sabato 31 luglio 2021

Festival di Bayreuth 2021: l'Olandese Volante


 

Ho visto il video dell’Olandese Volante che ha inaugurato il Festival di Bayreuth il 25 luglio scorso. Spettacolo intenso a tutti i livelli. La concertazione di Oksana Lyniv è quasi febbrile, incandescente, e tuttavia scrupolosissima, quasi analitica, una lucida lettura della complessa partitura, riesce a far convergere in un’unica idea drammaturgica le diverse, e talora contrastanti, zone stilistiche. Non è che Wagner ceda per una parte alla convenzione e per un’altra sia un innovatore, ma piega invece anche la convenzione all’idea drammaturgica che intende realizzare. Daland, Erik non cantano secondo il melodramma romantico e l’Olandese, Senta secondo la nuova ide di dramma musicale, le differenze a ben vedere non sono poi enormi, nell’Olandese, basterebbe il duetto tra Senta e l’Olandese nel secondo atto, a smontare questa impalcatura critica: Il Wagner romantico tiene sempre un po’ il piede in due staffe e talora anche il Wagner maturo e quello tardo (l’interruzione di Brangania nel Tristano, la canzone di Walter e il Quintetto nei Maestri Cantori). Il mondo quotidiano borghese dei marinai della famiglia e il mondo inquietante del perturbante richiedono livelli diversi di espressione e nell’Olandese Volante s’intrecciano tra loro. La messa in scena di Dmitrij Černiakov l’asseconda su questa strada: l’inquietante, l’anomalo nascono nel corpo stesso della vita quotidiana. Splendida la scena della birreria in cui l’Olandese, un gigantesco, incombente e impassibile John Lundgren, dialoga con gli abitanti del villaggio, offre loro da bere, ma poi a un tratto rivela la sua buia identità, la sua perturbante presenza. Magnifica Senta, un’ipersensibile, una perturbata Asmik Grigorian – si sta rivelando tra i soprani più intelligenti del momento, si ricordi la sua sconvolgente Salome di Salisburgo, messa in scena da Castellucci - gli sta bene di fronte. Altro momento significativo, la cena in casa di Daland, Olandese e Senta ai capotavola, su un lato della tavola Daland e la moglie che guarda con sempre maggiore apprensione il volto dell’Olandese: finirà per ucciderlo, nel finale dell’opera, liberando la figlia dall’incubo. Ci devo riflettere. Ma è una rappresentazione davvero incisiva, forte, e aderentissima al dramma immaginato da Wagner. La naturalezza con cui i personaggi recitano sulla scena è la stessa di quella di un film. Esattamente ciò che Wagner si aspettava: che l’azione sulla scena riassumesse tutto il senso del dramma, sia del testo sia della partitura, finalizzati l’uno e l’altra alla realizzazione appunto del dramma sulla scena. Sembra di ritornare alle origini, alla stessa Poetica di Aristotele, quando, giustamente, Aristotele precisa e spiega la differenza tra un poema e una tragedia, tra la poesia e il teatro: perfino il racconto, in una tragedia, non è poesia narrativa, ma è azione agita da un attore, l’azione di un messaggero che racconta, per esempio. Il poema invece è puro racconto. La tragedia è per contro la rappresentazione di un racconto. Ciò sia detto per tutti coloro che ancora pensano che le didascalie di un dramma, di un libretto, prese alla lettera, siano l’azione, siano il dramma. Tra l’altro, sia la tragedia greca, sia il teatro elisabettiano, sia il teatro spagnolo del “siglo de oro”, sia il teatro classico francese propongono testi sprovvisti di didascalie che non siano l’entrata e l’uscita dei personaggi, o di qualche loro gesto. In calce: mi sembra tempo perso stare ancora a discutere sulla fedeltä o infedeltä di una messa in scena. Come se una messa in scena che rispetti alla lettera tutte le indicazioni delle didascalie ma che non imprima nessun ritmo alla recitazione, che privilegi l’esibizione canora sulla drammaturgia, non sia anch’essa un tradimento del testo. Se mai, su questo Olandese una contraddizione la riscontro. Se l’Olandese non può morire, anzi invoca come una liberazione la morte, come fa la madre di Senta a farlo fuori con uno sparo i fucile? A meno che la scena della cena in famiglia – ma anche prima, la scena nella birreria – non riveli nella figura dell’Olandese un impostore, che abbia ingannato e ammaliato Senta, e la madre lo capisce. Allora tutta l’opera acquista una nuova luce. Di un’attualità inquietante, più terribile della leggenda dell’Olandese Volante. Il potere, la ricchezza, la figura accattivante appartengono oggi agli impostori, ai truffaldini, ai gangster. Solo oggi?


