giovedì 28 luglio 2016

Luigi Cerina, La Nave Nera



Anonimous (Luigi Cerina), La nave nera, Viareggio, Edizioni Luigi Cerina / Macerata, Edizioni Simple, 2016, pp. 212, € 15,00
Intimacy, di Patrice Chéreau, comincia con una scena di sesso esplicito, ardente, integrale, tra un uomo e una donna, e dura circa 20 minuti (in Italia la distribuzione l’ha accorciata). Ma non è un film porno. Una donna e un uomo s’incontrano, a Londra, ogni mercoledì per fare sesso, senza sapere niente l’uno dell’altra, ma quando lui vuole approfondire la conoscenza e stabilire una relazione, lei rifiuta e si eclissa.  Plata quemada (solfi bruciati) di Marcelo Piñeyro, dal bellissimo romanzo dello scrittore argentino Ricardo Piglia, racconta di una banda criminale che effettua rapine, ammazzando i rapinati, e il giovane capo della banda è omosessuale. Molte, e dettagliate, le scene di sesso omoerotico. Ma non è un film gay, e tanto meno porno, anche se la distribuzione italiana (e solo quella!) ha inserito il video nella collana “queer”.  Potrei continuare. Ma finché il moralismo perbenista posttridentino che affligge il gusto e la cultura degli italiani continuerà a dominare quasi tutta la cultura italiana, e soprattutto la programmazione, l’amministrazione e il commercio della cultura, agli italiani sarà vietato di gustare come cinema d’arte, alta letteratura, gran parte di ciò che si è scritto, si scrive e si filma nel mondo. Ricordo che al liceo ci proibirono di acquistare un’edizione integrale del Decameron e dell’Orlando Furioso. Naturalmente tutti noi studenti disobbedimmo. In quegli anni si sconsigliava anche la lettura delle Affinità elettive di Goethe, e, naturalmente, i Dialoghi di Platone. Certi dialoghi, almeno. Perché poi bisognava sceglierne comunque uno da leggere nel secondo liceo classico, come testo di greco sul quale esercitarsi. “Ma con cautele, con cautela”, raccomandava un professore di greco, che per fortuna non insegnava nella mia classe, ma in un’altra sezione. Anche il romanzo di Luigi Cerina, La Nave Nera, comincia, come Intimacy, raccontando una scena di sesso. Ma tra tre ragazzi, in un villaggio della Scozia. Nemmeno il romanzo di Cerina, però, è un romanzo porno. O lo sono, allora, anche i romanzi di Moravia, di Lawrence, di Miller, e come accennato sopra, lo sono Boccaccio, e Chaucer, Rabelais, Ariosto, Aretino.  Lo sono due straordinari classici, poco conosciuti, come I Neoplatonici di Luigi Settembrini (sì, lui, uno dei Padri della Patria) e il Teleny di Osca Wilde. Il sesso domina molte pagine del romanzo di Cerina, anzi le pervade, sembra esserne l’argomento principale. Un sesso spesso estremo, criminale, distruttore. E anche politically incorrect, il protagonista, Stephen, ha 17 anni. Il nome credo che non sia casuale. Si pensa subito a Joyce, a Portrait of the Artist as a Young Man, ma anche a Ulysses. E anche La Nave Nera è un romanzo di formazione, di iniziazione alla vita. Che però ha la struttura di un romanzo di avventure, alla Conrad, o d’intricati intrecci familiari, come i romanzi di una Austin, delle sorelle Brontë. Non a caso la nave corsara è una nave inglese.  La vicenda racconta una serie di arrembaggi, la crudele eliminazione dell’intero equipaggio delle navi assalite; terribile la tortura, anche sessuale, subita da due nobili donne, madre e figlia, e racconta, però, anche i complessi rapporti di attrazione e repulsione tra gli uomini dell’equipaggio, le loro orge sessuali, la loro psicologia solo apparentemente primitiva, il sadismo, il masochismo che complica i loro rapporti. Ma tutti, nessuno escluso, si sentono dannati, sentono di appartenere all’inferno, e l’inferno è la Nave Nera. Tanto più dannati, quanto ciascuno di loro è di una bellezza sconvolgente, ma proprio questa bellezza sembra far parte della dannazione. Quasi all’inizio del racconto, la nave, uscita malconcia da una tempesta, si rifugia nel piccolo porto di un borgo scozzese, e il bellissimo, austero Capitano della Nave, incrocia dal ponte lo sguardo di un giovane sul molo, Stephen, e ne resta catturato. Anche Stephen ne resta conquistato. E’ l’inizio della loro appassionata, ma terribile,storia d’amore. Stephen cerca invano di penetrare il segreto che sembra tormentosamente racchiudere dentro di sé il Capitano.  