giovedì 1 dicembre 2022

Roma, Teatro dell'Opera: Dialogues des Carmélites. Interrogazioni sulla vita.

La serie di ritratti femminili che, ad apertura di sipario, occupa l'intero fondale della scena ricorda la serie di ritratti degli zar di Russia - e l'ultimo era Gorbaciov - che nel 1994, a Salisburgo, apriva la rappresentazione del Boris Godunov di Musorgskij diretto da Claudio Abbado e messo in scena da Herbert Wernicke. Ma il senso è diverso. Là la serie di potenti che hanno dominato e devastato la Russia, qua le dame aristocratiche destinate alla ghigliottina. I rettangoli dei ritratti si trasformano via via che procede l'azione, in confessionali, corridoi di un carcere, ghigliottina: sconvolgente il velo bianco che crolla ad ogni testa di condannata che la ghigliottina tronca. Alla sciabolata, in orchestra, della lama che cade corrisponde, sulla scena, il velo silenzioso che crolla. È forse l'idea più geniale di una messa in scena per altri versi non del tutto in tema. Ma questa volta ho incontrato difficoltà a esprimere il mio dissenso da talune scelte di Emma Dante. Perché le ragioni del mio dissenso sono opposte a quelle che pregiudizialmente, da parte soprattutto dei melomani insensibili alle leggi del teatro, condannano qualsiasi messa in scena moderna o, come dicono (sbagliando) "attualizzante". Ogni messa in scena è di fatti "attuale", anche la più realistica, anche la più fedele alle didascalie. Ed Emma Dante è straordinaria non già nell'attualizzare il senso di un'opera, ma nell'intendere come già attuale l'opera stessa. Che è, poi, ciò che fa sempre il vero teatro. No, il mio dissenso, che è solo parziale, è se mai proprio sul fatto che questa volta Emma Dante non è stata radicale fino in fondo, o almeno così mi è parso, non è stata, come suole essere, problematica o i problemi evidenziati sono esterni al senso più intimo dell'opera. A mio avviso ciò è dipeso dal fatto di non aver preso sul serio la vocazione delle monache. Dice Emma Dante che la loro è una scelta "poetica", "non fanatica". Che vuol dire? Vero che molte di esse, e soprattutto Blanche, trovano nel convento un rifugio e una difesa dal mondo maschile di fuori che le spaventa. Ma nemmeno lì trovano la tranquillità che cercano, perché i fantasmi che le perseguitavano le hanno seguite dentro di loro nel convento. Ma basta allora rappresentarle come guerriere che combattono un nemico? Paradossalmente, già femministe, anche se inconsapevoli, e martiri? C'è anche questo, è vero. Ma non solo questo. Anche il non credente dovrà, infatti, arrendersi alla fede del credente nella trascendenza. Ed è a questa trascendenza che le suore si appellano. Che poi, una forma di trascendenza c'è nella vita di chiunque: è ciò che non sappiamo, ciò che non abbiamo determinato ma che è stato determinati da altri o da altro per noi, per esempio nascere in un quartiere chic di New York o in una favela di Rio de Janeiro. I greci lo chiamavano Fato. Ma il nemico di cui qualche volta parlano queste monache non è solo quello esterno, è soprattutto dentro di loro. È il silenzio della trascendenza, l'estraneità del reale alla vita individuale di ciascuno, la solitudine nei confronti della sofferenza, della morte. Sartre, contemporaneo di Bernanos, ma ateo, parlerebbe di estraneità all' "altro", che è la stessa esistenza. Che la madre superiora muoia con la paura della morte è la dimostrazione che la battaglia interiore contro o per la trascendenza è perduta: c'è solo la terribile immanenza dell'annientamento. È il momento più tragico dell'opera, più tragico perfino della ghigliottina che nel finale uccide le 16 suore. Dio mi lascia sola con la mia morte, dice la superiora, è assente, non c'è. E, si badi, sono parole già pronunciate e scritte da Teresa d'Avila, da San Giovanni della Croce. Il genere, nei confronti dell'assoluto, non c'entra. L'esperienza del silenzio di Dio è la prova più difficile di qualunque credente (Bergman vi ha dedicato un film straordinario, Il silenzio). L'hanno provata gli ebrei nei Lager nazisti. La prova la donna stuprata, il bambino abusato. La solitudine davanti al terribile, all'orrore. Ecco, questo aspetto mi sembra che non sia stato pienamente compreso dalla Dante. Per il resto, come ho scritto, lo spettacolo è bellissimo. Intendiamoci, il teatro moderno può anche totalmente stravolgere il senso del testo rappresentato, ma allora che lo stravolgimento informi ogni momento dello spettacolo. Emma Dante, per questa messa in scena dei Dialogues de Carmélites, di Bernanos e Poulenc, che apre la stagione 2022-2023 del Teatro dell'Opera di Roma, sceglie invece una rappresentazione nel complesso fedele alle indicazioni del testo e della partitura, ma poi introduce elementi quasi marginali o che appaiono tali, che però mutano totalmente il senso della rappresentazione. A cominciare dal profluvio di chiome femminili. Ora, invece, al momento del voto, alle monache vengono tagliati i capelli, e così pure alle condannate alla ghigliottina. E che vorranno dire le corse in bicicletta, un rimpianto dell'infanzia perduta? la conquista di una libertà, che la ghigliottina tronca inesorabilmente? "Chi erano le carmelitane prima del voto?" si chiede Emma Dante, presentando l'opera. "Il gesto della carmelitane è più poetico che fanatico", aggiunge. No, è una scelta di vita. Non è né poesia né fanatismo. Il settecento adombrato nei ritratti, sparisce nei costumi: adombrano donne guerriere e soldati quattrocenteschi: Giovanna D'Arco? Bisognava fare i conti con il cattolicesimo francese, che, come quello tedesco o quello olandese, a differenza del cattolicesimo clericale italiano, non è mai moralista, mai predicatorio, è anzi aperto alle altre culture. In tutti i Dialoghi non c'è mai un momento di giudizio morale, mai perfino una condanna della Rivoluzione. Se mai si ascoltano dalla bocca delle suore sentenze generali, principi d'interpretazione della realtà, come quello, bellissimo, in cui si dice che ciò che noi chiamiamo caso può essere la logica di Dio. Sostituite la parola Dio con qualsiasi altro universale, natura, materia, cosmo, e l'idea resta intatta: ciò che noi chiamiamo caso è solo la nostra conoscenza insufficiente degli elementi che intervengono a costituirlo. Così come la probabilità di movimento delle particelle nella teoria dei quanti non è probabilità reale ma probabilità rispetto alla nostra capacità di prevederli. Su questo aveva le idee chiarissime già Pascal. Tuttavia lo spettacolo, ribadisco, è condotto con grande limpidezza ed è bello a vedersi. Perché Emma Dante è una grande drammaturga e sa come far percepire vivo, vitale, il movimento della scena. Con le sue idee e le sue ossessioni. Ma chi non ne ha? Si può dissentire da una o altra sua scelta, ma non si può negare il suo indiscutibile talento teatrale. Il teatro non è letteratura e l'opera non è musica. Usano la letteratura e la musica per fare teatro. Lo scrive già Aristotele. Temo invece che molti, ancora, guardino e ascoltino il teatro come letteratura e come musica, e basta. Ma un sonetto non si scrive allo stesso modo con cui si scrive una tragedia e un quartetto allo stesso modo che un melodramma. Quanto allo stravolgimento, in una messa in scena c'è sempre, che sia esplicito o no. A cominciare che noi la tragedia e commedia greca e il teatro elisabettiano lo rappresentiamo facendo recitare anche le donne, e quello greco senza maschere. Ma anche con scene e costumi assai diversi da quelli del tempo. La messa in scena che impropriamente viene chiamata "attualizzante" rende esplicita questa attualità della messa in scena. Il teatro è stato sempre vissuto come teatro contemporaneo. Anche la pittura. Che cosa c'è del primo secolo avanti Cristo nell'Annunciazione di Leonardo? Abbiamo una bella dama fiorentina che riceve la visita di un aggraziato giovane cortigiano. Eppure sta proprio qui la profondità della rappresentazione: il divino dell'angelo che irrompe nella quotidianità. E come poteva Leonardo rappresentare questa quotidianità se non rappresentando la sua quotidianità, la quotidianità del suo tempo? Il pubblico della prima romana tutto ciò lo ha capito, sembra, e lo apprezza e applaude. Più profondamente penetra, tuttavia, il senso della partitura l'interpretazione musicale. Dirige Michele Mariotti, che coglie con sensibile intelligenza le infinite sfumature espressive della bellissima partitura. La lezione di Debussy si sente, ma Poulenc va oltre. Non ci sono temi veri e propri, e nemmeno motivi, ma piuttosto piccole cellule di uno, due intervalli, scanditi con ritmo variabile. Mariotti estrae anche da un solo suono, dall'intonazione di un intervallo, dall'irruzione di un timbro inatteso, l'intenzione del canto, della melodia, come se ciò che si ascolta fosse il prosciugamento di una inascoltata melodia interiore, si potrebbe perfino pensare, dato il contesto, alla musica delle sfere. Il testo, splendido, di Bernanos (Poulenc non scrive un libretto, adotta, con qualche taglio, il testo di Bernanos), è assunto da Poulenc già con una sua conformazione musicale. Non si tratta, come si sente dire, spesso, solo di restare fedeli alla dizione del testo, di recitarlo musicalmente. Si avverte, se mai, la lezione di Monteverdi, di Musorgskij, più che di Debussy: la dizione del testo è già di per sé un evento musicale, Poulenc appartiene alla schiera di musicisti che considerano già musica la lingua. Come i poeti. Del resto, non so quanti riflettano sul fatto che la musica e il linguaggio hanno in comune il fatto di adoperare la stessa materia: il suono. L'influsso di Debussy è invece sovrano nel trattamento dell'orchestra. Ma anche di Stravinskij, e di Verdi nell'attribuire una funzione drammaturgica all'orchestra, anche solo per l'intervento di un accordo forte all'interno di una frase intonata piano. Il miracolo - perché di una partitura miracolosa si tratta - sta nell'effetto di una tensione che cresce via via che procede l'azione senza però che intervengano colpi di scena, o esplosioni retoriche dell'orchestra. Qualche accordo più forte basta, appunto, a suggerire o un dramma o una contraddizione del personaggio. Impagabile l'omogeneità del cast sulla scena. A cominciare dagli interventi soavissimi del coro diretto da Ciro Visco. Ma vanno ricordati almeno la straordinaria Blanche di Corinne Winters, che coglie con finezza l'instabilità emotiva del personaggio, il suo vagare dalla fiducia alla paura, dallo slancio al rinchiudersi in sé stessa. La drammatica Superiora di Anna Caterina Antonacci è insieme una lezione di canto e di recitazione, anzi di recitazione attuata con il canto, la trasformazione degli stati d'animo è impressionante, dall'apparente sicurezza iniziale ai turbamenti, alle inquietudini del delirio che precede la morte. La madre Maria di Ekaterina Gubanova e la sorella Costanza di Emöke Baráth, il Cavaliere De la Force di Bogdan Volkov. il Marchese De la Force di Jean-François Lapoint, in perfetto equilibrio tra caratterizzazione individuale del personaggio o adeguamento al clima espressivo generale. Perfetto l'equilibrio che si riscontra in tutti, tra canto e recitazione o, meglio, tutti recitano cantando. E tutti sono stati applauditi. Spettacolo straordinario, da non perdere. Si può rivedere in Raiplay, su RAI 5. Ma mi auguro che se ne faccia anche un dvd.

