venerdì 11 dicembre 2015

Roma, Nuova Consonanza, Il suono tattile, Portrait Ivan Fedele, al Macro di Via Nizza



ROMA. MACRO. Via Nizza. NUOVA CONSONANZA. IL SUONO TATTILE. PORTRAIT IVAN FEDELE.
In collaborazione con l’Ambasciata d’Estonia a Roma

Livia Rado, soprano
Ensemble U:
Tarmo Johannes, flauto
Helena Tuuling, clarinetto
Merje Roomere, violino
Levi-Daniel Mägla, violoncello
Vambola Krigul, percussioni
Taavi Kerikmäe, pianoforte

Filippo Perocco, direttore

Ivan Fedele,                                                                                  Immagini da Escher (2005),
                                                                                                           per ensemble
                                                                                                           Aforisma (2013), per flauto
Helena Tulve                                                                                 Languse ööl (nella notte di declino, 2006/2015)
                                                                                                           versione per flauto contralto, clarinetto, vibrafono, pianoforte,                                                                                                            violino, violoncello
Tatjana Kozlova-Johannes                                                      Horizobtaalid (2010)
                                                                                                           per flauto, clarinetto, percussioni, pianoforte, violino,    violoncello
Ivan Fedele                                                                                   Maja (1999)
                                                                                                           testo di Giuliano Corti
                                                                                                           per soprano, flauto, clarinetto,   vibrafono,          pianoforte, violino, violoncello

