domenica 19 novembre 2017

Massimiliano Felli, De Peccatis Nostris, dall'omega all'alfa, l'ultima indagine del Commissario Cafasso

Massimiliano Felli, De Peccatis Nostris, dall’omega all’alfa: l’ultima indagine del Commissario Cafasso, Napoli, Stamperia del Valentino, “Giallo Valentino” V, 2017, pagg. 224, € 16,00

Il romanzo chiude la tetralogia dedicata al Commissario Aniello Cafasso. E ne tira le fila. Una sorta di postfazione, dal titolo Il principe velato, un congedo dell’Autore, ne chiarisce il percorso. Quasi quattro secoli di storia napoletana – e italiana – dall’uxoricidio del Principe di Venosa a un delitto di camorra del 2021, ci strisciano sotto gli occhi, e con essi ci assalgono confitti terribili, efferati, c’inorridiscono crimini impuniti, che sembrano destini a non finire, se il fantascientifico 2021 di questa postfazione, scritta nel 2017, prende il senso, più che di un giudizio, di una constatazione. O piuttosto, di una coazione a ripetersi delle più ignobili, ma costanti, nefandezze della storia patria. Il nucleo centrale del racconto ruota, infatti, intorno alla cosiddetta Rivoluzione Napoletana del 1799 e al suo fallimento, alla sua ignobile, sanguinosissima repressione: e poi c’è ancora chi tuona per l’attività della ghigliottina durante la Rivoluzione Francese, si istituivano almeno regolari processi, prima. Perfino un conservatore come Benedetto Croce, infatti, chiamato in soccorso negli esergo iniziali del romanzo, dichiara che “mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte /.../ tutto il fiore intellettuale e morale del paese”. Non diversamente da oggi, sembra sottintendere il narratore. Forse con minore esibizione pubblica del crimine cruento, ma con identica ferocia e determinatezza. Tutti e quattro i “gialli” si rivelano, a lettura completata dell’ultimo, una interpretazione al nero della nostra storia, e i romanzi, più che galli si rivelano “noir” assai foschi. I nomi, i fatti, di crimini, stragi e misfatti di oggi o di poco addietro non sono né detti né narrati, ma il lettore non fa fatica a leggere negli orrori della repressione della Rivoluzione Napoletana altri orrori della storia più recente, e mica è detto che oggi ciò avvenga senza la responsabilità di qualche “monarca”. La struttura narrativa è più complessa, spezzata, articolata, che nei romanzi precedenti. C’è il manoscritto di un diario, che si suppone scritto da Cafasso, che appare e dispare e poi ricompare, costituisce una sorta di filo rosso della narrazione. C’è la scansione quasi teatrale, anzi tragica, da teatro greco, del racconto: un Prologo, che si svolge nel 1590, l’anno in cui Carlo Gesualdo, Principe di Venosa uccise sua moglie Maria D’Avalos e l’amante Fabrizio Carafa, una cappella sorge a memoria degli uccisi. C’è una Parodo, nel 1751, quando Raimondo di Sangro, Principe di San Severo fa completare, dall’antica, la sua Cappella. A Santa Maria della Pietà, che i napoletani chiamano Pietatella, poco lontano da San Domenico Maggiore, dove accanto c’era il palazzo di Gesualdo. Sono luoghi della Napoli rinascimentale e barocca bellissimi. Proprio a Spaccanapoli, il cuore della città, dove poi ci abitava anche Bendedetto Croce e da lui prende il nome la via. Poi abbiamo un Primo Episodio, anni 1798-1799, il Primo Stasimo, primavera del 1799, il Secondo Episodio, sempre nel 1799, seguito dal Secondo Stasimo, un Terzo Episodio, al quale segue, di rito, un Terzo Stasimo, e l’Esodo nel 2021, e infine a conclusione, Il Principe Velato, di cui si diceva, il congedo dell’Autore. La lingua appare meno mescolata tra i livelli alti e bassi della lingua letteraria, quella parlata e quella popolare, che negli altri tre, la sfera della parlata napoletana appare più nettamente separata dall’italiano toscaneggiante della narrazione, che per lo più si finge autografa del Commissario, e come stesa da un immaginario esercizio di stile da parte di qualche allievo della scuola di Basilio Puoti. Il maestro di Francesco De Sanctis. Alcune pagine restano profondamente impresse nella memoria, come quella dell’impiccagione di Mario Pagano, nel