martedì 20 ottobre 2015

Un sonetto ritrovato

In un vagone della linea della Roma Viterbo, un tempo Roma Nord,  una tradotta per miserabili, viaggiando da Sacrofano a Roma, nel settembre di cinque anni fa, mi venne fatto di buttare giù le due quartine di un sonetto. Il foglio mi ritorna, tra le pagine di un libro sui linguaggi artificiali. E noto con angoscia che la situazione, in Italia, non è cambiata. Completo il sonetto, scrivendo le terzine. Eccolo:

Il  paragone gioca sui disegni
superficiali della dissezione
di  ciò che fu la molla dei congegni
prefabbricati: ora però che in zone

sempre più vaste d’altri disimpegni
prolifica una feccia di Nazione,
a che ci serve inalberare sdegni
che ne toccano solo una porzione?

Scalmanatevi quanto più volete,
sempre seduti a casa, o sullo schermo,
non scaldate che il punto in cui sedete.

Il paese si trova più malfermo,
proprio perché di fatto ne ridete,
ma niente cambia e ognuno resta fermo.


Fiano Romano, 20 ottobre 2015.

lunedì 19 ottobre 2015

Giovanni Auletta suona Skrjabin, Rachmaninov e Prokofiev

ROMATREORCHESTRA. AULA MAGNA SCUOLA DI LETTERE, FILOSOFIA, LINGUE. CONCERTO DEL PIANISTA GIOVANNI AULETTA. 

Piero Rattalino ha presentato le musiche. Con molta semplicità, secondo il suo solito. Ma il concerto offerto al pubblico dell’Università di Roma Tre dal giovane pianista napoletano Giovanni Auletta andava molto oltre quella semplicità. Tre compositori russi, Skrjabin, Rachmaninov e Prokofiev, tutti e tre con pagine del primo Novecento. La Russia arriva ultima, appena nel secolo XIX, ad arricchire la cultura europea, ma entra con una varietà e una novità di proposte da far tremare le vene e i polsi. Letteratura e musica, e poi anche la pittura, europee, dopo l’avvento di scrittori, poeti, musicisti russi di un livello vertiginoso e di una novità sconvolgente, ne sono profondamente trasformate. Il romanzo moderno non sarebbe quello che è se non ci fosse stato Dostoevskij (ma ci sono anche Tolstoj, Čekhov - anche il teatro -, Gogol, Bulgakov). E la poesia, senza Puškin, Achamatova, Pasternak, Cvetaeva, Blok? Il melodramma, il balletto senza Čajkovskij? O il teatro musicale moderno senza Musorgskij e Šostakovič? La musica moderna senza Stravinsky? la pittura senza Kandinskij? Le pagine affrontate da Auletta appartengono tutte al primo periodo dei tre compositori. La Rivoluzione è alle porte o è appena cominciata. Dei tre, il più singolare è forse Skrjabin. Nel senso che fa caso a sé. Le sue invenzioni armoniche portano alle estreme conseguenze le intuizioni di Chopin. Ma in maniera personalissima, senza quasi imitarlo, almeno nelle opere mature. Per il rinnovamento del mondo, che la sua teosofia si auspicava, Skrjabin in realtà sgretola la compagine armonica tonale, il suo cromatismo si avventura fino ai confini di un’armonia priva di un vero e proprio riferimento tonale. Ma senza l’ossessione organizzante di uno Schoenberg. La prima serie di Preludi, op. 11, è all’inizio di questo sgretolamento. Ma sono disegnati da una fantasia febbrile, esaltata. Aueletta coglie bene quest’ansia febbrile che li corrode. L’infittirsi del contrappunto è quasi delirante, ma il tocco non si lascia sviare: ed è proprio la fitta intelaiatura polifonica a risultare evidente all’ascoltatore. L’armonia è colore, costruisce timbri, ma non buttata a caso sui tasti del pianoforte, bensì come risultato evidente dell’incontro polifonico delle voci. Ne salta fuori una musica di spessore densissimo, che proprio l’intelaiatura polifonica così fitta rende esasperato, quasi asfissiante.  Il canto ne esce esalato, ma anche per così dire soffocato. Perché immerso nel magma folle di un delirio armonico. Bellissimo! Peccato che Auletta non abbia eseguito l’intera serie dei preludi.  Rachmaninov, che è indubbiamente il compositore di più richiamo, il più seducente, anche se spesso la sua seduzione è affidata a sortilegi di non sublime qualità, piuttosto furbeschi, è stato eseguito per ultimo, nonostante la cronologia avrebbe richiesto il secondo posto. Ma si capisce.  La sua musica nasce da un piacere pianistico indiscutibile, che solletica la vanità del pianista e gratifica l’emotività anche la più immediata dell’ascoltatore. Ma Auletta non si lascia travisare dall’intelligentissimo incantatore. Le Études Tableaux op. 33 sono pagine magnifiche, scritte con straordinaria pertinenza pianistica. Ed è proprio questo piacere di suonare, questo godimento del pianoforte che Auletta ha comunicato al pubblico. A questi livelli, il fascino dello strumento finisce quasi col travolgere la sapienza della scrittura musicale. E a questa voluttà strumentale Auletta giustamente si abbandona, lasciandosi travolgere e travolgendo l’ascoltatore. In mezzo stava la Sonata n. 3 op. 28 di Prokofiev. Una pagina mirabile, di una unità di concezione difficilmente scalfibile. L’esempio, il modello va ricercato indubbiamente nella Sonata di Liszt, anch’essa in un solo movimento. Ma Prokofiev vi innesta di suo un senso motorio inarrestabile, unito a una cantabilità a gola spiegata, ma non romantica, anzi nuova, moderna, dalla flessuosità armonica imprevedibile. E qui Auletta ha mostrato un’altra faccia del suo pianismo: il piacere di rendere evidente e apparentemente facile una struttura armonica e formale complicata. Forse non tutti l’hanno apprezzato per questo. O forse la naturale diffidenza per la modernità eccessiva, tipica di parte del pubblico italiano, non l’ha fatta apprezzare come si doveva. Ma è stata l’interpretazione più bella della serata. La durezza di certi passi equilibrava magnificamente la dolcezza di altri. Una lezione di pianismo moderno. E poi due bis: un meraviglioso Bach, la Sarabanda della Suite in sol maggiore, e la trascrizione pianistica di una canzone napoletana, che il napoletano Auletta ha regalo suonandola “anema e core”, ma senza mai perdere il senso dell’equilibrio anche in una pagina apparentemente marginale come questa. Successo calorosissimo, com’era giusto. A dimostrazione che i giovani pianisti italiani meriterebbero molta maggiore attenzione da parte delle istituzioni italiane, di quanta gliene concedano, soprattutto le paludate e forse un po’ troppo infagottate che vanno sulla bocca di tutti.