Morte della Madre Superiora, Anna Caterina Antonacci

Una riflessione in margine, o in coda: l'asprezza con cui si rifiuta il confronto, in arte, su ciò che ci piace o non ci piace, sembrerebbe degna di miglior causa. In fondo, uno spettacolo, brutto o bello che sia, o che ad alcuni pare brutto e ad altri bello, non cambia la vita di nessuno. Eppure ci si scontra come se ne andasse della vita. Inutile portare a sostegno di una o della altra tesi documenti, fatti, esperienze, autorità di scrittori, filosofi, teatranti, pittori, poeti. Sembra che le più inconfutabili certezze riguardino ciò che consideriamo bello o brutto o ciò che abbiamo colto di un testo. Eppure io stesso mi sono dovuto ravvedere, più di una volta, sul giudizio espresso riguardo a opere o messe in scena che mi erano parse belle o al contrario discutibili. Un esempio tra tutti: il Tristano di Wagner messo in scena a Bayreuth da Heiner Müller. La prima volta mi parve cervellotico, fuori tema. Rivisto l'anno seguente mi si aprì una finestra nel cervello. L'invecchiamento di Tristano, Isolde che arriva nel terzo atto con una capigliatura grigia, mi si rivelarono, teatralmente, per ciò che erano, la metafora del tempo, la durata della vita. La malattia dei due amanti era la vita, il loro anelito totale era morire. L'azione, come la chiama Wagner, Handlung, passa per un inno all'amore. Ed è invece un inno alla morte. La finestra mi si aprì ascoltando l'invito di Tristano a Isolde, alla fine del secondo atto. Vuoi tu seguirmi nel regno dove non sorge mai il sole, dove è sempre notte? Das Wunderreich der Nacht, il meraviglioso regno della Notte. Isolde risponde di sì. E Melot s'infuria. Sfida Tristano. Che lascia cadere la spada. Melot resta paralizzato da quel gesto di mancata difesa. Tristano, allora, gli afferra la spada e si trafigge. Sembra una violenza al testo. E invece, del testo, coglie il senso più intimo. È Wagner stesso a suggerirglielo: "Quando Melot stende la spada contro di lui Tristano lascia cadere la propria". Müller rende più esplicita l'arrendevolezza di Tristano, la sua decisione di morire, inscenando invece che una resa un suicidio. La malattia dei due amanti è la vita, la guarigione la morte. Ritornando ai Dialogues messi in scena da Emma Dante mi sembra che questo lato, la vocazione a morire, sia stato compreso, e profondamente. Ma interpretato come una battaglia. Interpretando l'atteggiamento delle suore come una ribellione inconsapevolmente pre-femmnista. È qui che non sono d'accordo. È, invece, una scelta di vita, per quanto possa sembrare strano che morire sia una scelta di vita, ma è un atto di rinuncia, un sacrificio, che sono di fatto una preghiera, un martirio, per redimere un mondo che ha perso la fede in Dio. Si può essere in disaccordo con la scelta, con la vocazione autodistruttiva delle carmelitane, e di fatti Emma Dante dichiara che la scelta "fa paura", ma non è lecito negarne la motivazione religiosa, anche da parte del non credente. Kirkegaard parlerebbe di "salto" nell'atto della fede. E Kirkegaard è filosofo caro a Bernanos, che nei Dialogues mette in scena proprio questo salto dallo stadio dell'etica allo stadio della fede. Ma è proprio questo spirito religioso, questo vento di spiritualità cristiana totalizzante, quest'abnegazione che annienta ogni desiderio di vita terrena, e può sembrare orgoglio, ma è un orgoglio che sale al di sopra dell'orgoglio, per dirlo con le stesse parole di Bernanos, che mi è sembrato mancare allo spettacolo immaginato e realizzato da Emma Dante. E, si badi, chi scrive, non è più un credente da decenni, dopo essere stato da giovane un credente quasi esaltato, e avere divorato le pagine di mistici e filosofi, da San Juan de la Cruz a Kirkegaard, da Duns Scoto a Teilhard de Chardin, da Sant'Agostino allo stesso straordinario San Tommaso d'Aquino, non s'immagina quanto straordinario - Umberto Eco si laureò con una tesi sull'estetica del filosofo - , e avevo imparato quasi a memoria la Regola di San Benedetto, avevo anzi trascorso un periodo di meditazione nel Monastero di Montecassino, e per non parlare, da fanatico lettore di classici greci e latini, dei padri della Chiesa greci, più che latini, i quali, molto prima della Scolastica, avevano piegato a significati cristiani la riflessione filosofia di Platone e di Aristotele. Ecco, oggi queste letture mi servono - anche da non credente - a capire le ragioni del credente. Del resto riusciremmo a comprendere le motivazioni religiose, prima che etiche, di un Achille, negli ultimi canti dell'Iliade, quando restituisce a Priamo il cadavere di Ettore, se non imparassimo a conoscere, prima, la religiosità dei greci antichi? E si badi che Omero, insieme a Esiodo, era, per il greco, quasi quello che è per gli ebrei e per i cristiani, la Bibbia, per i musulmani il Corano, per gli indiani i Veda e il Mahabharata, per i Persiani gli Avesta. Forse, chi sa, tra gli altri, almeno un po' di Pascal, ma letto con partecipazione, avrebbe incoraggiato una lettura meno epidermica o quasi solo psicologica, dell'opera di Brenanos e Poulenc, com'è stata, m'è parso, questa messa in scena romana dei Dialogues des Carmélites.

TEATRO DELL'OPERA DI ROMA. TEATRO COSTANZI: LES DIALOGUES DES CARMÉLITES di Francis Poulenc, da Bernanos.


Prima rappresentazione assoluta Teatro alla Scala, Milano 26 gennaio 1957 (in italiano)

Prima rappresentazione al Teatro Costanzi, 17 marzo 1958

Durata: 2h 55' circa - Prima parte 60' - intervallo 25' - Seconda parte 90'


 TEATRO DELL'OPERA DI ROMA. TEATRO COSTANZI: LES DIALOGUES DES CARMÉLITES di Francis Poulenc, da Bernanos.


Prima rappresentazione assoluta Teatro alla Scala, Milano 26 gennaio 1957 (in italiano)

Prima rappresentazione al Teatro Costanzi, 17 marzo 1958


Durata: 2h 55' circa - Prima parte 60' - intervallo 25' - Seconda parte 90'

DIRETTORE Michele Mariotti

REGIA Emma Dante

MAESTRO DEL CORO Ciro Visco

SCENE Carmine Maringola
COSTUMI 
Vanessa Sannino
LUCI 
Cristian Zucaro
MOVIMENTI COREOGRAFICI 
Sandro Campagna

PERSONAGGI E INTERPRETI

MARQUIS DE LA FORCE Jean-François Lapointe
BLANCHE DE LA FORCE 
Corinne Winters
CHEVALIER DE LA FORCE 
Bogdan Volkov
MADAME DE CROISSY Anna Caterina Antonacci
MADAME LIDOINE Ewa Vesin
MÈRE MARIE DE L’INCARNATION Ekaterina Gubanova
SOEUR CONSTANCE DE SAINT-DENIS Emöke Baráth
MÈRE JEANNE DE L’ENFANT-JÉSUS Irene Savignano**
SOEUR MATHILDE Sara Rocchi**
L’AUMÔNIER DU CARMEL Krystian Adam
OFFICIER 
Roberto Accurso

I COMMISSAIRE William Morgan
LE GEÔLIER / II COMMISSAIRE Alessio Verna
THIERRY /JAVELINOT Andrii Ganchuk**


** diplomato “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma


ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma in coproduzione con Teatro La Fenice, Venezia

Prima rappresentazione: 27novembre 2022 Repliche: 29 novembre, 2. 4. 6 dicembre 2022

 



sabato 30 luglio 2022

Fetonte












 

DINO VILLATICO





FETONTE


monologo




                        ἐλεύθερος δ’ ὢν δοῦλός ἐστι τοῦ λέχους.