Terzo Episodio. Anzi, quell’esecuzione sembra la chiave interpretativa non solo della storia napoletana, come fu, ma della storia d’Italia tutta intera. Pagano, sul fallimento di quella rivoluzione, sembra intessere le riflessioni che saranno di Vincenzo Cuoco: “Con i nostri proclami, le nostre leggi, e in ogni articolo, ogni rigo, ogni parola della Costituzione che abbiamo promulgato, noi intendevamo parlare al popolo. Ma quale? Il popolo! Quale popolo? Non certo quello napoletano, non la plebe stracciona e fannullona che ogni giorno intravedevamo da sotto al mantice delle nostre carrozze. Le nostre concioni, degne dell’eloquenza di un Demostene, d’un Cicerone, si rivolgevano a una folla puramente ideale; ci pareva, come in sogno, di arringare la Boulè di Atene, di essere novelli Gracchi, la cui voce tuona principi d’equità e giustizia sociale dal palco tribunizio … Quanto m’ingannavo, quanto noi tutti c’ingannavamo! Me ne rendo conto solo adesso. Tardi, tardi! … Un sognatore invecchiato è più ridicolo di un eroe sopravvissuto alle proprie gesta”. A queste parole fanno eco, nel Terzo Stasimo, gli insulti della folla che lo vede salire al patibolo: “Tè, Napuliò, sient’a ‘sta pummarola, è ‘na pret’ ‘e zucchero!” dice un “guaglione” che gli scaglia addosso un pomodoro marcio. La diffidenza per la storia circola in ogni rigo, se lo stesso Cafasso, nel suo diario, può annotare: “Ohibò, risponde l’anonimo compilatore delle presenti pagine, se ormai qui a Napoli nulla sembra avere più senso, perché pretenderlo da un povero quadernetto?” E allora, sembra dirci il narratore, quale senso anche nella “mia” storia? Lo si intuiva anche nei romanzi precedenti. Il delitto nasce spesso senza ragioni, e la sua punizione non impedisce altri delitti. C’è poi un delitto più grande, un’ingiustizia secolare, forse millenaria, che affligge tutti gl uomini, da parte di tutti gli uomini su tutti gli altri uomini, un’ingiustizia impunita, della quale anzi si stenterebbe a trovare il vero colpevole. Perché poi sta qui il busillis della storia, di ogni vicenda, che il vero colpevole è sempre un altro, che la Verità, una volta che si è creduto di afferrarla, la si scopre poi altrove, e così via. E allora, chi sa, come diceva Lessing, o lo Schopenhauer, citato verso la fine del racconto, non è la Verità che conta, il trovarla, bensì il cercarla, e scrivere potrebbe essere la via di questa ricerca. L’episodio di Leopardi che si gusta un sorbetto in una famosa gelateria di Napoli, nella Carrozza di Priapo, il terzo romanzo della tetralogia, e che lui stesso svela agli avventori i numeri della smorfia per la propria gobba, numeri che poi non escono, può essere una chiave di lettura per tutti e quattro i romanzi. La scrittura svela molti segreti, ma non l’ultimo, non quello che spiega quanto accade. Quando Cafasso incontra nel carcere Pagano, prima dell’esecuzione, osserva che “… i suoi occhi salivano all’immensità di quel Cielo che neppure il peggior miscredente, in punto di morte, ha tanta forza da insistere nel considerarlo disabitato”. Ma nemmeno potranno dubitare dell’indifferenza, della dura e assoluta indifferenza, con cui la storia guarda ogni sua vittima, o più semplicemente, ogni individuo, che lui sì, la abita. Ma con che stile si racconta la mancanza di senso della storia, anzi di qualunque storia? E’ qui che la lettura del romanzo di Felli si fa stimolante. Un lungo, quanto vacuo dibattito letterario discute da qualche tempo in Italia se lo stile del romanzo moderno debba essere paratattico o richieda. Invece, una costruzione sintattica complessa, che preveda anche frasi subordinate, periodi dalla costruzione intricata. E’ una questione mal posta. Come se lo stile “moderno” debba ubbidire a una prescrizione. La lingua moderna è moderna proprio per la sua libertà: prevede sia la paratassi sia una costruzione più articolata. Ed è esattamente quello che fa Massimiliano Felli. La struttura portante è generalmente paratattica, ma non sono evitate costruzioni d’intricata complessità. La varietà lessicale degli altri tre romanzi è qui sacrificata a