Wagner, Der fliegende Holländer, Bayreuth 2021


I.


https://www.youtube.com/watch?v=gJc6yzHKtW4



II.


https://www.youtube.com/watch?v=WVVy1PbWFbo




La seduzione "queer" di Fedra

 



Federica Marsico, La seduzione queer di Fedra. Il mito secondo Britten, Bussotti e Henze. Roma, Aracne, novembre 2020.


Forse l’opera è la forma mai raggiungibile, il mistero, come la poesia o il canto”, scrive Christian Lehnert a Hans Werner Henze, durante l’elaborazione del libretto di Phaedra, l’ultima opera del compositore tedesco, rappresentata alla Staatsoper di Berlino nel 2007. Federica Marsico, ricercatrice all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dedica a quest’opera, e ai lavori di Britten e di Bussotti dedicati alla figura di Fedra, uno studio accurato e corposo, e cerca d’impostare l’argomentazione sull’ipotesi di una caratterizzazione queer che si riscontrerebbe nella rappresentazione teatrale e musicale. E’ un indirizzo di ricerca che ha preso piede in USA, assai meno da noi. Ma ci si potrebbe domandare: esistono caratteri tipicamente queer della letteratura, della poesia, del teatro, della musica? Che Shakespeare scriva sonetti d’amore dedicati a un giovane in che cosa modifica la scrittura della poesia d’amore? Il naturalismo, per esempio, non richiede dallo scrittore solo la ricerca di argomenti d’interesse sociale, ma anche di scriverli nella maniera adeguata all’argomento. Esistono pertanto un romanzo naturalistico, uno stile naturalistico. Ma che cos’è uno stile queer, un romanzo queer, un teatro queer? E come il fatto che la passione sia rivolta a persona dello stesso sesso cambia la scrittura, la rimodella? A queste e altre domande cerca di rispondere la studiosa, con analisi minuziose dei testi e delle patiture, illuminanti accostamenti di situazioni all’interno del dramma o da un dramma all’altro. Si occupa della tarda Phaedra di Britten; di Le Racine. Pianobar pour Fhèdre e di Fedra di Sylvano Buttotti, e, infine, di Phaedra di Henze. Il mito di Fedra avrebbe attirato, fin da Euripide, poeti, drammaturghi e musicisti, non solo per i tormenti dell’infelice moglie di Teseo, ma anche e forse soprattutto per l’ambiguità della figura del “casto” Ippolito. Una castità quanto meno forzata, come seguace di Artemide – le infrazioni sono severamente punite nel racconto mitico – e per i lettore e spettatore moderno sospetta, ambigua, tant’è vero che Racine, a nasconderla, tira fuori l’amore del giovane Ippolito per Aricia, amore che suscita la gelosia di Fedra. Indubbiamente in Britten e in Henze il tema della riprovazione sociale dell’omosessualità esiste. Bussotti, invece, spudoratamente, com’è suo costume, rovescia la riprovazione in rivendicazione, esibiscee sfacciatamente l’omosessualità dei personaggi, che, Narciso perfetto, sono il suo specchio, ma pur sempre un specchio drammaturgico, e dunque infedele. Il problema di fondo, però, resta, ed è lo stesso per ciascuno dei tre grandi compositori e drammaturghi: la riprovazione sociale, perché tanto il celarla quanto l’esibirla, l’omosessualità del personaggio o di sé stesi, dimostra che essa non è affatto pacificamente accettata dalla società. Molto finemente Federica Marsico fa notare che lo stesso adulterio di Fedra, e per di più un adulterio considerato allora e anche oggi incestuoso (oggi, a dire il vero, su questo punto si è più tolleranti, ma non troppo e non dovunque), si tratta di una matrigna e di un figliastro, e si potrebbe perciò alludere, nascostamente, alla riprovazione sociale di ogni rapporto che non rientri nella norma sancita dal costume e dalla legge, e dunque anche del rapporto omosessuale, in questo caso Ippolito e Fedra si vedrebbero entrambi respinti dalla morale sociale in quanto l’una adultera e incestuosa e l’altro omosessuale. Nel teatro antico probabilmente questa sanzione non esiste o è diversamente formulata: la castità di Ippolito è dettata dal culto di Artemide, la riprovazione del comportamento di Fedra nasce dal fatto che esso infrange il divieto dell’incesto, oltre al fatto di configurarsi come desiderio adultero. Ma stiamo