Ma è proprio questo terreno sconosciuto dell’uomo amato ad accrescere e rendere ancora più assoluto il suo amore. Lo scioglimento del segreto, e della vicenda – Stephen rischia, tra l’altro, di essere ucciso dal Primo Ufficiale e nota con angoscia che il Capitano sembra non muovere un dito, assentarsi, lasciare che gli eventi precipitino. Si pensa a Billy Budd, il capolavoro di Melville.  Ma lo scioglimento volge invece verso un tormentato lieto fine, attraverso una serie spericolata, conturbante, sorprendente, di agnizioni. Ogni idea di morale, di rispetto delle convenzioni, è stracciata. Il male, la dannazione, sembrano, alla fine, invece, proprio l’idea di una morale, l’imposizione di convenzioni che opprimono la libertà della natura animale dell’uomo. L’inferno non è accettarla, questa libertà, ma guardarvi dentro, scrutarne gli abissi.  E quando se ne esce, allora, la morale non è una legge, imposta dall’esterno, da chi sa che cosa, da chi sa chi, ma, appunto il rispetto della natura di ciascuno, la libertà di darsi e di prendersi, senza porre limiti né al dare né al prendere.  Viene in mente una folgorante fusée di Baudelaire: “L’amour peut naître d’un sentiment noble, le goût de la prostitution; mais il est bientôt corrompu par le goût de la propriété”. La serie di agnizioni potrebbe far pensare a come si sciolgono tanti romanzi d’avventura del XIX secolo, ma anche allo scioglimento di una commedia solo apparentemente frivola come The Importance of Being Earnest di Oscar Wilde. Anche gli smarrimenti, ritrovamenti, riconoscimenti. Algernon, uno dei personaggi della commedia, definisce, come meglio non si potrebbe, che cosa debba intendersi per libertà di giudizio nei confronti della realtà: “La verità, pura lo è di rado e semplice, mai”. Non è possibile, qui, rivelare la soluzione dell’intreccio di agnizione, perché si rovinerebbe al lettore la sorpresa, che fa parte della costruzione della trama. Come in ogni romanzo d’avventura che si rispetti.  Il lettore potrebbe rimproverarmi, se mai, a questo punto, di non avere mai nominato il Divino Marchese. Ma l’ho fatto apposta. Primo, perché quando si leggono racconti di sesso estremo, si pensa subito al Marchese De Sade; secondo, perché porterebbe fuori strada il lettore. Qui non si tratta di dimostrare una tesi, o di mostrare gli abissi umani. Qui si tratta di scandagliare, semplicemente, l’uomo, tutto l’uomo, nel bene e nel male, di scavalcare anzi la classificazione di bene e di male, per affrontare quello che Wagner chiamerebbe il “puramente umano”, e Nietzsche l’antropologia dell’uomo, così come viene definendosi nella Genealogia della morale. Non a caso Stephen sembra prefigurare Darwin. Sale sulla Nave Nera per studiare piante e animali del mondo, e disegnare, fissare sulla carta i profili degli uomini che abitano la Nave Nera. Nei loro abissi scopre i propri, di abissi, soprattutto verso la fine. Ma che poi abbia la forza di ritrarsi rivela più che la sua tempra morale, la natura di osservatore, di scienziato che lo domina. Che partecipi alle passioni di tutti fa parte del suo stare al mondo come esemplare della specie umana, Ma che quelle passioni, poi, sia in grado di osservarle, e studiarle, anche in sé stesso, fa parte della sua mente di scienziato e di artista. Solo una cultura fastidiosamente e ancora ossessivamente crociana, che separa l’emozione dalla razionalità, continua in Italia a separare le due attività, a credere che il cervello di uno scienziato non possa essere anche il cervello di un artista. Su questa divisione di campo il cattolicesimo poi ci mette il suo carico da undici. E la cultura italiana è servita. Servita anche la sua mediocre Scuola Cattolica.