Ἐυριπίδου Φαἐθοντος θραῦσμα ρ’ ν’ η’ (LOEB 506) 1




Sors tua mortalis. Non est mortale quod optas.


Ovidii Metamorphoseon II, 562



Qual venne a Climené, per accertarsi
di ciò ch’avea incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;

tal era io ...

Dante, Paradiso, XVII, 1 - 4



A mio padre, in memoriam



                                          


Ombre della lontana infanzia, sogni

del mio deserto di ricordi, amore

mai nei miei giorni con aperta gioia

goduto, eppure nelle mie più dolci

notti, nei miei più silenziosi voti

sospirato, baciato, intrattenuto,

a che mi ritornate, quali colpe

mi condannano, o quali redenzioni

mi assolvono? Fermate il vostro corso.

Ecco che mi concedo a voi. Vi cedo.

Lasciatemi sognare questo sogno

che ritorna. Lasciatemi dormire.

Ogni figura mi risana. M’apre

mondi perduti la mia lontananza.

Ah primi sguardi, miei primi sospiri,

come Fetonte dall’alto dei cieli

io cado da quel culmine del tempo

che inesperto la folgore divina

trafisse per la prima volta. Il resto,

non fu che sogno. E io lo sogno ancora.

                                          













PROLOGO


A sipario calato entra l’ATTORE. Indossa un accappatoio. La faccia impiastricciata di biacca.



L’ATTORE Salve. Sono l’attore che tra poco

vedrete recitare – se con gusto

da parte vostra o con disgusto, questo

sarete solo voi a giudicarlo -

il monologo in cui si rappresenta

il mito di Fetonte. Ma non sono -

potete constatarlo - il ragazzino

di vent’anni, che bello, seducente,

sfida il destino: il giovane arrapato

che celebra in quel giorno le sue nozze

con la ragazza scelta da sua madre.

Ma sua madre quel giorno gli rivela -

chi sa se mai pentita della scelta -

un segreto tenuto nel silenzio

per venti anni, un segreto che potrebbe

trasformare la vita del ragazzo.

Noi rappresenteremo questa sera

il mito di Fetonte, ma non come

Euripide per primo, e dopo Ovidio

ce lo hanno raccontato, ma piuttosto

come potrebbe viverlo nel giorno

di un oggi sgangherato e disilluso,

tra gli orridi palazzi del potere

di una grande città, mettiamo Roma,

un bel ragazzo di vent’anni, solo

e insoddisfatto della condizione,

che per altri sarebbe fortunata,

di figlio di papà. Perduta dietro sogni

che non sono i suoi sogni, la mente

del ragazzo fantastica radici

che ormai non sono quelle del bambino,

\ seminate dal padre magistrato,

dalla madre arrivista e faccendiera,

radici che non sente sue, di piante

differenti da quelle che si osserva

quando si guarda le sue mani, foglie

che vede separate dalla linfa

che scorre nelle vene del suo corpo:

un sangue d’altre vite, una sostanza

che lo raggela, la foresta immota

e gelida del padre che nemmeno

un giorno l’ha baciato, stretto forte

tra le braccia, il silenzio spaventoso

della madre che non gli parla, o quando

parla, sta per ingiungergli un divieto,

o parla solo per proibirgli il mondo.

Il giorno delle nozze, che nemmeno

si è accorto, fino a quella mattutina

doccia fredda che il calendario appeso

alla parete della stanza, un frego

sulla data, glielo ha rappresentato,

una minaccia, una condanna, il segno

di un’ubbidienza, non se n’era accorto,

no, di volerle, di doverle proprio

quel giorno celebrare, non capisce,

ancora non capisce se volute

da mamma, decretate, quelle nozze,

dal padre, congiurate dalla nonna,

tutta contro di lui congiurata,

compatta, complottante la famiglia,

il giorno delle nozze ecco che casca

la mannaia, si sfascia la fiducia,

finalmente sua madre gli rivela

che suo padre non è suo padre. Porca

la miseria, e ‘sta scema me lo dice

adesso, pensa il giovane, nel giorno

delle nozze. Se il giovane si arrabbia,

in cuore suo ne gode, e su due piedi

manda a fottio di capre il matrimonio.

Ma di chi poi sia figlio ascolterete

tra non molto l’enigma districato,

lascio sospesa la sua soluzione,

sarà lo stesso figlio a rivelarlo.

Io qui sono venuto a raccontavi

non tanto l’antefatto della storia,

quanto a spiegarvi che vedrete un uomo,

l’attore che ora qui vi sta parlando,

indossare le vesti di un ragazzo,

figurare i deliri di una madre,

lamentare il dolore di chi padre

solo da poco, solo da qualche ora

della notte, per qualche istante, un solo

irripetuto, interminato istante,

l’istante interminabile di un bacio,

vede, sente, constata in quell'istante

dissolversi, svanire come un soffio

l’imprevista felicità di tutta

la sua vita, esaurirsi come un lampo,

spegnersi come folgore improvvisa,

l’amore che intravisto e colto appena

si dilegua come ombra nel passato.

Io sono tutti e tre. O tutti e quattro.

L’attore, che comincia presentando

e dopo recitando i personaggi,

il figlio, poi la madre, ultimo il padre,

di tutti il più infelice, che l’amore

sente sottrarsi appena l’ha toccato.

Non figurate una corrispondenza,

perciò, tra la figura dell’attore

e le varie personificazioni

dei personaggi. La persona è solo

una maschera, la figura lieve

di un’apparenza. Sotto, chi sa, forse

il ghigno di un ricordo, la sembianza

di una paura, l’alito leggero

di una parola, un sospirato riso,

una vagante lacrima, la faccia

di un desiderio immaginario, tutto,

può darsi, sotto l’esagerata smorfia

di cartapesta, sotto la rugosa

velatura di un burattino, il viso

inespressivo di una marionetta.

Io stesso burattino e marionetta.

E giovane ventenne, amato amante,

erómenos efebo, che a suo padre

regala un erastès, entrambi accesi

di un impulsivo e folgorante amore;

e maschio, mi vedrete, sottomesso

all’amore di un uomo che avrò prima

però, per suo volere, sottomesso;

ma sarò donna, e madre petulante

dopo, in un intermezzo impuro, laido,

inverecondo, la caricatura

oscena di libidinosa madre.

Infine sarò padre, un quarantenne

aitante, affascinante del bel mondo,

un freddo testimone del successo,

un distaccato ingegno calcolante

del regno del profitto, ma dannato

e insieme anche redento da un amore,

che non è amore come gli altri amori,

non è consenso speculare, voce

dissimile che accorda l’altra voce,

ma speculare immagine dell’altro,

somiglianza che incontra somiglianza,

principio che s’intona nella fine,

fine che torna al suono dell’inizio,

perpetuo cerchio di perpetua brama,

cuore ferito a morte dalla morte

di chi scopre dapprima come figlio

ma riconosce presto come amante,

disperato di perderlo per sempre,

l’amore finalmente ritrovato,

perché nel primo bacio conosciuto,

il contatto è spezzato, separato,

non appena goduto il primo bacio.

Applaudite. Comincia la finzione.

Chi sa quanti di voi da questa storia

conosceranno di sé stessi l’ombra

notturna che segreta e sconosciuta

da sempre vive dentro il proprio cuore,

ma che avida di rivelarsi esplode

per le parole udite come un fuoco

che incendia l’esistenza e la consuma.


Scompare dietro il sipario.





I


Una stanza disadorna, disordinata, un letto sfatto, pantofole e scarpe sparse per terra, indumenti su un sedia, una scrivania ingombra di carte e di libri. Una libreria alla parete, i libri non in fila, qualcuno verticale qualcuno orizzontale. Sulla parete in fondo un’ampia porta di vetro che dà su un giardino. Una finestra, accanto alla porta, sempre aperta, si deve avere l’impressione di sentirsi addosso l’odore delle piante. Sul letto giace un GIOVANE sui vent’anni, calzoncini e maglietta da notte.



IL GIOVANE           Una pazza! Ecco che cos’è mia madre.

Ma come posso crederle, se solo

adesso che ho vent’anni lei mi viene

a dire che mio padre non è quegli

che fino a oggi ho creduto mio padre?

Lo ha nascosto al marito, lo ha nascosto

a suo figlio, nascosto a tutti quanti.

Oggi dovrei sposarmi. Sono stati fatti

preparativi, a dire poco, degni

della corona d’Inghilterra. Dopo

la cerimonia, folla d’invitati

al Grand Hotel. Accanto – il faut le dire -

a quella meraviglia di anticaglia

d’una Roma rifatta e ripensata

da Buonarroti, ch’è la colossale

Santa Maria degli Angeli, là dentro

la basilica questo matrimonio

della Roma che conta, della Roma

del potere, l’avrebbe celebrato

addirittura un vescovo, la Roma

bene appagata, e fiero il generone

capitolino. Puf! L’acuta punta

di uno spillo che buca un palloncino.