attenti poi a leggere nel teatro antico indagini psicologiche che gli sono estranee. Perché, a parte la distanza del teatro greco da quello moderno - ma già Seneca segna un passo ulteriore, dopo Euripide, verso una concezione teatrale attenta alla psicologia, e che non tenga conto delle ingiunzioni divine, forse che nega perfino l’esistenza degli dei: “vai nei cieli a testimoniare che gli dei non esistono”, grida Giasone nella Medea senecana, alla fine della tragedia - a parte, dunque, tale distanza, già in Euripide appare una sorta di sgretolamento delle certezze sociali della tragedia come si erano sviluppate nei drammi di Eschilo e di Sofocle: si confronti la diversa reazione di Elettra e Oreste dopo il matricidio, in Eschilo e Sofocle, da una parte, e in Euripide, dall’altra: “Che abbiamo fatto? Abbiamo ucciso nostra madre?” si domanda Oreste, rivolgendosi alla sorella. E qui Dahlhaus, in un mirabile scritto, Euripide, il teatro dell’assurdo e l’opera (in Dal Dramma Musicale alla Literaturoper, trad. it. Roma Astrolabio, 2014), soccorre a mettere in guardia perciò da facili assimilazioni, e a stare attenti a leggere psicologicamente il teatro antico. Ma nella Phaedra di Seneca c’è una battuta di Fedra che potrebbe rivelare la consapevolezza di questo disagio, da riconoscire di trovarsi inuna situazione non ammessa dalle convenzioni sociali. Fedra non osa confessare il suo amore segreto al figliastro e Ippolito la sprona ad aprirsi, che cosa la trattiene? “Curae leves loquuntur, ingentes stupent”, risponde Fedra: Gli affanni lievi parlano, quelli eccessivi ammutoliscono. Ora, la lettura del saggio di Marsico ci suggerisce una domanda: in che cosa la forma, lo stile della scrittura letteraria, teatrale e musicale è modificata dall’assunto di denunciare, o anche solo manifestare una discriminazione, un disagio, dal rivendicare il carattere specifico di un rapporto? Intanto, nel mondo greco il rapporto omosessuale si configura in maniera diversa che nel mondo di oggi, e di ieri, in Europa, e in Occidente, come hanno ampiamente dimostrato gli studi di K.J. Dover (Greek Homosexuality, Harvard University Press, 1978, 19892), John Boswell, Les unions du même sex dans l’Europe antique et médiévale (Paris, Fayard, 1994), Claude Calame, L’Eros dans la Grèce antique, ultima ristampa Paris, Belin, 2009, trad. it. I greci e l’Eros, Laterza, 1992), tra gli altri. Ma per un aggiornamento della questione, anche per le polemiche che suscita l’idea di una Queer Theory, non sarà inutile dare una scorsa a Tutta un’altra questione di Giovanni Dall’Orto, Milano, Il Saggiatore, 2015, e la recensione di Gianni Rossi Barilli su Il Manifesto del 22 luglio 2015. In maniera diversa, forse più complessa, certo, era dagli antichi vissuta l’omosessualità, ma non che il problema non ci fosse. Come dimostra la seconda Satira di Giovenale. Comunque è interessante che nel Filottete Sofocle imposti il rapporto tra Filottete e Neottolemo configurandolo come una sorta di paideia. Marsico non sembra, però, introdurre altra specificazione che la segnalazione di un disagio, da parte del compositore drammaturgo, disagio comune a tutti e tre i musicisti, e che percorre per intero la loro avventura teatrale e musicale. Il rischio, forse, è di confondere biografia e opera. Rischio che Marsico si sforza di aggirare attraverso le attente analisi dei testi, ritornando dunque alla realtà oggettiva della partitura. Un po’ poco, forse, potrà sembrare a qualcuno, per qualificare i dati specifici di allusioni evidenti a una condizione di disagio, per l’adultera, e di discriminazione per l’omosessuale, come segni caratteristici di una scrittura queer. C’è, comunque, ormai da anni, una lunga e fruttuosa ricerca sulla letteratura queer, anzi sulla Queer Theory, che parte dal concetto di closet, chiuso, nascosto, sotterraneo, invisibile, come unico spazio concesso all’espressione e rappresentazione dell’omosessualità. Dagli Stati Uniti, il movimento ha preso piede anche in Italia. Si legga, per esempio, Closet, ma con vista. I queer studies e l’Italianistica di Eleonora Pinzuti sui