Fiano Romano, 28 luglio 2016

domenica 24 luglio 2016

Marco Minà, italians



Marco Minà, guitar, italians. Musiche di Paganini, Giuliani, Castelnuovo-Tedesco, Bettinelli, e una rielaborazione dell’Inno d’Italia scritta dallo stesso Minà. guitarevolution. office4music.

La chitarra, strumento strapazzatissimo da tutti coloro che pensano basti strappare qualche accordo, e canticchiarvi sopra senza voce, è invece uno strumento nobile e più antico di quanto si pensi.  Non solo. Ma si è adattata a tutti i luoghi e le culture in cui si è insediata e inserita. E’ uno strumento a corde pizzicate, come il liuto e come il clavicembalo e la spinetta. Non introduco a caso questi confronti. La terminologia della classificazione italiana degli strumenti è, infatti, fuorviante. Il clavicembalo è definito strumento a tastiera. Ma con l’organo, il pianoforte e il clavicordo, ha pochissime affinità, se si esclude l’uso di una tastiera per individuare il suono da far vibrare. Ma mentre sul liuto e sulla chitarra, strumenti a corde, le corde sono pizzicate direttamente dalle dita, sul clavicembalo il pizzico è affidato ai saltarelli, e al loro plettro, la tastiera dell’organo apre le canne da cui escono i suoni, ed è pertanto uno strumento a fiato, il pianoforte, infine, e il clavicordo, usano la tastiera per muovere dei martelletti che percuotono le corde, e potrebbero considerarsi strumenti a percussione, come lo xilofono, per esempio. Non è qui il caso di entrare nei particolari. Ma la vaghezza di questa terminologia crea qualche problema quando si passa da una lingua all’altra. Gli italiani, per esempio, intendono per strumenti a corda soprattutto, se non esclusivamente, quelli che chiamano archi. Così un’opera come il Concerto per corde, percussioni e celesta di Béla Bartók in italiano diventa Concerto per archi, celesta e percussioni. Si trascura il fatto che tra le code Bartók preveda anche l’uso di un’arpa. Nel titolo italiano, fuorviante, dell’arpa non resta invece nessuna traccia. Non è il solo caso di approssimazione fallace di titoli tradotti in italiano da altre lingue. Il più famoso, e davvero deviante, è quello che traduce il Wohltemperierte Klavier di Johann Sebastian Bach con Clavicembalo ben temperato. La cattiva traduzione è dovuta a una prima cattiva traduzione francese, da cui si è tratta la traduzione in italiano. Klavier in tedesco significa tastiera e non clavicembalo, clavicembalo si dice Cembalo, dunque il titolo significa La tastiera ben temperata. Ciò taglia la testa a tante inutili controversie sull’uso dello strumento adatto. Per Bach, qualsiasi strumento che si serva di una tastiera. Anzi, dato il limite rispettato di quattro ottave, è probabile che pensasse al clavicordo, che appunto non supera le quattro ottave. Era lo strumento di studio, e l’opera è soprattutto un’opera di studio. Non solo, ma essendo il clavicordo uno strumento sensibile al tocco, come il pianoforte, è probabile che Bach lo preferisse proprio per questa ragione. E’ del resto una leggenda metropolitana che Bach non amasse il pianoforte. Non amava i primi esemplari di Cristofori. Ma quando Sielber a Berlino gli fece conoscere i suoi nuovi modelli, ne ordinò quattro che si fece trasportare a Lipsia, per la sua personale collezioni di strumenti. Ed è probabile che li usasse per i concerti nel Café Zimmermann, luogo che sarebbe diventato il Gewandhaus. Tutto questo per riordinare un po’ le idee intorno all’uso degli strumenti, dal barocco al romanticismo.  