Nuova Consonanza, la storica associazione romana nata per la diffusione della musica contemporanea, come ogni anno, tra novembre e dicembre, presenta diversi incontri e concerti, in cui si disegnano ritratti di compositori di oggi, si ascoltano nuove musiche, si riflette, con ascolti e seminari, conferenze, incontri, sulle figure storiche dell’avanguardia romana, e non solo. Giovedì 10 dicembre c’è stato uno stimolante incontro con Ivan Fedele. Una sorta di sguardo all’indietro e in avanti sulla musica “contemporanea” (cioè, davvero di oggi, o al massimo dell’altro ieri) a Roma e in Italia. Fedele ha messo subito le mani avanti. “La musica è un’arte autoreferenziale. Do mi sol sono solo do mi sol”. Ciò non significa però che la musica sia slegata dal mondo. E dalle altre arti. Una corrente intellettuale ed emotiva unisce tutte le manifestazioni del cervello umano. Ma ciascuna con una propria autonomia. La musica, a differenza di altre arti, che offrono oggetti visibili e palpabili all’esperienza, si affida alla sola percezione del suono: la percezione di una melodia è pertanto una costruzione della memoria. E la memoria, il tempo, giocano un ruolo predominante, nella musica. Questo sembra oggi sfuggire a molti giovani, che invece si chiudono nella percezione del puro istante, del solo presente. Ciò non toglie che d’altra parte siano moltissimi i giovani che si dedicano alla composizione. Non sempre in maniera originale: la tecnologia facilita loro il compito, ma sacrifica spesso anche la personalità. Si potrebbe obiettare che questo, tecnologia o no, sia sempre avvenuto. Un mestiere, una pratica, è sempre stata la base di qualunque musica. Ma anche nel passato i compositori davvero originali si contano sulle punte delle dita. Tuttavia è vero che il problema del nostro tempo, e non solo per la musica, sia una ricostruzione personale, non anonima né banale, della memoria, il disegno cioè di un’opera che registri sì le conquiste del passato, ma anche le trasformi, le rinnovi e si protenda verso “nuove vie”, quelle che Schumann intravedeva nel giovane Brahms.
Ma veniamo al concerto. Il titolo, bellissimo, era “Il suono tattile”. Quasi una sinestesia tra visione e ascolto, tra tridimensionalità spaziale, scultura o architettura poco importa, e geometrie musicali. Ciò sembrerebbe confutare l’affermazione di partenza che la musica sia un’arte autoreferenziale. Ma solo in apparenza. I termini di confronto, infatti, vanno presi sempre in senso metaforico, così come solo in senso metaforico si può dire che la musica sia un linguaggio. Del linguaggio le manca, infatti, la modificazione o mutazione semantica: per esempio la trasformazione di un singolare in plurale, casa/case. La mutazione cambia anche il significato del vocabolo, denotandone il numero. Niente di simile in musica. Una modulazione da do maggiore a sol maggiore (semplicissima!) è solo una modulazione e non significa altro. Ma poi Fedele ama giocare con i paradossi, che solo apparentemente negano l’assunto iniziale, ma di fatto lo rafforzano ed evidenziano la distanza tra l’asemanticità della musica e l’articolazione semantica del linguaggio. Tant’è, “Immagini da Escher”, del 2005, trasferisce nell’inganno uditivo – una scala che sembra scendere e invece sale, un suono che sembra più acuto di un altro, e invece è più basso – l’inganno visivo delle figurazioni di Escher.  “Aforisma”, del 2013, per flauto solo (uno strepitoso, bravissimo, pirotecnico, ma intensissimo Tarmo Johannes), sembra invece volerci proporre lacerti di tempo, disegni che ritornano, quasi fossili della memoria. Qui si apriva, nella serata, una parentesi, si lasciava l’Italia di Fedele e si approdava in Estonia. Del resto il concerto era organizzato con la collaborazione dell’ambasciata d’Estonia a Roma. Estone era il bravissimo complesso strumentale Ensemble U. Italiano, però, il direttore, per le pagine di Fedele. Come Fedele, anche Filippo Perocco è compositore. E si sente quando dirige. Confesso di provare una certa affinità, per non dire attrazione,  con i direttori che sono anche compositori: hanno un modo di leggere la musica che sembra spalancarti la partitura sotto gli occhi. Si pensi a Boulez. O a Bernstein. Devo a Bernstein la totale reinvenzione di Schumann, finalmente eseguito con l’orchestrazione originale: modernissimo! E a Boulez la rivelazione di un Wagner che sembra proiettarsi avanti nel Novecento. Perocco è particolarmente sensibile alla materia del suono. Sarebbe riduttivo dire sensibile al timbro. E’ qualcosa che viene prima del timbro. Come se la produzione del suono venisse a poco a poco estratta, con fatica e delicatezza, dal silenzio, e nel silenzio ripiombasse poi perdendosi di nuovo e scomparendo. Tutto ciò si faceva evidente nell’ultimo pezzo di Fedele da lui diretto: “Maja” (1999) su una poesia – non bellissima! – di Giuliano Corti, per soprano, flauto, clarinetto, vibrafono, pianoforte, violino, violoncello. Ma questo a dopo. Veniamo alle due giovani compositrici estoni.  Di Helena Tulve, nata nel 1977, si è ascoltato “Languse ööl” (Nella notte di declino, 2006/2015). Aliti, soffi, mormorii degli strumenti, come si volesse scendere alle origini del suono. E’ una musica materica, nel senso che lo spessore del suono sembra prevalere sul disegno del percorso formale. Ma è un’illusione, perché di fatto la forma è proprio questo: l’emergere del suono, l’apparire e scomparire della sua percezione. Scrittura controllatissima. E mirabilmente controllata l’interpretazione dell’Ensemble U (Tarmo Johannes, flauto; Helena Tuuling, clarinetto; Merje Roomere, violino; Levi-Daniel Mägla, violoncello; Vambola Krigul, percussioni; Taavi Kerikmäe, pianoforte), senza direttore. Il secondo brano, di Tatjana Kozlova-Johannes, nata nel 1977, anche lei, s’intitola semplicemente “Horisontaalid” (Orizzontali), composto nel 2010. Qui la materia sonora si offre per quello che è, veramente puro fenomeno uditivo, apparentemente disarticolato, ma in realtà definendosi proprio nell’emergere e scomparire del suono, nelle differenti apparenze dell’onda, tra rumore, sibilo, soffio e respiro. Quasi una sorta di aurora boreale del suono. Bellissimo! Concludeva la serata, come s’è detto, l’ultimo brano di Fedele, “Maja”. Di nuovo sul podio Filippo Perocco. L’intonazione della poesia di Giuliano Corti era affidata al soprano Livia Rado. Voce duttilissima, che percorre una difficile sillabazione quasi sussurrata, ma si estende poi anche in una sorta di recitar cantando che sfocia nell’accenno, appena alluso, di una melodia. La musica dice più di quanto dicano i versi. Sospesa nell’interregno tra il puro dire senza canto e la recitazione canora di paesaggi interiori di attesa. “L’anima zampilla dal sasso della vita” dice il poeta. La poesia della musica dice altro: ciò che le parole non possono dire. E si resta con quell’interrogazione che si chiede se la musica udita c’inviti a guardarci dentro o a protendersi in un altrove che non si sa, che nessuno può dire. Ammesso che la musica, da sé, possa, essa sì, dirlo. Successo calorosissimo per gli interpreti e per i compositori, festeggiatissimi, insieme al direttore.

Fiano Romano, 11 dicembre 2015