Cahiers d’études italiennes, in UGA Edition1. Questa ricerca, però, sembra circoscriversi in ambito accademico (lo stesso studio di Marsico è pubblicato da Aracne, ma sostenuto dal Dipartimento di Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia), non uscire all’aperto di una discussione tra cittadini, come se la percezione dei problemi sociali di un testo, di un dramma, di un romanzo non interessi un pubblico di lettori e di spettatori, per i quali i problemi sociali sono il posto di lavoro, e quelli contenutistici l’attrazione di un intreccio avvincente o la repulsione per un intreccio fiacco. Contenutista e superficialmente informato di scrittura letteraria da sempre, il lettore italiano sfugge ai problemi, e oggi, anzi, più narciso ed edonistico che mai, s’infastidisce se il il libro, il dramma, il film glieli pone. E chi sa che non sia estranea, questa chiusura autoreferenziale degli studiosi, al muro di opposizione e di ostruzionismo che incontra, da anni, in Parlamento, il disegno di legge Zan. Il punto nodale è molto semplice. L’analisi sociologica, e storica, può, e deve, rilevare i condizionamenti che il contesto sociale, le leggi, la morale comune, impongono all’organizzazione di un’opera, tanto più se si tratta di un’opera teatrale, destinata dunque a un impatto immediato con il pubblico. Si pensi alle scappatoie messe in atto da librettisti e da compositori per sfuggire alle censure che colpivano il melodramma nell’Ottocento. Ma quasi mai tali censure finivano per deturpare la concezione del lavoro: il Rigoletto di Verdi non è meno efficace per il fatto che il potente prevaricatore è un modesto Duca di Mantova invece che il Re di Francia Francesco I, come nel dramma di Hugo. Ora, anche le costrizioni, le allusioni, le scritture nascoste e riscontrate da Marsico nelle opere esaminate non intaccano, mi sembra, l’impostazione formale dell’opera, se non, appunto, nel fatto di comunicare messaggi cifrati o di nascondere ciò che in realtà risulta evidente a tutti, anche se non esplicitato. Un’accurata, anche se essenziale, bibliografia arricchisce il testo (ma perché non citare anche il nutrito programma di sala che il Teatro alla Scala distribuì alla rappresentazione di Le Racine di Sylvano Bussotti? C’era, oltre a un mio contributo, anche una mia poesia che lo stesso Sylvano mi aveva chiesto di scrivere per l’occasione). Sono studi che iniziano un percorso. Sicuramente studi che approfondiranno meglio in seguito anche lo specifico estetico dell’opera e chiariranno dunque meglio l’impostazione queer della ricerca. Ma temo – è solo una mia supposizione e forse un mio timore – che la caratterizzazione queer di un’opera non sia così facilmente inquadrabile in un metodo di ricerca, in uno schema formale, nell’individuazione di messaggi più o meno nascosti, più o meno cifrati. Faccio un esempio teatrale, ma non di teatro musicale, bensì di un dramma trasferito anche sullo schermo con i volti di attori prestigiosi, Liz Taylor, Richard Byrton, George Segal e Sandy Dennis: Who's Afraid of Virginia Woolf? - chi ha paura di Virginia Woolf? - di Edward Albee nacque per due coppie di omosessuali, ma le convenienze teatrali convinsero Albee a trasformarlo in un dramma in cui agiscono due coppie eterosessuali. Il mascheramento è totalmente riuscito. Segno che il comportamento di coppia ubbidisce forse a meccanismi simili, se non uguali, in ogni tipo di coppia. Non solo, ma come osserva Giovanni Dall’Orto, “la prima nota dolente – di questi studi (integrazione mia) - si rivela essere questo smascheramento a tutti i costi retroattivo e non richiesto della figura dello scrittore, che più che essere analizzato in quanto mente scrittoria, viene interrogato in quanto omosessuale o eterosessuale2”. Riassumendo: Quanto incide sull'organizzazione formale di una pagina letteraria o teatrale l'orientamento sessuale dell'autore? Sono riconoscibili dati formali caratteristici di una scrittura omosessuale? o dobbiamo accontentarci di riferimenti contenutistici, allusivi, che dunque non incidono sulla forma letteraria o musicale dell’opera?