Tuttavia, a mia moglie, ops! mi correggo:

a quella che sarebbe diventata

oggi mia moglie, dire ma che cosa?

O quale scappatoia escogitare?

Ci ho ripensato, sai, no, non è cosa,

non sono chi tu pensi, soprattutto

non sono chi tuo padre mi vorrebbe,

e figurarsi poi tua madre. Quella

si figurava già sua figlia moglie

di un magistrato. Ma mio padre, invece,

non è mio padre. Mica una faccenda

da poco: sono un figlio di puttana.

Eh sì. Ora lo so. E te lo dico.

Ho una madre puttana, me l’ha detto

appena adesso. Cioè, non ha detto

ch’è una puttana, ha detto che mio padre

non è mio padre. Mio padre, un cornuto.

Sono figlio, lei dice, addirittura

di un industriale enorme, eccezionale,

un Sole sulla terra, che ha sfondato

alla grande, nel Nord, dapprima,

e poi in tutta Italia, in tutta Europa,

in tutto il mondo. Lui non ha rivali.

È il top dell’automobile. Produce

imbattibili macchine da corsa:

un grande, un genio, un nome che fa scena,

il nome che fa chic dove lo senti,

e vince tutti i raid del mondo:

da Monaco a Le Mans, a Monza. Dove

arriva, arriva il più grande di tutti.

Insomma, e questo è il punto che interessa,

è per mia madre, che sarà puttana,

ma è puttana del mondo, questo dio

è uno che sta in alto, assai più in alto

del marito. La gerarchia sociale

è ciò che conta per mia madre: poco

importa, dunque, se a scaldare il seggio

del potere, a poggiare il culo giusto

sul posto giusto, è il culo rotto, marcio

di un farabutto o il culo intatto, sano

di un onesto. Le importa che comandi.


Si alza dal letto. Cammina su e giù per la stanza.


Ma mo’, che faccio? Sarà pure un grande,

ma io sono un bastardo. Mi figuro

i battibecchi nei salotti, i detti

e contraddetti in casa della sposa.

Tutta quell’aria, quella puzza al naso,

la magistrata dei miei cavolfiori,

e poi non è nemmeno figlio suo.

E chi ci crede all’incidente? Fatto

con un altro, e nascondono l’affare. -


Resta un attimo a pensarci su.


Sarà per questo che ‘sto grande figlio

di puttana non m’ha riconosciuto?

Come pensano qua che me la sbroglio?

Che dico alla ragazza che mi aspetta

già vestita di bianco? Ma che faccio,

afferro furibondo la cornetta

del telefono, e chiamo quello vero,

di padre, quello che rispetto a lui

chi credo padre è un microbo, un insetto?

E che gli dico? Fa’ qualcosa, cazzo,

sono tuo figlio: tiramene fuori.

Ma se nemmeno lo conosco. Visto,

l’avrò visto sì e no tre volte a Parma.

Uno fico, un bell’uomo sui quaranta.

Ma era un ragazzino, porco Giuda,

quando se l’è scopata quella zozza

di mia madre!


Contraffà la voce, cercando d’imitare la voce di sua madre, roca, profonda, per niente stridula. L’imitazione è caricaturale, derisoria.


Ma come non avrei potuto,

figlio, se avevo solo quindici anni?

L’ho nascosto, nascosto a tutti. Un anno

di vacanza a Ginevra, e voilà sono

tornata intatta come quando sono

nata. Ma poi con l’altro abbiamo fatto

un accordo, ch’è stato un incidente

di gioventù, Si andava su a Cortina

tutti gli anni, fin da ragazzi, tanto

d’estate che d’inverno. Naturale

che nessuno trovasse da ridire.


Si ferma sul proscenio. Guarda la platea. Esagera ancora di più la vociaccia femminile di sua madre.


Ma l’altro, oh! l’altro, chi mai lo vedeva

qui a Roma? Ci è venuto quando ha preso

moglie. Pochi anni fa. Ma di nascosto,

ogni tanto, mi strizza l’occhio. Io volto

la faccia e lui la smette. Ma l’hai visto,

no? quella volta a Parma. Mica bello,

vero? Forse ho sbagliato. Lui è forte.

Ma sai, comanda il mondo, lei mi dice,

e piano, nell’orecchio. Lo comanda

per davvero, lui sì, mica per finta.


Riprende l’impostazione della propria voce.


Sottinteso: quest’altro, quello falso,

quello che tutti credono tuo padre,

è un sottomesso, un servo, una marchetta. -


Esplode. Incazzato nero.


Ma dovevi aspettare che compissi

vent’anni, mamma. per sputarmi in faccia

l’oscena verità? Che tu non sei

che una puttana e mio padre un cornuto?

Aspettare per giunta che arrivasse

il giorno delle nozze? Giusto prima

di andare in chiesa? Sei pazza o che sei?

Non ti credo. Vuoi farti grande, vuoi

liberarti di lui, di un sottomesso,

di un insignificante subalterno,

per essere l’amante di un padrone,

di un dio!


Reimposta la voce a imitazione della voce della madre.


Uno che quando apre la bocca,

fa tremare Wall Street, fa impallidire

con un cenno la faccia del ministro

delle finanze. Ma lui resta, invece,

a comandare la borsa di Londra,

di Parigi, di Mosca, tutte quante.


Con la propria voce:


Ma che cosa t’immagini? che il figlio

bastardo di un potente possa fare,

mamma, qualcosa al mondo di più grande

che il figlio, come me, di un magistrato?

Ma sai chi sono, che m’hai fatto, mamma?

Io sono un figlio di puttana. Ma puttana

di un potente, dirai. E dillo, dillo,

mamma, così sapranno tutti, tutti,

chi sono, chi tu veramente sei.

Sai le risate al bridge della stronza

dove ti metti in ghingheri le volte

che ci vai. Te li sogni promozioni

e avanzamenti per quel figurante

di tuo marito. - E già che siamo al punto,

all’impiegato, al tuttofare, al servo,

glielo hai detto? Ma quanti cazzi, mamma,

di un uomo che non fosse tuo marito,

hanno bucato la tua fica, l’hanno

spupazzata, e tu, generosa, li hai

ricevuti, ospitati, benedetti?


Si ode una voce femminile da fuori, apertamente femminile, anche se non acuta né stridula, ma roca, tuttavia diversa dalla imitazione caricaturale del figlio:


Cincìn! Che fai lì solo al buio? Vieni

qua, c’è il sole che splende sul giardino.


IL GIOVANE Il Sole! Tsé!


Rivolto all’interno:


Che vuoi? No, preferisco

il buio. Non seccarmi. Ci sentiamo

più tardi.


Si butta sul letto supino, le mani sotto la nuca.


Quanto rompe. Poi si dice

che a creare problemi oggi nel mondo

sono i giovani. Sono i vecchi, vecchi,

cornuti vecchi, pippe, strafottute

pippe la notte e il giorno che si fanno,

e straparlano, imprecano, bugiardi,

vomitando sui giovani veleno -

sconclusionati , inefficienti, vuoti -

ma se la sono costruita loro

questa miseria, questa porcheria

di società che si sono inventata.

Quasi quasi mi ammazzo. Così almeno

lascio addosso il rimorso della merda,

tutta la merda, che mi hanno buttato

nelle orecchie: per il tuo bene, figlio

mio, che credi? solo per il tuo bene.

Puah! - Ma tanto per cominciare, adesso

parlo io e lo dico forte, forte:

non mi sposo, non voglio più sposarmi.

Quella sciacquetta se la cucchi un altro.


Buio.








II


La stessa scena. Qualche ora dopo. Sulla scrivania c’è un computer portatile aperto. Si ode gracchiare un rap. Il GIOVANE è sdraiato sul letto in mutande.


La vita e ‘na monnezza.

Non vedo che schifezza.

Mia madre è ‘na puttana.

Quel frocio di mio padre

lo piglia in culo, ma sta ‘n campana.

Lo stesso che mia madre,

mia madre è ‘na puttana,

sta ‘n campana tutto ‘l giorno,

tutto ‘l giorno per un cazzo,

un cazzo a cena e dopocena

e finisce lo stramazzo,

finisce ‘n quarantena.

Basta un cazzo ben fornito,

conto in banca ben nutrito.

La vita è ‘na schifezza.

E tu si’ ‘a vita mia,

c’ho puoi giurà, mamma mia,

na vera fentenzia.

Il mondo è un culo senza buco,

e dentro ci sta un bruco,

un bruco che lo mangia,

lo mozzica, e s’arrangia,

ma è un culo senza buco,

na chiavica puzzolente,

e ‘l mondo è ‘na monnezza.

Ci muoio dentro con la pezza,

ci muoio senza pezza.

Non mi resta che la fossa.

Ci casco dentro pelle e ossa.


IL GIOVANE L’hanno portata all’ospedale, morta

di rabbia. La famiglia mi minaccia

una causa. Di che? Che il bravo figlio

di mammà, che il pupillo di papà

non glielo ficca più? Ma la vergogna,

la vergogna, mio caro! La vergogna,

stronza, è quello che non sapevo, il fatto

tenuto nella pancia per vent’anni!

No, non mi sposo, non mi sposo più.

Guarda. Lo piglio in culo. Preferisco

frocio, perché lo voglio io, che senza

che io lo sappia, sentirmelo ficcato.

Ma tu, mignotta, mamma, mamma, come

te lo sei sbrindellato nella fica

il cazzo di papà, quel cazzo grosso

di un dominante? Mamma, mi fai schifo! -


Si alza. S’infila un paio di jeans, indossa una maglietta rossa.