una ricostruzione dell’italiano medio parlato e scritto dall’italiano medio, ma anche aristocratico, del primo Ottocento. In questa lingua è scritto il diario di Cafasso, una lingua molto ipotetica e fantasiosa, per fortuna, proprio perché si tratta di un’invenzione di scrittura e non della piatta imitazione di una scrittura già sperimentata nel passato . Il dialetto è per lo più riservato ai dialoghi, quando intervengono figure popolari. Ma, come spesso gli aristocratici, parla napoletano anche Re Ferdinando: “Comm ‘e vieste ‘e vieste, fujeno sempe”. Ma non mancano termini dialettali anche nel suo volgare, per esempio quando nomina i “caciocavalli” a figurare gli impiccati. Insomma, si riconferma, anche in questo quarto romanzo, la varietà stilistica della prosa narrativa, l’uso del dialetto non già come pennellata di colore locale, bensì come elemento strutturale della lingua, come recipiente comune della vulgata italiana, in ciò non diversa a Napoli che a Roma, a Torino o a Milano, dovunque una mescolanza di toscano e di parlata locale. Il dettato che ne risulta è una lingua variegatissima e musicalissima. Del resto, anche nelle pagine che apparentemente appaiono scritte nel più puro italiano letterario, a volerle leggere con inflessione partenopea se ne coglierebbe lo spirito. Lo denuncia la costruzione sintattica, per esempio gli anacoluti, l’anticipazione dell’oggetto, e altre figure della parlata napoletana, senza però che con questo la lingua narrativa cessi di essere lingua italiana. L’esempio che mi viene in mente per un confronto, di un’operazione simile, è l’Adalgisa di Gadda, in cui la parlata milanese è assorbita nel dettato italiano del racconto. Proprio quest’abile costruzione della lingua del racconto, anzi, fa superare al romanzo i limite del genere, pur rispettandone le regole. E’ insomma la scrittura a rendere il romanzo giallo un romanzo e basta, senza però che per questo cessi di essere un racconto poliziesco. Il confronto che mi viene più naturale sono i film di Hitchcock: certamente film polizieschi, ma la cui struttura narrativa e la cui cura dell’immagine, dei dialoghi, della recitazione, il cui uso sbalorditivo della macchina da presa, li rendi esteticamente film di altissimo livello, non contro le regole del genere, ma innalzando il genere a elaborazione alta, consapevole, tipica di ogni opera che voglia porsi come esempio individuale di elaborazione narrativa, drammatica, poetica. Non ultima gratificazione regalata dalla lettura di questo romanzo è la restituzione, vivissima, indimenticabile, di un momento decisivo della nostra storia nazionale. Il fallimento della Rivoluzione Napoletana del 1799 ci si rivela come un sottotesto, o piuttosto una struttura permanente di tutta la nostra storia, ne spiega i tentativi sempre abortiti di rinnovamento del paese. Vengono in mente le pagine finali del Barone rampante di Calvino, anche lì si parla di una rivoluzione fallita. Forse, ancora oggi, noi italiani, restiamo bloccati a quel fallimento di una rivoluzione che avrebbe dovuto cambiarci, al fallimento di qualunque rivoluzione si tenti di scatenare nel nostro paese. Sarebbe successo, infatti, di nuovo a Roma nel 1849. E senza volere offendere la memoria di nessuno, anche perché personalmente me ne sento troppo coinvolto, ma forse dovremmo interpretare come fallita anche la Resistenza, e ancora inattuata la scrittura della nostra Costituzione repubblicana, anch’esse volontà di una minoranza e non di tutto un popolo. Spero proprio di no, ma i momenti che viviamo sono tremendamente bui. E mi spaventa, mi spaventa da morire, che, se ci si riflette, l’unica rivoluzione riuscita della nostra storia sia stata, probabilmente, quella fascista del 1922. Questo romanzo vorrei interpretarlo come uno scongiuro, come un atto di scaramanzia. In fondo, Cafasso se lo augura: la morte di Mario Pagano, il suo sacrificio, devono condurre a una società migliore. O saremo condannati a restare per sempre, sconfitti, dannati, ai margini delle bocche dell’Averno. Dalle quali nessun Virgilio – leggi: nessun poeta – potrà salvarci.