Al saggio è acclusa una prefazione di Michele Girardi, di cui è illuminante l'attacco: "Gli studi di genere sono un campo difficile da arare". Il lettore è subito orientato a leggere una discussione di problemi, non un'esposizione di certezze.


Fiano Romano, 31 luglio 2021

1https://journals.openedition.org/cei/1081

2In Contro la Queer Theory. Una critica politica, 2012.


mercoledì 21 luglio 2021

Nicolai Pfeiffer tra Mozart e Brahms


 

Nicolai Pfeiffer


Woflgang Amadeus Mozart

Concerto for Clarinet K, 622

Rondo K. 373

Sperai vicino al lido K. 368

Symphony No. 29 in A Major K 201


Nicolai Pfeiffer, clarinet

Markus Syenz, conductor

ORT Orchestra della Toscana


NOVANTIQUA NA55

Affinità elettive


Brahms

Clarinet Sonata op. 120

Piano Pieces op. 119


Nicolai Pfeiffer

Felix Wahl


Cavi Music 8553394


Nicolai Pfeiffer non è solo un bravissimo clarinettista, ma è soprattutto un musicista completo. Fare musica è il suo modo di pensare, forse perfino di essere. Per esempio, si confronta con la lettura di una partitura riconsiderandone da capo la scrittura, la revisione, l’interpretazione, la confronta con il manoscritto, le prima edizione, le successive, per stabilire una versione quanto più possibile vicina alle intenzioni del compositore. Nasce così da questo lavoro, per la Henle Verlag, la pubblicazione dell’Urtext del Concerto in si bemolle maggiore di Johann Stamitz, appena data alle stampe, anche in una riduzione per clarinetto e pianoforte, elaborazione pianistica di Michail Lifits. Della sua intelligenza interpretativa esistono però due incisioni: le due sonate per clarinetto e pianoforte op. 120 di Brahms, al pianoforte collabora Felix Wahl, che interpreta anche i quattro Klavierstücke op. 119, etichetta Cavi-music; e il concerto per clarinetto K. 622 di Mozart, con l’Orchestra della Toscana diretta da Markus Stenz, che dirige anche, sempre di Mozart, la bellissima sinfonia in la maggiore K. 201. Pfeiffer si misura anche con due pagine, da lui stesso trascritte per clarinetto, che Mozart ha destinato al violino, il Rondo K 373, e l’aria “Sperai vicino al lido” K. 368, etichetta Novantiqua. Cominciamo da Brahms. Le due sonate per clarinetto appartengo all’ultima produzione da camera, il Quintetto op. 115, i pezzi per pianoforte op. 116,117,118,119, questi ultimi inclusi nell’incisione e suonati da Felix Wahl. L’ultimo Brahms è un compositore consapevole di trovarsi alla conclusione non solo del proprio percorso compositivo, ma di un’intera stagione musicale. Si guarda indietro, è attratto perfino dalla musica clavicembalistica francese del XVII-XVIII secolo, sostiene la pubblicazione moderna, la prima, dei Pièces de clavecin di Couperin. Ma, come