Non resisto. Mi faccio un giro. Vado

a puttane. Mi calmeranno. Cazzo!

Ma come credo di poterne uscire

da questo maledetto imbroglio? Vado,

mi scopo la puttana che m’illude

carezzandomi il lobo dell’orecchio,

e mi sussurra: mio piccino, quanto

male ti fanno! O merda! Vaffanculo!

Io penso che mi fotto, mi strafotto

del lugubre casino, del merdaio

in cui m’hanno ficcato. Sì, ficcato!

Mia madre, e anche mio padre. Figurarsi

se non lo sa. Capire, invece, questo

devo fare: capire. Ero felice,

da bambino? Mi pare, mi ricordo

ch’ero felice. O forse no? Se tutti

ripetono che da bambini sono

stati felici, tutti, tutti sono

nient’altro che ridicoli bugiardi.

Anche te, che ti dicono mio padre.

Ma no! Sono più brave le puttane.

Mi servono, le voglio, questa notte

voglio morire tra le braccia di una

puttana. Su. Vediamo. Sì, vediamo.


Si siede davanti alla scrivania. Apre il computer, lo avvia.


E dai! Sbrìgati, pezzo di ferraglia!

Ecco. Sì, sono io. Qui, nato a Roma.

Fichetto che ti fotte. Questo è il nick.

Perché profilo in cui non mento, sono

chi sono. Uso quell’altro, del pischello

senza fissa dimora? Uno sfigato,

come tutti i pischelli. Attira like,

impietosisce, allo sfigato mica

si nega una carezza. Se poi paga,

perché negarsi, rifiutarsi? I soldi

sono apolidi. Tanto una piotta

è sempre una piotta. Guarda questa!

Si accontenta di mezza. Ma che cozza!

Guardiamo un’altra. Cazzo! Un’alra cozza!

Ma davvero mi basta una scopata

a spegnere la rabbia? Se mi chiedo

da che mi monta questa rabbia, quale

fica l’appagherebbe? A questa chat,

non è sempre questione di una fica

o di un cazzo. La fuga è proprio questa:

pensare che si tratta di una fica

o di un cazzo. Ma quando ero un bambino,

ero felice? Ma poi che pretendevo?

Felicità, sapessimo che cosa

cerchiamo quando ci diciamo, piano,

per paura che scappi, la parola

felicità. Mi sfotte anche il mio nome.

Salvatore. Di che? Di chi? La fine

di ogni salvatore è sempre quella:

di morire ammazzato. O fulminato,

come Fetonte, il figlio luminoso

anche lui di un potente, addirittura

del Sole o di uno che diceva, furbo,

di essere il Sole. Povero ragazzo!

Chiese il carro del Sole che attraversa

il cielo, ma rischiò d’incenerire

l’universo. Non lo sapeva, forse,

suo padre che ogni figlio questo vuole:

bruciare il mondo? Un fuoco solo

non basta a compensare la distanza,

la differenza tra la vita scelta

per me da un altro, e l’altra vita, quella

che non è ciò che gli uomini mortali

chiamano vita? Che vita pensarmi

se non sono la scoria dei viventi,

ma il figlio di qualcuno che la gente

venera come un dio? Lo sospettava,

chi sa, l’impiegatuccio che credevo,

e credo ancora, non lo so, mio padre.

Ma se lo sospettava, il sottomesso,

l’ha ben nascosto, anche a sé stesso. Il figlio,

il sospettato figlio, non doveva

nemmeno intravederlo, non doveva

nemmeno dubitare, che di un altro

fosse figlio. Ragioni di decenza

più che di convenienza. Ma ritorno

a chiedermi: felice, ero felice

da bambino? Il silenzio delle cose,

la verità celata, m’era un fatto

di tutti i giorni. Ma non ne soffrivo.

Avrei sofferto, invece, se lo avessi

saputo, ciò che tanto l’una quanto

l’altro mi nascondevano, mia madre,

e, consenziente, opaco, anche mio padre?


Si alza. Butta il computer per terra.


Buio.










III


La stessa scena. Vuota. La radio, a tutto volume, lancia una canzone: Mina, Parole, parole.


https://www.youtube.com/watch?v=siQ3vEWSYkM


Entra come una belva, SALVATORE, guarda il computer per terra. Lo raccoglie. Lo poggia sulla scrivania. Prova se funziona. Sulla parete in fondo appaiono le parole che sta digitando: “Sei tu mio padre?”


Buio.















IV



La stessa scena. SALVATORE ha in mano un cellulare. Compone un numero. Porta il cellulare alla bocca.


SALVATORE Quando devo venire? Dove? Bene.

Aspettami. Verrò, non dubitare.

Perché dovrei fregarti? Mica sono

come te. Puntualmente, tra mezz’ora.

No, aspetta. Mi dimenticavo. Devo

prima aggiustare alcune cose. Questa

sera, magari per l’ora di cena,

così abbiamo più tempo per parlare.

Andiamo in qualche ristorante. Oppure

m’inviti a casa tua. Non puoi? Ah, certo.

Tua moglie. Già, la mia matrigna. Questa,

ch’è mia madre, non so come chiamarla.

Va bene per le nove. Al Mattatoio.

Sì, so dov’è, ci vado spesso. Mica

sono un pischello casalingo. Vado

dove cazzo mi pare, quando voglio.

Se poi mi piaci? Ma che cazzo dici?

Non sono frocio. Ah, solo come padre.

Boh, fa’ te. Che mi frega? Puoi piacermi

oppure non piacermi. Fa lo stesso.

Uno le amanti, e anche gli amanti, visto

che ti piace parlarne, non capisco,

uno le amanti e. se ti piace, pure

gli amanti, se li sceglie. Le separa

dal mazzo, quelle che ha deciso giuste.

E le altre, vaffanculo. Vabbe’, gli altri,

anche gli altri. Perché insisti, c’hai

‘n problema? Io, no. Ma ti volevo

spiegare che c’è qualche differenza.

Il padre uno mica se lo sceglie.

O frocio o puttaniere te lo tieni.

Vabbe’, ciao! No, figurati. L’offeso,

se mai, dovrebbe essere un altro. Un altro,

sì, e sai chi. Ve bene. Ci vediamo

alle nove, stasera, lì, davanti

al Mattatoio. Con i fiocchi, vedi,

mattanza con i fiocchi. Tutti e due.

Anzi no, tutti e quattro. Cinque, poi,

se ci ficchi tua moglie. Un bacio? Certo.

Per telefono non fa danni. A dopo.


Chiude la conversazione. Butta il cellulare sul letto. Apre il computer, cerca, comincia a navigare. Sulla parete in fondo compare la scritta: Padre versatile 40 per figlio uguale. SALVATORE digita una domanda: Dove? Risposta: Testaccio. Domanda: Quando, stasera? Risposta: Stasera non posso.


Brutto frocio schifoso! Non mi fotti.

Me, frocio, puttaniere, non mi fotti.



Buio.


























V


La stessa scena. Vuota. Il letto sfatto. Sulla vetrata un immenso schermo di computer. Compare la faccia di una donna (per la rappresentazione potrebbe essere lo stesso attore che recita la parte di Salvatore, vistosamente truccato da donna). Labbra col rossetto viola. Ciglia vistosamente impiastricciate di rimmel. Sopracciglia inesistenti. Voce melliflua, suadente, platealmente caricaturale, quasi da checca o da trans. Ma non femminile. Anzi robusta, profonda, da “maschio”.



LA DONNA Sono tua madre. Sono uscita presto

dall’ospedale. Mi hanno spinta fuori

dal letto e dalla stanza, neanche fossi

una zingara, un’abusiva, qualche

zozza pezzente senz’arte né parte.

Ci ho riflettuto: hai fatto bene. In fondo

quella squinzia che t’eri preso, figlio,

non mi piaceva. Mi è bastato avere

davanti agli occhi la sua faccia piena

di brufoli, grassoccia, opaca; udire

la sua voce di papera spennata,

guardare la sua ruvida cotenna,

una carta assorbente, devastata

dai tatuaggi, com’è di moda oggi;

mi è bastato sentirla strascicare,

con voce di gallina spennacchiata,

“No, no, Salviuccio mio, no, non lo fare!”

e m’è venuto il vomito! le smorfie,

le mossettine di una bambolina,

mi hanno presto restituito tutta

la fattispecie della situazione.

Hai fatto bene. Non valeva, figlio

chi sei. Ma tu dovevi laurearti,

prima, infilarti in qualche grande studio

di avvocato, azzardare la carriera

di magistrato, come quel coglione

che credevi tuo padre. Per imboscarti

tra chi conta nel mondo, chi comanda.

Questo volevo. Che non somigliassi

a un impiegato. Come mio marito,

ch’è giudice, e ubbidisce al primo stronzo

che gli strilla sul naso. Come fosse

l’ultimo dipendente di un ministro.

Ti volevo ministro, ti volevo

seduto tra i potenti, un figlio, il mio,

che non è dipendente, ma comanda

ai dipendenti. Lo capivi, questo?

Non capisco perché dunque mi sputi

tante sconcezze addosso. Capisco

le sconcezze, non quelle che mi dici.

Ma so che hai fatto bene. Quella squinzia

non meritava il letto che le offrivi.

Dobbiamo, figlio mio, dunque, vederci.

Che tu lo voglia o no, resto tua madre.

Ma stasera non posso. Vado al bridge

della moglie del giudice che sai.

Mio marito – non vuoi – e giustamente -

che lo chiami tuo padre – mio marito

non viene: dice che non è decente

per un giudice andare con la moglie

al bridge della moglie di un collega.