Fiano Romano, 19 novembre 2017

giovedì 9 novembre 2017

Incomprensione della musica moderna

Incomprensione della musica moderna


Le seguenti riflessioni fanno seguito a simili riflessioni di qualche tempo fa sull’incomprensione e sulla diffidenza, da parte degli italiani, nei confronti dell’arte moderna, per non dire sul loro vero e proprio rifiuto di tutto ciò ch’è moderno e, in ultima analisi, di ogni forma di cambiamento, non solo nelle arti. Questa volta rifletto sul rifiuto della musica moderna, per non dire addirittura sullo scandalo, sul disgusto e, nei casi più radicali, sulla negazione che sia musica. Prendo lo spunto da due messaggi inviati a radio3 da due ascoltatori: uno, dopo l’ascolto del Concerto per violino di Stravinski, l’altra sera, da Torino, per la stagione sinfonica dell’orchestra della RAI, e l’altro questa mattina, dopo l’ascolto della Notte Trasfigurata (Verklärte Nacht) di Schoenberg, in una bellissima trascrizione per Trio di pianoforte, violino e violoncello, trasmesso, sempre su radio3, durante il Concerto del mattino,. Sono, come è ormai riconosciuto, due capolavori del Novecento, la pagina schoenberghiana nemmeno poi tanto sconvolgente, dal punto di vista armonico, perché ancora tonale, sia pure di una tonalità che esaspera l’irrequietezza cromatica, come molte altre pagine del tardo Ottocento e del primo Novecento. Ma probabilmente il solo nome di Schoenberg viene subito accostato dall’ascoltatore medio alle dissonanze della scrittura dodecafonica. E spesso la dissonanza è accostata alla dodecafonia, sentita come un suo sinonimo, la consonanza riconosciuta invece come tipica della tonalità, anche se non è vero. E’, anzi, una idea assai poco musicale. Presuppone che i compositori del passato non abbiano mai fatto uso di dissonanze irrisolte e che la tonalità non le preveda. Basterebbero, invece, per esempio, Bach e Beethoven a smentire questa insulsa idea. Uno dei bellissimi Duetti per tastiera di Bach, dal terzo libro della Klavierübung, dopo avere impostato la tonalità nella prima battuta, mi minore, attacca un soggetto di seconde e settime che procede fino alla risoluzione finale. La Grande Fuga op. 133 di Beethoven è una violentissima aggressione dissonante. Una volta feci l’esperimento di farla ascoltare a un amico che non la conosceva, senza dirgli che si trattava di Beethoven. Conoscevo la sua avversione per la musica del Novecento (chiamarla “contemporanea” è un paradosso: Webern compose le sue Bagatelle per quartetto d’archi più di un secolo fa). Dopo poche battute l’amico scattò furibondo: “Togli questa porcheria moderna dal piatto del giradischi!” (Quando feci l’esperimento i cd non esistevano ancora). Con calma osservai: “E’ Beethoven”. Rimase senza parole. Accennò qualche timida, balbettante spiegazione: “Uno studio, sembra, un abbozzo, non un’opera seria”. “Doveva essere il finale di un quartetto”, replicai: “l’op. 130, ma poi l’editore consigliò Beethoven di pubblicarlo separato”. Non disse niente, borbottò solo: “Resta una musica brutta, anzi non è musica”. Ecco la condanna secca di una musica che non accarezzi l’orecchio o che non corrisponda alle confortanti, perché abituali, attese melodiche e armoniche dell’ascoltatore. Il concerto stravinskiano fu definito dall’ascoltatore “fastidioso, insopportabile, a dispetto della fama del compositore”. Il sestettto schoenberghiano “urtante, inascoltabile”. Sarebbe facile confutare il giudizio dei due ascoltatori dimostrando che invece si tratta di due pagine straordinariamente