l’ultimo Beethoven – e l’ultimo Schumann -, prosciuga anche la sua scrittura fino a una enigmatica, scarna asciuttezza. Le due sonate, osserva Pfeiffer nelle note del booklet, nascono in un periodo della vita di Brahms rattristata da perdite, amici che scompaiono. L’umore triste non può non influire sulla scrittura. Ma Brahms non è uomo, né compositore, che ceda alla confessione intima. Come la perdita della madre si sublima nel Requiem tedesco, così la morte di Bülow è trasfigurata in una sorta di addio al mondo musicale tedesco, da Mozart a lui, Brahms, attraverso Beethoven e Schumann. Il giovane Brahms aveva costruito alcune variazione su un tema che Schumann dichiarò gli fosse dettato dallo spirito di Schubert. Schumann stesso vi costruisce sopra alcune variazioni, e sono la sua ultima musica. Lo stesso tema è intonato dal violino nell’Adagio del Concerto per violino. Ma non è una novità, per Schumann, assorbire il senso di una fine: il Carnaval è costruito su una cellula derivata dal nome ASCH, il villaggio in cui si immagina il corteo carnevalesco, la bemolle do si naturale. Asch, in tedesco, come l’inglese ash, significa cenere. Una via trasversale per dire memento mori. Mercoledì delle ceneri. Schuberti diceva che non esistono melodie allegre, che tutte le melodie sono tristi, perché anche quelle che sembrano allegre raccontano il ricordo di una gioia, non la gioia presente. Probabilmente le cose non stanno così, e la musica può cantare anche la gioia. Non può cantarla, per Schubert. E Schumann? La Dichetrliebe si apre con l’evocazione di un bel giorno di maggio. Ma poiché si racconta la fine di un amore, il bel giorno di maggio è ricordo dell’amore finito, del giorno in cui non si sapeva che sarebbe finito. Beethoven, invece, si che racconta la gioia, ma la racconta solo come vittoria sul dolore superato. C’è, tuttavia, una pagina in cui anche Beethoven sembra avvicinarsi alla nostalgia schubertiana. E’ l’ultimo tempo della sonata op. 109. Un tema ternario, quasi di valzer lento, con variazioni. Le variazioni suscitano una tempesta musicale, ma si concludono con la riesposizione del tema. E dopo tutte le avventure che il tema ha affrontato nelle variazioni il suo ritorno suona con struggente, infinita tristezza. Anche se siamo in mi maggiore. Ma torniamo al clarinetto di Nicolai Pfeiffer. Mozart e Brahms sono due mondi che si confrontano a specchio. Il clarinetto, vivo Mozart, è uno strumento moderno. E’ proprio Mozart a scoprirne l’ombra moderna, oscura, nostalgica. Anche perché gli preferisce in genere il corno di bassetto, lo strumento al quale in realtà è destinato il concerto, dal timbro più scuro. Gluck, Stamitz ne sono come Mozart attratti, anch’essi