Ma domani dobbiamo senza meno

vederci. Indispensabile parlarci,

dirci tutto. Ti spiegherò, vedrai.

Non sono la puttana che spiattelli

a destra e a manca. Non dimenticare

che sono e resterò sempre tua madre. -

Cincìn, che vuoi, se a letto quella cozza

tu te la sei scopata – no? - nemmeno

una volta? - ma dai! sei più fichetto

di come ti facevo – ma ripeto:

se a letto qualche volta l’hai leccata,

quell’umida sorchetta, saprai quanto

la porca gode e smania se un trivello

la ispeziona e la smucina per bene.

Questo tua madre te lo deve dire.

Non mi facevi quella che ti sembro,

adesso che ti parlo come parlo?

E allora, gnucco, ascoltami! Tuo padre -

quello vero, non quel coglione calvo

che ho sposato, e che ha perso a cinquant'anni

tutti i denti, non morde una lumaca,

somiglia a chi s’inchina quando passa

il superiore, apre la bocca, e ride,

e fa vedere a tutti che non morde -

ah no! non quello - ma il tuo vero padre -

ebbene, quello, sappi, figlio mio,

la trivella ce l’ha grossa e potente.

Mai nessuno nel mondo con più forza

la usa e resistenza e ostinazione

più di lui. Tu, perciò, non giudicarmi.

Nessuna donna – ma, chi sa, può darsi,

nemmeno un uomo - a lui sa dire un no .

Chi sa che un giorno, invece, se non sono

del tutto cieca, capirai; mignotta,

forse, non so, tu lo sei più di me.

Bacino, mio Cincìn. Tu mi assomigli

più di quanto supponi. Auguri, figlio,

sarai, lo so, ciò che davvero sei.


Muove le labbra in un osceno lunghissimo viscidissimo bacio.


Buio.






VI


La stessa scena, notte. SALVATORE, vestito, supino sul letto.


SALVATORE La prima notte con mio padre. Notte

profonda, cupa, come la mia vita,

forse anche la sua vita. Notte dura,

di temuta, ma preveduta, vera -

ah! quanto vera! - più per lui, può darsi,

che per me, riscoperta di sé stesso -

ma insieme la sconfitta, anzi la resa,

come se l’atto, lo sprofondamento

totale di conoscersi per quello

che si è, discrostando dalla pelle

la polvere e le croste che negli anni

la famiglia, la scuola, le amicizie,

anche le più fidate, le segrete,

in cui l’intimità, la confidenza

studiano una complicità perversa,

ti hanno incollato addosso, quasi

una seconda pelle, una mostruosa

maschera di altri personaggi, quelli

che vuoi, quelli che vogliono tu sia,

come se dopo la recitazione,

quell’atto di levarti dalla faccia

la maschera, ti tolga, con ferocia,

anche la pelle, scopra la tua carne,

dissolva le tue ossa, e resti un’ombra,

un simulacro di chi eri, o, meglio,

di chi credevi di essere. Sei nudo,

sei di te stesso solo un’apparenza.

E hai paura di polverizzarti,

scomparire, dissolverti nel nulla.

Lo sapevo a che cosa andavo incontro.

Sapevo che incontravo non mio padre,

o non solo mio padre. Ma la parte

di me che avevo ricacciato indietro,

rintuzzato, soppressa, come stolta

fantasia, l’illusione di un me stesso

che sapevo chi fosse, ma negavo

che lo fossi. Di fronte a lui non ero

che uno che chiedeva spiegazioni.

La voglia d’insultarlo, svergognarlo,

farlo sentire un microbo, un insetto,

per non essere io l’insetto, il virus

che infettava la mia sopravvivenza.

Ma non così. Mio Dio, no, che pazzia,

la stessa che travolse, un’altra notte,

venti anni fa, chi sa, mia madre. Notte

per tutti e due di perdimento, strazio,

di spreco, una tortura, voglia matta

di strafarsi, dimenticare tutto,

dimenticare tutto fino in fondo,

quello che c’era prima che accadesse,

e quello che accadeva, mentre stava

accadendo, e poi, dopo, risvuotarsi,

dimenticare che fosse accaduto:

non essere che un assoluto niente.

Il peggio è che l’oltraggio, il suo supposto

oltraggio, non lo fu, né per mia madre,

né per me, come lo pensavo, come

lo temevo. Nel figlio, e nella madre,

non un oltraggio - per la madre, forse,

uno stupro - ma per il figlio come

chiamarlo? La violenza era, se mai,

tutta da parte mia. Per aggredirlo,

demolirlo, distruggerlo. Quel padre

che ti rifiuta, che anzi, peggio, vuole

toglierti il nome, cancellarti, come

a negare che esisti, un incidente

di percorso, la scema ti ha tenuto,

si è rifiutata di abortire, dici:

ma lui che c’entra? - il piccolo fardello,

se non si può buttarlo dentro un secchio

dell’immondizia, basta cancellarlo

dal registro dei vivi, dei presenti,

rifiutarsi di dargli un nome, il tuo,

fingerlo inesistente. Sono io,

papà, ma lo capisci? Sono io!

Sei tu, è vero. E hai la stessa faccia

di tua madre. La stessa bocca, gli occhi

come i suoi. Ma più bello, forse, il loro

azzurro, più profondo, più tremendo.

Com’è sempre tremendo quando guardi

la cosa che conosci e hai paura

di conoscerla. Oh, tu. Come sei bello,

Chi sa che cosa mi nasconde ancora

il tuo corpo di te. Non ti nasconde

niente. Non sono come te. Ma vuoi

vederlo? Dal bicchiere scivolava

tra le tue labbra l’ultima sorsata

di vino. Vidi la tua lingua. Dove

vuoi farmelo vedere? Lascia stare.

Qui non si può. Ma tu, lo vuoi vedere?

Non chiederlo, non chiedermelo più.

Sapresti dove andare? Due minuti,

e ti rispondo. Il cellulare fece

da Galeotto, offerse un imprevisto

ma sospirato spazio - e più da lui

che da me, sospirato – fui la preda

delle pupille di un voyeur voglioso,

le vidi che mi stavano scrutando,

disegnando, svestendo dalla testa

ai piedi, e in quel momento fui travolto

dal mio nuovo, ma stradesiderato

e fino a quel momento insospettato

frenetico capriccio di strip-teaser:

la ripetuta rappresentazione

di quel maldestro istinto familiare

che ci univa, adesso conosceva

il suo teatro adatto: una stamberga

di un single puttaniere – inappropriato,

troppo fine chiamarla garçonnière -

da porco navigato la cedeva

volentieri e curioso alle porcate

di un amico. Che novità mai questa?

Con un uomo? e da quando? Tagliai corto,

si sbagliava. Pensava male, dissi.

Ma non sapevo ancora se tra noi,

ci sarebbero state le porcate,

o se la porcheria sarebbe stata

solo una sfida, una vendetta, voglia

di sputtanarlo, o la sua di vedere

fino a che punto questo strano figlio

si sarebbe lasciato da suo padre,

da quest’uomo potente, imprenditore

aitante e puttaniere, lui che aveva

inseminato con l’inganno quella

Bovary scriteriata di sua madre,

fino a che punto, vero, padre mio,

mi avresti trascinato in quel profondo

gorgo di cattiveria, di paure

che minacciano il sesso, quando un padre

sfida suo figlio. Povero demente!

Se qualcuno sfidava l’altro, certo

non era il padre. Mi vedrai. Ma peggio

per te, se poi, demonio, brutto frocio,

vorrai farmi anche a me, che non lo voglio,

ciò che hai fatto a mia madre. Vieni, Andiamo. -

Il ricordo mi acceca. Questa prima

parte l’abbiamo noi già recitata.

Oppure il desiderio suggerisce

che quanto sto vivendo non l’ho ancora

vissuto fino in fondo, e la paura

mi dice che non l’ho vissuto affatto.

Buio.





VII


La stessa scena. Ma la porta di vetri che dà sul giardino è spalancata. Sdraiato sull’erba, SALVATORE, supino, le mani sotto la nuca, guarda il cielo. Indossa pantaloni e maglietta bianchi, scarpe da tennis Superga bianche. Sole a picco.



SALVATORE Finalmente, ecco il giorno. Più ci penso,

più ricordo, più sembra che non sono nato

che questa notte, che per questa notte.

Chi fosse il predatore, chi la preda,

non lo capisco. Ma una scappatoia -

per lui, per me? - l’insulto che gli ho, dopo -

ah già! dopo - sputato sulla faccia.

Frocio, tra noi, chi di noi due? Il figlio

che s’incula suo padre, o l’uomo, il padre,

che si lascia inculare da suo figlio?

Ma – e se fosse amore? -


urlando:


Non lo accetto!


Sussurrando, quasi impercettibile:


Non posso, non potrò mai accettarlo:

no, no, non devo. - Chi me lo proibisce?

Mia madre? Io? - Ma se chi più dovrebbe

inorridirne, sembra invece estratto

da sé stesso, rapito, inebetito,

felice e soddisfatto, come solo

può esserlo un bambino, quasi il figlio

fosse lui, e io chi glielo chiarisce,

il padre che gli spiega la lezione.


Buio.










VIII


La stessa scena. La vetrata è chiusa. SALVATORE davanti alla scrivania che digita sulla tastiera del computer. È notte. Sullo schermo del computer ingrandito sulla parete compare il dialogo di SALVATORE con suo PADRE.


SALVATORE Chi sei? Come hai potuto? Ero tua preda.