E proprio dal romanticismo parte Marco Minà, che riunisce in questo bel cd musiche da Paganini al Novecento. Non c’è ancora l’uso “popolare” della chitarra, essa è ancora uno strumento polifonico. La tradizione italiana mette in risalto più la costruzione di melodie che l’intricarsi dei ritmi, come avviene nella tradizione spagnola. Ma sarebbe fuorviante intendere la cantabilità per esteriore sfoggio melodico. Paganini, oltre che virtuoso di violino lo era anche della chitarra. Come prima di lui Boccherini, virtuoso di violoncello, ma che spesso associa nei suoi quintetti una chitarra. Da questo quadro storico emergono, tuttavia, caratteri comuni di chiarezza formale, pulizia della scrittura contrappuntistica, mai esasperata, nemmeno nelle pagine più contortamente moderne di Castelnuovo-Tedesco e Bettinelli. L’ascoltatore può seguire senza difficoltà il formarsi delle melodie, il loro intrecciarsi, il procedere fluido delle armonie. Il canto è quasi spudoratamente esibito da Paganini. Più introverso in Giuliani. Si avvertono gli influssi di una cultura controllata e severa come quella viennese. Sospeso tra la crisi delle forme romantiche e l’inseguimento di nuovi modelli formali, Castelnuovo-Tedesco si prefigge tuttavia di non rinunciare mai alla gradevolezza dell’ascolto, assolutamente delizioso e godibile il suo Tempo di minuetto. Più intricato Bettinelli, più asciutte le sinfonie contrappuntistiche, meno abituale l’armonia. La secchezza, la spigolosità delle poetiche novecentesche ispira pagine più ascetiche, alla ricerca di una nuova cantabilità che non risulti prevedibile. Ma è mirabile la proprietà strumentale della scrittura, nessun punto che appaia nemico della chitarra. Una sorpresa assai intrigante la rielaborazione di Fratelli d’Italia scritta dallo stesso Minà. La musica, confessiamolo, banalotta, del nostro inno nazionale, sembra acquistare qui una nobiltà che l’associa ad altre sfere, meno popolari, della scrittura musicale. Proprio l’asciuttezza del fraseggiare, la precisione del contrappunto, la morbidezza dell’armonia, conferiscono alle letture di Marco Minà una sorta di rivelazione del senso di queste musiche. Liberate dagli orpelli e dagli esibizionismi virtuosistici che ne deturpano la chiarezza ed eleganza stilistica, riemergono con la freschezza di musiche godibili non solo per la bellezza del canto, ma anche, e forse soprattutto, per l’intelligenza e sobrietà della scrittura. Un capitolo imprescindibile della musica per chitarra italiana. L’Inno d’Italia finisce così per costituirne, più che la coda, il simbolo d’identità.