Fiano Romano, 19 ottobre 2015 

giovedì 8 ottobre 2015

Premio Nobel per la letteratura 2015 a Svetlana Aleksievič



Il paese degli steccati, delle barriere, dei muri, dei campi separati, dell’orticello di casa, delle corporazioni: guai a invadere la zona dell’altro o, per sbaglio, per disattenzione, pestargli i calli! In mezzo agli osanna opportunistici, alle ponderate riflessioni, e ai soliti vaniloqui dei soliti scribacchini, qualche voce esce rumorosamente dal coro a protestare che il Nobel per la letteratura è un premio letterario, che c’entra darlo a una giornalista. Si erano sentite voci simili anche per Dario Fo. Come se la letteratura fosse un orticello ben delimitato, e guai a varcarne i confini. Tutto questo per il Nobel concesso alla scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievich (ci dovremo abituare a questa traslitterazione anglofona, perché ormai sembra la norma, anche se la combinazione consonantica ch per la c di cielo non appartenga alla nostra lingua, la traslitterazione fonetica sarebbe Svjatlana Aljaksandraŭna Aleksievič, ma non esageriamo, basterebbe adottare il più semplice, e in parte fedele alla lingua della scrittrice, Svetlana Aleksievič). Si nota, però, con piacere, che le note discordi sembrano di meno che per Fo. Non ho letto niente della scrittrice e non entro dunque nel merito del premio. Mi riprometto di farlo. Ma noto in margine solo una cosa: nemmeno gli antichi erano sempre sicuri dei confini dei generi, eppure li avevano inventati. Talune tragedie di Euripide, per esempio l’Elena, l’Ifigenia tra i Tauri, l’Alcesti, sono tragedie o commedie o tragedie che accolgono elementi comici? E che cos’è il Satyricon di Petronio? e che poema è la Divina Commedia se lo stesso poeta la chiama commedia invece che tragedia, come avrebbe voluto la classificazione retorica del tempo, se invece che in volgare fosse stata scritta in latino? E i fumetti, sono letteratura? la graphic novel lo è? Solo un popolo che si è rifiutato a lungo, fino alle soglie della modernità, di accettare il paesaggio come genere alto della pittura, e intanto i Rubens, i Ruisdael, i Claude Lorrain avevano dipinto sublimi paesaggi, e, salvo Ruisdael, proprio della campagna romana, può porsi domande simili, scartabellare classificazioni superate, inalberarsi per l’invasione di territorio. Ma già: se qualche migliaio di profughi ci sembra un’invasione, figuriamoci questi scrittorucoli stranieri che ottengono un premio invano ambito dagli scrittorucoli nostrani. Che quale siano davvero scrittorucoli non lo deciderà certo un premio, ma l’intelligenza e la sensibilità dei lettori.
Fiano Romano, 8 ottobre 2015