Hai voluto – con quanta tenerezza! -

essere tu la mia. Chi ti obbligava?

IL PADRE Nessuno, figlio. O, forse, perdonarmi,

e punirmi, non so, questi venti anni

di silenzio, finzione, di menzogna.

SALVATORE Bastava un bacio. Quello che mai volle

darmi l’altro, anche se glielo chiedevo.

Tu ti sei consegnato, offerto, dato.

IL PADRE Tutti e due esitiamo a dirci, figlio,

la parola che chiarirebbe il senso

di ciò che abbiamo fatto. Ma va bene.

SALVATORE E se invece te la dicessi, quella

parola? Ma con quale nome posso,

per dirtela, chiamarti? Ne conosco …

IL PADRE Non scriverne nessuna di parola.

Tutte ci sembrerebbero sbagliate.

Quella vera, la sola, tu la sai.

SALVATORE Sì, la so. Mi solletica le labbra.

Ma ho paura a dirla. Tu la sai.

Anche tu come me. Perché la taci?

IL PADRE Perché dirla non salva. Non ci salva.

E non ci assolverebbe. Ma noi, prima

di pronunciarla, l’abbiamo vissuta.


Buio.







IX


La stessa scena. SALVATORE sul proscenio. Indossa gli stessi pantaloni bianchi e la stessa maglietta anch’essa bianca della scena VII. Sfila il cellulare da una tasca dei pantaloni. Compone un numero. Si porta il cellulare, orizzontale, davanti alla bocca. Aspetta. Finalmente risponde:


SALVATORE Ciao! Riconosci la mia voce? Sono

io, sì. Avevo voglia di sentirti.

Sono passati dieci giorni. Un tempo

sterminato, papà, senza vederci.

Non sono più lo stesso. Puoi capire.

Gli insulti che ti ho detto, prima, prima -

oh sai tu di che cosa sono rabbia,

furono il mio furore di deluso.

Ma non contro di te. Piuttosto contro

di me. Ho sempre questa rabbia addosso.

Come se mi sentissi catturato,

ingannato, non so da chi, da un padre

che non è padre, da una madre stolta,

da me stesso, vorrei essere io

chi sorprende, raccoglie, chi cattura.

Sento invece che fuggono, che fanno

giochi con il mio corpo, come quando

mi lanciavano in aria per lasciarmi

dopo precipitare come un sasso

nel mare3. E ho paura di morire.

Come anche questa notte sono morto,

ma nessuno ha giocato con il mio

corpo, sono io, anzi, che ho giocato -

ma dieci giorni fa, mi sembra un tempo

infinito, lontano quasi come

il tempo della mia infanzia – sono

io che ho giocato, papà, con il tuo.

E come avrei potuto, dunque, allora

insultarti, se la parola giusta

sarebbe un’altra, che non oso dirti?

Dimentica. Dimenticami, magari.

Che vuoi da me? Che posso darti? Peggio:

che puoi tu darmi? Sì, bravo, l’hai detto.

Una cosa che non avevo mai

provato. Sì, la prima volta. Come,

però, non fosse, no, la prima volta,

come fosse successo sempre, fosse

qualcosa che sapevo, che volevo.

Anche tu? Ma davvero? L’hai sentito,

anche tu, come me, ch’era da sempre?

Anche per te la prima volta? Pensi

anche tu – dio, perché non mi riesce

di chiamarti con questo nome, il nome

con cui appena adesso mi hai chiamato? -

anche tu – padre che non sei più padre

ma qualcos’altro di più forte, il senso

di una vita, può darsi, ma distorto,

sbagliato, di una vita che si torce

su sé stessa, ritorna sui suoi passi,

e là dove dovrebbe cominciare,

fermare l’intrusione, s’introduce,

si lascia anzi introdurre, e cambia, inverte

la nostra storia, è questo che facciamo?

Sei tu che devi dirmi basta, smetti.

Io non so farlo. Sono incatenato

a ciò che abbiamo fatto quella notte,

sono passati dieci giorni e sembra

solo successo ieri. Un tempo immenso,

sterminato, come la propria infanzia,

eppure nel ricordo, oppure, credo,

nel desiderio, il tempo di un istante.

Dobbiamo pareggiare la partita.

Dobbiamo completare. Ricomporre

il troppo tempo sperperato, perso,

che nessuno di noi sapeva l’altro.

No, che dici? Ma dimmi, oh dimmi, invece,

che non dobbiamo. Muoio dalla voglia

di rivederti. E so che non ti devo

rivedere. Dimentico me stesso,

se ti vedo. Dimentico chi sei.

Ah no, ti prego. Fatti forza. Quello

che mi chiedi non è nient’altro, sai,

che ciò che voglio anche io. Ma noi dobbiamo

dominare gli impulsi. Ricusarci

di fondere lo sperma con lo sperma.

Io lo trasudo solo se ricordo

l’odore incancellabile del tuo

che m’inonda la faccia. Smetti, smetti.

Non verrò. Che mi chiedi? Ciò che vuoi

lo voglio anche io. Ma non dobbiamo. Come

sarebbe che nessuno lo proibisce?

Me lo proibisco io. Che? La natura?

Ah, la natura! I cani, i gatti, gli orsi,

i serpenti, lo sanno, forse, dimmi,

che cosa è, non è natura? Sbagli

se credi che sia questo a spaventarmi.

Il desiderio, ogni mio desiderio è natura.

Ma nessuno è natura, e basta. Siamo

anche qualcosa d’altro. Abbiamo tutti

una storia. Che vuoi, che voglio, padre,

se cedo, se cediamo a questo amore?


Buio.

X


La stessa scena. La stanza è vuota. Entra SALVATORE e si butta, sfinito, sul letto.


SALVATORE Un letto, un letto, nient’altro che un letto,

il tuo, il nostro, dove noi ci unimmo,

e dormirci lassù tutta la vita,

tutta la vita, padre, essere tuo,

tutta la vita, padre, possederti.

Sembrerebbe una libertà. Saltare

un traguardo, il confine del dovuto,

per addentrarsi dove non si sa,

oltre la specie, lontani dal tempo,

abolire la morte, fosse pure

per un istante, il tuo, il mio, il nostro:

e aboliremo con un atto il tempo.

Salvo invece a ricredersi tornando

nel tempo. E allora quell’indiamento,

l’oltrepassare i limiti del ruolo,

l’inebriarsi dell’assoluto, quando

dell’assoluto non si vede l’ombra,

e non sono aboliti affatto i ruoli,

e quel che resta è l’attimo di un grumo

di sperma, come chiameremo allora

questa furia d’amore: desiderio,

lussuria, smania, bramosia di un letto?

Ecco dove finisce tutta questa

vantata libertà: noi la crediamo

senza limiti, senza costrizioni,

ed essa, invece, è già una costrizione,

un cappio che ci stringe. Quanto sembra

possibile toccarla, impossessarsi

d’ogni spazio d’azione, ecco che invece

ci accorgiamo che la limitazione

è già l’immaginarla, figurarsi

se poi si vuole realizzarla. Un sogno.

Un sogno, forse. Bello, eccezionale,

il più bello che io abbia sognato

nella mia vita. È solo il mio ricordo

che sì, ho sentito vivere la vita

dentro di me, quando eri tu che dentro

di me me la versavi, quella vita

che appena nato tu mi avevi tolto,

negandomi il tuo nome. Ma in quel punto,

quando mi hai preso, quando io ho sentito

che mi prendevi, padre, io in quel punto,

sentendoti gridare mio mio mio,

io in quel punto, padre, io ho sentito

che la mia vita, tutta la mia vita,

tu in quel punto me la restituivi,

nel tuo venirmi dentro assaporavo

un flusso che m’inseminava il seme

di tutto l’universo. Ero un ragazzo.

Tu mi facevi dio. E sono pronto,

io sono adesso finalmente pronto

per la mia morte. Non si spezza invano

la traiettoria della procreazione,

né si delude senza scotto, senza

pagare un prezzo, l’ordine del tempo.

Un tempo, ormai, che io arresto. Colgo

l’attimo irripetibile, perfetto,

in cui questa mia vita ha conosciuto

la tua pienezza. Inopportuno, vano,

sperare di ripeterlo. Potessi

anzi con me travolgerti, l’amore

conoscerebbe una sua perfezione.

L’amore ci rivelerebbe l’uno

all’altro e scopriremmo ciò che siamo:

due particelle di un universale

orgasmo. Tutto il resto è un’illusione.

Ti amo, padre. E sono tuo per sempre.

Ecco, l’ho detto, il nome che atterrisce,

il cieco sagittario della sorte.

Addio, papà. Morire è quanto posso

restituirti ancora di me stesso.

Oh padre, padre, padre! Questo nome

mi è conficcato nella carne, morde,

scrutatore implacabile, ogni fibra

del mio corpo. S’infiltra nelle vene,

e circola nel sangue come nuovo

globulo della mia sostanza. Sono

figlio come nessuno fu mai figlio,

nessuno almeno con la decisione

con cui mi assumo nascita e natura,

trasformando la conseguenza nota

di un atto in una deliberazione

soltanto mia, di essere tuo come

nessun altro lo fu nella tua vita

né potrà dopo questa che ti dono

esserlo mai. Se nacqui e mi credetti

nato da un uomo, ora so che invece

sono nato da un dio, e fu divina

l’esecuzione con cui demmo forma

al nostro amore. Umano il mio destino,

ma non è umano questo desiderio

di te che mi smantella e che mi annienta.


Buio.















