ma ha bisogno appunto di pensieri nuovi, che propongano il nuovo, nuove idee, senza dimenticare il passato. Tutto il passato. E dunque anche il passato delle avanguardie. Le grandi cose si sono sempre fatte in questo modo.