Brahms – ma in mezzo non è passata invano l’esperienza di Schumann – sembra volergli affidare un messaggio di ripiegamento su sé stesso, di riflessione. In partitura è scritto che il clarinetto può essere sostituito da una viola. Ma è evidente, anche a un primo, ingenuo ascolto, che la musica è pensata per il clarinetto. Pfeiffer asseconda questa idea, il suono è pastoso, morbido, il fraseggiare sinuoso, flessibile, sembra quasi strabordare dalla misura della battuta. Felix Wahl lo insegue, il pianoforte gareggia con il clarinetto nell’anelito di cantare, di non sostare, ma di moltiplicare le dinamiche, improvvisi pp dopo un forte o viceversa. I due strumenti si abbracciano - e che cos’altro è il contrappunto se non un amplesso perennemente rinviato? - , s’inseguono, gareggiano in effusione di canto, in ritrosia d’improvvisi sforzati. Ma ciò che più attrae è l’evidenza con cui sia il clarinetto, sia il pianoforte mettono in risalto la scrittura della pagina, il suo procedere da cellule minime, un intervallo, un ritmo particolare racchiuso in una breve successione di suoni. L’arte della variazione non è solo dedurre variazioni da un tema, ma anche procedere via via da intuizioni fulminee, da brevi sollecitazioni, coerentemente, come se tutto il discorso sia variazione o sviluppo della cellula di partenza. Pfeiffer e Wahl godono nel farcelo riconoscere, questo procedere per piccoli passi da una stessa cellula tematica. Probabilmente è in questo che Schoenberg leggeva la “progressività” della musica di Brahms. Che però ha radici già nella scrittura mozartiana. Il clarinetto, per Mozart, come la voce femminile, è l’incarnazione dell’idea platonica di canto. Canta sempre, non smette mai di cantare. Ed è forse proprio per questo canto dispiegato che Brahms nutriva così profonda nostalgia, sentendolo ormai impossibile nel suo tempo. Pfeiffer vi si abbandona, se ne lascia assorbire, con sensualissimo godimento, ed è così che si ascolta finalmente un Mozart il cui canto è un lungo, quasi carnale, irresistibile canto di seduzione. Mozart non è per caso il cantore di Don Giovanni. Kirkegaard ci aveva visto giusto: la musica di Mozart è la realizzazione perfetta del puro istante di piacere, del canto che canta la vita che scorre, che fugge, che non si lascia afferrare. E proprio per questo, il canto serba un retrogusto amaro, quasi una consapevolezza della propria caducità, di quanto effimero sia ogni piacere. La musica di Mozart è forse la musica più complessa, ambigua, sfuggente che sia mai stata composta, proprio perché racchiude l’inafferrabilità stessa della vita e ne propone la rappresentazione. Si ascolterebbe per ore Pfeiffer intonare la lunga, indefinita, interminabile melodia che attacca l’Adagio del concerto. E quanto d’irrequieto, d’irrisolto, di provvisorio si racconti nell’effervescenza del Rondò finale. Rappresentazione dell’irrisolto, naturalmente, non irresolutezza della musica, che anzi è tra le musiche più definitivamente risolte che siano mai state composte. Ma c’è un punto in cui Pfeiffer ci fa venire i brividi. Ed è quando avvia il secondo tema, nel primo tempo. Sembra quasi esitare, affondare in un cupo riflesso alla ricerca di un tema. Si riprende subito, e il tema finisce per cantare meravigliosamente. Tuttavia il buio è stato intravisto. E più avanti invade anche la serena luminosità del tema. Eccolo, Mozart: dove finisce la gioia, dove comincia la tristezza, e quale è dolore e quale tristezza, si penetrano, si confondono in un unico respiro che racconta appunto l’inafferrabilità della vita, il flusso di piacere e dolore, di allegria e di tristezza, in cui tutto si mescola, e tutto diventa l’altro, indistinguibile il confine tra un sentimento e l’altro, tra un momento e l’altro della vita. Markus Stenz, a capo dell’Orchestra della Toscana, sostiene bene tutto questo complesso e ambiguo gioco. Lo riafferra nella bellissima Sinfonia in la maggiore K. 201, tra le pagine più complesse e intricate del Mozart giovanile (giovanile a 18 anni? Mozart era in realtà già maturo a 15 anni, tanto da scrivere la tragica scena delle tombe nel Lucio Silla – ci ritornerà con più distacco e ironia nella scena del cimitero, nel Don Giovanni). Pfeiffer, in questa registrazione, cede alla tentazione, in cui oggi cadono molti, di suonare con il clarinetto musiche che Mozart ha pensato per il violino e per la voce umana. Un tempo le trascrizioni o le trasposizioni erano diffusissime. Il purismo novecentesco le aveva quasi bandite. Oggi, in epoca di riciclo perpetuo del riciclabile, ritornano. Confesso di non amarle. Ma Nicolai Pfeffer vi sfoggia una tale abilità, una così tenera cantabilità, una così accattivante sensualità sonora, che è difficile resistere al piacere di abbandonarvisi. Goethe lo aveva capito profondamente, e ce lo confessa in modo mirabile: alle affinità elettive è impossibile resistere. Ma perché si dovrebbe, quando è così dolce annegarvi?


Fiano Romano, 21 luglio 2021