Fiano Romano, 24 luglio 2016

sabato 23 luglio 2016

Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco. Penelope. Il poema del non ritorno



Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco, Penelope, Il poema del non ritorno, Postfazione di Giovanni Tesio,Torino, Edizione d’arte di Enrica Dorna, 2016, pp. 56, € 14

Il rapporto degli scrittori italiani con i classici antichi, esauritasi la carica innovativa dell’Umanesimo, e poi del Rinascimento, fino alla frenesia linguistica di Giambattista Marino, non è mai stato della stessa libertà con cui scrittori francesi, ma sopratutto spagnoli e inglesi, e poi tedeschi, hanno affrontato quello sterminato, e pur circoscritto, territorio. Una rappresentazione spregiudicata e assai poco filologica dell’antico come quella del Troilo e Cressida o dell’Antonio e Cleopatra shakespeariani da noi sarebbe stata impensabile.  Ma perfino la libertà di una Bérénice risulterebbe estranea a un drammaturgo italiano. Neppure uno scrittore dalla fantasia vivace come Metastasio, prendendo spunto da un dramma “eroico” di Corneille, il bellissimo Don Sanche d’Aragon, riesce a svincolarsi dall’obbligo di rivestirlo di pepli classici già winckelmanniani, nel Demetrio. Una rivisitazione tutta moderna del mito, come nelle Grazie foscoliane, non ha seguito, e il poemetto resta, inoltre, non a caso incompiuto. C’è Carducci, si dirà, e le Odi barbare sono indubbiamente un’invenzione geniale, una sorta di operazione, che ripercorre i passi di quella compiuta da Orazio con i lirici greci. Carducci aveva indovinato la via. Ma non aveva poi, con uguale coraggio, adottato una rivoluzione speculare del linguaggio. Niente di paragonabile, comunque, alle odi di un Keats, agli slanci di uno Shelley, ai folgoranti e modernissimi tratti di penna della Citera baudelairiana. Sarebbero venuti Mallarmé e Valéry. E gli stessi greci Kavafis e Seferis. Niente in Italia di simile, nemmeno le pur ammirevoli figurazioni dannunziane. Che cos’è che ci frena? Quale timore reverenziale trattiene gli scrittori e poeti italiani al di qua dell’invenzione di un Eliot, di un Pound, per arrestarsi sulle soglie di un accademismo appena verniciato di attualità? L’idea, può darsi, di rispettare la collocazione storica. Una sorta d’inconscio, ma poi non troppo, e ingombrante storicismo. O un malinteso senso dell’adeguatezza e della verisimiglianza. Lo stesso che indigna gran parte del pubblico italiano alle rappresentazioni moderne dei classici. E non parliamo poi dei melodrammi, oggi in tutto il mondo rappresentati come teatro attuale, e quasi solo in Italia fossilizzati nel rispetto feticistico di una supposta ambientazione autentica. E’ scritto nel libretto, è la risposta usuale.  E magari , invece, il compositore, che so, un Gounod, lui se ne infischia della Germania rinascimentale e colloca quasi all’inizio dell’azione, nel Faust, un bellissimo valzer, con la folla che canta “ Valsons! Valsons!” Molto Francoforte del XVI secolo, non è vero? Il punto credo che sia proprio questo: l’incapacità, o piuttosto il rifiuto, da parte degli italiani, di sentire l’antico come contemporaneo. Ma questo invece hanno fatto e fanno in tutto il mondo i poeti. Ciò richiederebbe comunque una più ampia digressione. La lunga premessa, invece, per spiegare il senso d’aria fresca, di libertà fantastica, che provoca la lettura di questo poemetto di Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco (Torino, Edizioni l’Arte di Enrica Dorna, 2016, pp. 56, € 14,00). Si tratta niente meno di Penelope, la moglie fedele di Ulisse. E vengono perfino evocati all’inizio, nell’intestazione, i mani di Eliot e di Dante: “né il debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta” trattenne Ulisse da riprendere un viaggio nel mare aperto. Questa volta senza ritorno. Ed è il sottotitolo del poemetto: “Penelope. Il poema del non ritorno”. Il tema è proprio questo: il distacco, l’assenza, il non ritorno. Non importa se la fine di un amore, un abbandono, un viaggio, la morte. “La tua pelle scurita dal sole, la mia / sbiancata dall’insonnia ... / Niente restava di quei giovani che eravamo, / come quel tempo fosse di altri. / Ci guardavamo alieni, senza vederci ...” Ulisse sembra sfuggirle, e fuggirla. E, alla fine: “Seduto sullo scoglio invocavi il dio del mare - / ... / Hai visto la mia ombra allungarsi al tuo / fianco – non hai girato il capo. / Parti di nuovo? ti ho chiesto”.  Certo, bisogna avere assimilato a lungo la poesia struggente dell’Odissea, avere letto più volte i versi dell’isola di Calipso, la nostalgia dell’eroe, l’angoscia della dea all’annuncio di Hermes (lo rivedremo nel poemetto di Cardona), per concentrare in una domanda semplice, direi quotidiana, l’angoscia dell’abbandono: Parti di nuovo?