riuscite. Ma non si capirebbe da dove nasca il rifiuto. Entrambi gli ascoltatori associano infatti all’idea di musica, l’idea di melodia accattivante, armonia gradevole, riposante. E’ la faccia musicale dell’idea che chiede all’arte di essere bella. Un’idea diffusa, dominante almeno dal tardo Settecento, e dalla concezione neoclassica dell’arte. Il Barocco la ignora, e così pure il Romanticismo. Ma resta nel sentire comune. Come l’idea che la musica esprima sentimenti, e in particolare i sentimenti del compositore. Nemmeno i compositori romantici lo pensano: pensano semmai che la pagina scritta li esprima, ma non necessariamente quelli del compositore. Non lo fa, per esempio, nel teatro, dove i sentimenti sono quelli dei personaggi. Schumann, il più romantico, forse, dei compositori, non afferma mai che la musica esprima i suoi sentimenti, ma s’inventa più personaggi, Florestano, Eusebio, Maestro Raro, che incarnino diversi aspetti del sentimento o del pensiero, e quando non ricorre ai personaggi insiste sulla oggettività della pagina, che non corrisponde al sentire del compositore, ma a quello che il compositore vuole far sentire all’ascoltatore come sentimento della pagina. Non è questo il luogo per discutere dell’estetica e della poetica di Schumann (sono due cose diverse), ma è solo un esempio, per dimostrare che anche il più romantico dei compositori non è così ingenuo da identificare il sentimento di un’opera con il sentimento dell’autore. Ma ritorniamo al punto di partenza. Non è dunque chiarificatore contrapporre a chi nega il valore di una musica il dato oggettivo che quella musica è scritta bene, è anzi magistrale. Perché l’ascoltatore non capisce, e giustamente non capisce, in quanto i suoi riferimenti musicali non sono quelli della musica che rifiuta. Sotto questo aspetto, negandone il valore, giudicandola “fastidiosa”, coglie perfettamente l’estraneità di quella musica ai modelli musicali ch’egli ritiene in assoluto i modelli ideali di ogni musica che possa essere chiamata musica. Credendo di esprime un giudizio che neghi la validità della musica che ascolta, l’ascoltatore, che chiameremo nostalgico, coglie bene il senso nuovo di quella musica, che gli appare giustamente “fastidiosa” perché appunto è una musica che non vuole accarezzare l’orecchio. E ne coglie così la natura assai meglio dell’entusiasta sostenitore della nuova musica che si limiti ad apprezzamenti interiettivi, bella! straordinaria! invece di riflettere sui fini che tale musica si propone, che non sono certo quelli di mandarlo in estasi per la bellezza melodica o la gradevolezza armonica, bensì di urtarlo, appunto, infastidirlo, con un’esperienza musicale insolita, che contrasti la sua idea di musica consolatrice, e gli proponga lacerazioni, inquietudini, catastrofi, o sarcasmi, deliri, fantasie distruttive. Insomma, come spesso accade, il rifiuto, certamente reazionario, e dunque sbagliato, coglie, però, la natura della cosa rifiutata assai più di un elogio incondizionato e poco riflessivo. Hai ragione, bisogna dire a quest’ascoltatore, questa è musica è fastidiosa, perché non vuole essere bella, ha messo in cantina il bello che ti sembra l’unico possibile d’ogni musica. Tu cerchi una melodia, un’armonia di un’epoca in cui il rumore quotidiano più sgradevole era lo zoccolo del cavallo che batteva sul selciato. Oggi ci sono i treni, le automobili, le motociclette. E sono questi i suoni con cui il musicista deve confrontarsi. Per rielaborarli o per opporvi qualcosa d’altro. Le cannonate napoleoniche