XI


Nessuna scena. Uno schermo cinematografico. Vi è proiettato un video. È filmata la corsa impazzita di un’automobile sportiva che si schianta contro un muro.















XII


Lo stesso schermo. Compare la figura, solo il volto, di un UOMO sui quaranta, o anche quarantacinque anni. Il PADRE di SALVATORE. A ricoprire la parte è sempre lo stesso attore che ha recitato la parte del figlio. Piano piano, mentre l’uomo parla, si configura la stanza di SALVATORE che gli spettatori già conoscono. Lo schermo arretra sul fondo. Finché la figura del PADRE sfuma e scompare. Resta la sua voce, ma anche quella alla fine tace.


IL PADRE Sì, volle essere posseduto. Disse

che doveva, voleva pareggiare

il conto. Ma non c’era tra noi conto

da saldare. Se mai, può darsi, c’era

una frattura, la compromissione

di un contatto che andava preservato,

che doveva restare irripetuto,

e, forse, addirittura non toccato.

Venti anni, figlio, senza la tua faccia.

Non l’ho vista, sdentata, la tua bocca

azzannare i capezzoli di tua

madre, non era che una quindicenne.

Fu come una ladruncola spedita

sui colli di Ginevra, il lago a specchio

della sua colpa. Una ragazza madre

tra gli svizzeri non fa storia – come

credevano i lombardi, suoi parenti,

che la Svizzera sanno per i soldi

che nascondono e per la cioccolata.

Non ti ho visto bambino, adolescente,

quando avresti potuto già turbarmi.

Mi sei venuto, faccia sulla faccia,

che avevi già venti anni. Seducente

come lo sono tutti, come lo ero

anch’io, quando si è giovani ventenni.

Ma tu eri speciale. Un’esperienza,

vederti, quando al Macro di Testaccio

m’apparisti, imbronciato, a me davanti

come apparve in Teorema Terence Stamp

agli occhi sbalorditi di Girotti.

Eri un angelo, lo Sterminatore,

può darsi; non sapevo, tuttavia,

a sterminare chi, se il padre fatuo

che ti aspettava, sulla piazza buia,

o se te stesso. Smisi, anzi, in quel punto,

di essere fatuo, e di essere me stesso,

di essere un padre, di essere anzi il padre

dell’angelo che mi guardava torvo.

Fu solo un punto, un attimo, lo sguardo

cupo si sciolse, e dalle labbra sparve

la smorfia di disgusto, si distese

la bocca in un sorriso. Ci stringemmo

la mano, ci fissammo, imbarazzati

dapprima, ma poi subito invasati,

e posseduti, intensamente, a lungo,

Uscì, fievole, un “ciao”, ci guardavamo.

Dieci giorni non sono un lungo tempo.

Ma in dieci giorni conoscemmo, l’uno

dell’altro, ciò che in una vita, spesso,

nessun uomo conosce dell’altr’uomo:

ci ricongiungevamo al nostro inizio,

e l’inizio era forma della fine.

Noi ci sentimmo, come in nessun tempo

mai, prima, ci eravamo percepiti,

l’uno e l’altro completi, completati,

quasi la stessa cosa. Era la prima

volta, ma ci sembrava che la cosa

era da sempre. No, mi sbaglio. Cosa

non era, ciò che sentivamo. Cosa

è l’aria, il mare, la montagna, il fiume.

Noi eravamo invece corpi, corpi

vivi, pulsanti, vita che respira.

Corpi, non cose, corpi che toccati

per un prodigio si erano d’un tratto

riconosciuti ormai complementari.

L’ordine primigenio dei viventi

nel mondo. L’individuo che subentra

all’individuo, che oltrepassa il velo

della specie, il confine delle cose,

non è un incidente, un’escrescenza

marginale che sorga da materia

malata, un eccezione del processo,

una lacuna dell’evoluzione,

ma l’essere che per la prima volta

documenta in sé stesso quell’unione

o, a meglio dire, quella universale

unità della vita sul pianeta.

Mi chiese, come garanzia di figlio,

pertinenza di padre – avrebbe forse

dovuto dirmi su quel letto dove

tutti e due ci eravamo rivelati,

pertinenza d’amante – non l’avevo

mai visto più esitante, più sfuggente;

mi chiese, infine, dopo lunghi giri

di parole, ma fattosi più secco,

più deciso, da me quasi esigendo

all’improvviso ciò che fino allora

era parso implorarmi, e sì, mi chiese,

come un atto di riconoscimento,

la regalia dovuta, se potessi,

io padre, al figlio, come nuova prova

che gli ero padre, che lui m’era figlio,

se potessi concedergli una corsa

sul recente prototipo che avevo

progettato per Vallelunga. Come

potevo sospettare la richiesta

di approvare un suicidio? - Vedo il Sole

che ancora sorge tutte le mattine

su montagne, gli oceani, le valli,

le pianure, i deserti, e laghi e fiumi

del mondo, ma una singola scintilla

del suo fuoco non dà più luce agli occhi

di Salvatore – posso adesso dirne

senza tremare il nome, perché nome

di un assente, vederli questi suoi

occhi allora zittivano la lingua -

se spenti, ciechi, sono ormai quegli occhi

insospettato fiume, inaccostato

sedimento di lacrime, la notte

di una felicità perduta e spenta,

in questi miei si è invece inaridito,

si è prosciugato, si è esaurito il fiume

delle lacrime. Se mai punizione

questa fosse di un padre innamorato

di suo figlio, natura mi sospenda

il suo giudizio, se giudizio ha voce

di perdono per l’alito che trema

al solo soffio che avvicina un labbro

all’altro labbro. Tenerezza sempre

invoca tenerezza. La condanni,

se può, solo chi in vita conosciuto

non ha mai la carezza di una mano,

o le cui vene non abbiano tremato

nel percepire il tremito di vene

anch’esse sospiranti quel contatto;

la condannino gli occhi senza luce

che non hanno mai visto l’appannarsi

della luce nell’occhio che ti cerca,

e beve la sua luce dal tuo occhio. -

Perché sia stata questa la sua scelta,

troncare ciò che s’era appena allora

cominciato, non lo saprò più, mai.

La mia felicità perduta è schianto

che anche nella dolcezza del ricordo

non s'acquieta, perché non mi ripete

la dolcezza che piango: il mio dolore

è dolore che di un incorrisposto

desiderio lamenta la ferita:

il solo che potrebbe riappagarlo

non può più corrispondermi. Ma questa

interruzione di corrispondenza

è male che per un eccesso estremo

di dolcezza mi toglie la dolcezza

di appagarmi, perché nel mio ricordo

bramo ciò che non posso più bramare.

Il desiderio non ha colpe, l’atto,

può darsi. Ma contro chi l’azione

che in un istante ci assolve o ci danna? -

Ho venduto la fabbrica. Mia moglie

non deve preoccuparsi per la sua

vecchiaia. Non ha figli. E dunque il tempo

potrà placarle, forse, la scomposta

solitudine, che l’avrebbe certo

in ogni caso accompagnata quando

i figli, adulti, avrebbero lasciato

la casa. Quanto a me, scomposta, come

per tutti, mi terrò la desolata

solitudine in cui mi affonda il sogno

di un’avventura che credevo attinta

finalmente per sempre, ma che invece

ho sentito strappata da una rabbia

che non comprendo, ma che avrei dovuto

prevedere. Mi sono ritirato

in un’isola dove unica presenza

di vita sono, a farmi compagnia,

gli uccelli su nell’aria e gli animali

nei boschi sulla terra. E la risacca

del mare sulla spiaggia, e sugli scogli

il fragore che fanno, tumultuose,

le onde, il ripetuto, inarrestato,

e quanto somigliante ai miei pensieri,

infrangersi dell’acqua e della schiuma

sulla pietra che, immota, le respinge.

Ma immoto, in me, è solo il desiderio

inattuato, la speranza ottusa

del ricordo, per questi giorni, e queste

notti, che mi trascorrono ingombrati

da chi non c’è, deserto la distesa

del mare, e più deserto ancora il vasto

spazio dei boschi, dove il cinguettio

costante degli uccelli mi risuona

come un impenetrabile silenzio.

La sola folla che ogni giorno assedia

questa mia solitudine, è il perenne,

perturbante vocio delle domande,

l’ostinato, angoscioso, interrogare

un destino, e può darsi un dio, quale

abbia senso la vita, e se davvero

un senso c’è tra le fratture opache

delle cose, o se siamo noi a dare

senso alle cose che non hanno senso.

Io sento la sua voce. Ma la voce

che sento, dove si nasconda, dove

esista, in quale spazio della mente,

o quale vita della terra, questo,

non lo so. Ma la sento. Ed è perpetuo

strazio sentirla, e non sapere dove,

se c’è, si annidi una sua consistenza.

A chi gli sopravvive, quasi fosse

una colpa restare, ogni scomparso

rimprovera la propria assenza. E resto,

amato figlio, abbandonato amante

a scontare il silenzio che m’imponi:

sì, questo tuo silenzio così pieno

della tua voce. Resto, e sono solo.

Scenda la notte. Il cielo senza sole

si rabbuia, e dal tenebroso amplesso

confortata la terra nel suo grembo

accoglie e custodisce gli scomparsi.


Buio.


FINE

Fiano Romano, 4 – 14 giugno 2022

1Benché libero è schiavo del letto. Euripide, Fetonte, frammento 158 (LOEB)

2Il tuo destino è mortale. Non è mortale ciò che desideri. Ovidio, Metamorfosi, II, 56

3Episodio narrato da Nonno nelle Dionisiache.