I gesti della vita quotidiana si fanno estranei, irriconoscibili, oppure premonitori. Agghindarsi i capelli, indossare una cinta. L’uomo che fu, è ancora, suo marito, le gira intorno come uno straniero, Oppure è lei stessa straniera all’amato, se ancora può chiamarlo amato, chi già sospetta che le toglierà il “debito amore”. O forse non sa più darglielo: “è l’inganno che ami, non il conoscere”. Le “orde degli anni” li hanno mutati. Eppure l’unica cosa che non è mutata è proprio l’attesa, di un ritorno, di una confidenza perduta. E’ quasi meglio la certezza della morte, del non ritorno, almeno si sa che non c’è spazio per nessun’attesa. Ma è così? “La morte era per te un antico vizio , / o magari un gioco d’azzardo – “ Se fosse morte, se ci fosse certezza della morte. Ma c’è, inoltre, l’orrore dello sterminio dei pretendenti: “Non credermi acquietata. / Rassegnata nemmeno. / Li hai uccisi tutti. Nessun uomo / è rimasto sull’isola”. Omero indugia sull’incertezza del destino di Ulisse nella mente di Penelope. Ma qui, adesso, il gioco d’azzardo si ripete. “Scrivo per te. Scrivo per il poema del Non / Ritorno perché non c’è fine al Non Ritorno”.  E si ripete, dopo le grida di una strage, le mura del palazzo lordate di sangue, si ripete non già il gesto del riconoscimento che scioglie le ginocchia, ma la distanza di desideri divergenti, di attese non reciproche, lui del mare aperto, lei delle notti perdute, come se di nuovo si vedesse costretta a tessere e distessere la tela nuziale. Come se lo sterminio fosse la vocazione dell’uomo, la premonizione del distacco quello della donna.
Poi arriva un mercante da Knosso. “E tu chi hai aspettato per venti anni, /potnia basilissa? mi chiede / Occhichiaridilupo. / Nessuno, gli rispondo e rido / nascondendo il capo nello scialle”. Poi Occhichiaridilupo parte. “Vi lega un amore di acqua e di cielo, di tempeste / e naufragi, e attese e pensieri raccolti dalle stelle / come solo agli uccelli e agli dei”. Vengono in mente i Dialoghi con Leucò di Pavese.  Si pensa a Schiuma d’onda, Saffo. Il mare dei miti greci, “tutto intriso di lacrime e di sperma”.  Il mercante le regala una statuetta, una donna che regge nelle mani due serpenti. “E’ il tuo dominio, basilissa senza sposo. / Pòtnia Theròn, signora delle fiere e dei serpenti ...” Penelope diventa, o forse è sempre stata, come Persefone, una dea ctonia. Il mercante si rivela.  “Nel salutarmi / agitava il sottile bastone con le due serpi / intrecciate, e rideva con la complicità della luce / e con l’oscurità dei lupi e chi guida le ombre”. All’uomo lontano, lo sposo che non c’è, Penelope rivolge, allora, il suo ultimo pensiero: “niente che valga più la pena di dirti, / affaccendato come sarai / a ingannare le ombre”. Ecco, Hermes le ombre le conduce al loro ultimo destino, Ulisse le inganna. perché per lui tutto il mondo non è abitato che da ombre. Si chiude l’ultima pagina. Resta nella mente l’immagine di questa donna che aspetta, la cui vita è solo attesa (nell’Odissea, anche del figlio Telemaco). E si resta turbati. Molte domande salgono alla mente. Una fra tutte, la più angosciosa, quella che non ha risposta: e se tutta la vita non fosse altro che questo, l’attesa di un abbandono, fino all’ultimo, quando noi stessi abbandoniamo noi stessi?