su Vienna fecero perdere a Beethoven definitivamente il suo udito. L’esperienza è rivissuta nella Nona Sinfonia. L’inciso tematico dello scherzo è affidato ai soli timpani. Per l’ascoltatore dell’epoca, puro rumore. Ma già prima, cinque colpi di timpano introducono la musica del Concerto per violino. Il violino è forse lo strumento più melodico che ci sia. Ma Beethoven che fa? Costruisce il suo concerto per violino su una cellula ritmica: cinque colpi di timpano. Beethoven non nega il canto del violino, compone anzi melodie sublimi, su quei cinque colpi, e nell’adagio sembra aprire un paradiso di struggente dolcezza. Ma sempre sulla base di quei cinque colpi. Insomma, la musica dei grandi compositori, già prima di Stravinsky, già prima di Schoenberg, si confronta con il dolore, con l’inquietudine, la lacerazione della vita. Naturalmente, espressa attraverso l’irrequietezza, la lacerazione della forma musicale. Quanto al Concerto per violino di Stravinsky, pagina tra le sublimi del Novecento, e che io amo particolarmente, a chi sa percepirne gli echi profondi, lontani, sarebbe impensabile senza le inquietudini della scrittura bachiana, così come anche gli altri due straordinari concerti novecenteschi: quello di Bartók e quello di Berg. Non so quale sia il più grande, il più “bello”: sono tre straordinari ritratti della nostra fugacità terrena. Ci sono anche altri, bellissimi, concerti. Ma questi tre sono particolari. Hanno tutti e tre qualcosa di mistico. Ma non nel senso che fanno pensare a una realtà ultraterrena, bensì in quello che davvero traducono in musica la fugacità, l’inafferrabilità della vita, l’essere noi uomini, come dicevano gli antichi greci, creature di un giorno, effimeri. Ma proprio questa fugacità, questa inafferrabilità della vita, si fa perenne, immutabile, intramontabile, nella chiarezza di una forma. E’ la forma, la cosa che dura. Sia anche la forma del fugace, dell’inafferrabile. Per la memoria di un angelo, scrive Berg. E vengono in mente i versi, altissimi, con cui Petrarca attacca I Trionfi: Nel tempo che rinnova i miei sospiri / Per la dolce memoria di quel giorno ... L’amore, la castità, la morte, la fama, il tempo, l’eternità, si succedono per approdare a Dio, ma di fatto, e non sarebbe altrimenti poesia del Petrarca, per ribadire la caducità di tutte le cose. Il secondo verso, Per la dolce memoria di quel giorno, fu da Bejart posto a titolo di un suo bellissimo balletto che celebrava il sesto centenario della morte di Petrarca. E il discorso così si richiude. L’idea che l’arte sia la rappresentazione del bello fu una breve parentesi. Aristotele la vuole imitazione della realtà, nel Medio Evo la si crede imitazione dell’operare di Dio, Tasso la definisce maestra del vero, e al vero ritornano i romantici. L’arte è il nostro confrontarci con il mondo, con la nostra esperienza del mondo. Ma di questo rifletteremo un’altra volta. Qui, ci basta avere instillato il dubbio che il bello non sia, come troppi pensano, la vera sostanza dell’arte, la sua natura, il ritorno all’ordine, all’armonia. In un bellissimo aforisma dei Minima Moralia Adorno scrive: “L’arte ristabilisce ogni volta il caos”. Guardate Guernica, ascoltate Un sopravvissuto di Varsavia. Come dargli torto? O se quelle opere vi paiono troppo esplicite. Guardate una qualsiasi delle tele di Fautrier, ascoltate la Sagra della Primavera, o Pli selon pli. Quanto vi era parso inesplicabile del mondo non viene affatto spiegato, ma viene detto perché è inesplicabile.

Fiano Romano, 9 novembre 2017