Resta nella memoria, però, la musica di questa domanda, di quest’angoscia. Ed è una musica dolcissima, fluida, i versi scorrono con la naturalezza di un discorso a sé stessi, come un discorso tra amici. Le figure del mito, uomini, eroi, dei, sono uomini di tutti i giorni, li incontri nella tua vita fin dal primo giorno.  Sono tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli, gli amici, i mariti,le mogli, gli amanti. E c’è per tutti una partenza, un abbandono, una scomparsa.  Come tutti i dolori profondi della vita, il dolore dell’assenza non è devastatore, non è selvaggio, ma s’insinua, persistente, inesorabile, negli attimi della tua giornata.  Non è guaribile. Ma nessuno è più presente, più dolorosamente presente, di chi ci manca. Pascoli lo dice in maniera inequivocabile alla conclusione dell’ultimo “canto”, il XXIV, dell’Ultimo viaggio, che fa parte dei Poemi conviviali. E’, anche questa, la storia di Ulisse, divisa in XXIV piccoli canti, lo stesso numero dell’Odissea. L’ultimo s’intitola Calypso. Ulisse è partito per il suo ultimo viaggio, naufraga e muore. Il mare porta il suo cadavere sull’isola di Calypso. La dea lo riconosce. Lo avvolge “nella nube / dei suoi capelli; ed ululò sul flutto / sterile, dove non l’udia nessuno: / - Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!” Avevo di proposito, prima, taciuto il nome di Pascoli. Ma è forse il poeta italiano che più di altri sa reinventare con libertà la tradizione classica. Il più moderno, almeno.  Su quella scia, ancora più libero, e più moderno, si colloca il bellissimo poemetto di Maria Clelia Cardona. Viene alla mente un’ultima riflessione. E’ dedicato a Ulisse anche il romanzo che ha inaugurato la scrittura moderna del romanzo, l’Ulysses di Joyce. Un trionfo, entusiasmante, di libertà fantastica e linguistica. Non è questo, comunque, il primo impatto di Cardona con il mondo classico. Esistono anche preziosi racconti tra storie augustee, discordie fraterne d’imperatori  romani (Marco Aurelio e Lucio Vero), storie del tardo Impero che riecheggiano Rutilio Namanziano. Ma di questo un’altra volta.
Fiano Romano, 23 luglio2016

venerdì 22 luglio 2016

Miguel Ángel Hernández, Intento de escapada



Miguel Ángel Hernández, Intento de escapada, Barcelona, Editorial Anagrama, 2013. Esiste una traduzione italiana di Elisa Tramontin per le edizioni e/o, 2015, con il titolo Tentativi di Fuga.

Uno studente di arte contemporanea, Marcos, allievo di un’affascinante professoressa, Helena (pronunciare Eléna), col suo appoggio diventa segretario di un artista rinomato, Jacobo (pronunciare Jacóbo, con la gutturale aspirata iniziale) Montes, che conduce ai gradi estremi l’esperimento di far coincidere contemporaneità e rappresentazione, arte e vita, di abolire la linea che divide la realtà dalla rappresentazione della realtà. E si spinge fino a sfiorare l’illecito, a osare, sembra, il crimine. Per rappresentare la fuga dei migranti, il problema della fuga dei migranti, rinchiude in una cassa uno di loro, Omar (pronunciare Omár), chiedendogli di restarvi senza mangiare e bere fin che può. Escrementi, urine dovrà lasciarseli uscire addosso, restarne impiastricciato fino alla fuga dalla cassa. Potrà uscirne, certo quando vorrà, quando non sopporterà più di restarvi rinchiuso. Il patto è che vi resti dentro una settimana. Ma se ne esce prima, non guadagnerà la grande somma promessa. Omar vi si rinchiude dentro. Splendida la pagina che descrive il suo scivolare e scomparire dentro la cassa, come altri suoi compagni nel deserto, nel mare, in qualunque angolo del mondo. La cassa, però, dopo un po’, comincia a emettere un odore nauseante, anzi un fetore insopportabile, di putredine, di cadavere. Quando viene esposta, il giorno dell’inaugurazione, il puzzo fa venire il vomito. Si pensa al peggio. Lo pensa Marcos, che si ribella all’artista. Non rivelo la soluzione dell’intreccio, per non togliere al lettore la sorpresa della conclusione del romanzo. Succedono molte altre cose. Si discute anche se questa sia o non sia arte. Se ne sono sentite di simili all’installazione del ponte sul lago d’Iseo realizzata da Christo. L’installazione è il processo terminale di una certa idea di arte, concettuale e comportamentale insieme. Ma le etichette non chiariscono di che si tratta. A volere essere sottili ne faceva già Lorenzo Bernini, quando innalzava davanti a Palazzo Farnese, a Roma, una facciata copia perfetta della facciata del palazzo, ma di legno, e poi le dava fuoco, per realizzare alla vista di tutti un incendio del palazzo. E’ l’idea barocca della sorpresa, dell’arte che imita la vita. Ma nel novecento s’introduce un’altra idea, che configura anche una sconfitta dell’arte, l’incapacità di rappresentare davvero la realtà. Il primo ad averne l’idea, a immaginare questo tipo di installazioni, non fu un artista, ma un compositore, Iannis Xenakis, che era anche , o forse sopratutto, architetto. E’ suo, infatti, il padiglione Philips dell’Esposizione Internazionale di Bruxelles del 1958, e non di Le Corbusier, che pure firmò il progetto.   Xenakis, queste installazioni le chiama Polytopi, ebbe l’idea di installarne uno a Persepoli, l’antica capitale achemenide dell’Impero Persiano, il 26 agosto 1971, nel Palazzo di Dario, “quello bruciato da Alessandro Magno” ripeteva. Fari militari, laser, suoni elettronici si mescolavano per più di un’ora, dopo il tramonto, sulle rovine del palazzo. Ciò creava un corto circuito storico tra il passato e il presente. E’ proprio questo corto circuito che cerca di attuare Montes, ma non tra il passato e il presente, bensì tra l’attualità vissuta con imbarazzo, angoscia, respingimento, delle migrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente, e la condizione privilegiata del museo, dell’arte, della contemplazione dell’oggetto, che però non è più una scultura, un quadro, ma un avvenimento. In rete il lettore trova le fotografie sia del Padiglione Philips che del Polytope di Persepolis. Possono dare un’idea della realtà alla quale si riferisce il romanzo. Ma, naturalmente, tale realtà è esasperata dalla brutalità del mondo di oggi, dal gigantesco traffico umano di miseria e di sciacallaggio speculativo che ruota intorno al fenomeno delle migrazioni. “Puoi morire” dice Montes ad Omar. “Non m’importa! Ho bisogno di quei soldi. Potevo morire anche venendo fino a qui. Posso morire di fame se non mi fanno lavorare”. La morte, per Omar, non è uno spettro lontano, ma la realtà quotidiana che vive nel campo dei rifugiati. E allora l’arte, lui che sa che cos’è l’arte, lui che disegna, che scrive un diario, l’arte potrebbe essere la linea di spartizione che dalla morte lo riconduce alla vita. A un certo punto Marcos vuole sottrarsi al gioco. Sospetta un crimine. Helena, preoccupata che possa mandare a monte tutto il progetto, per convincerlo a desistere dal proposito di denunciarli, gli pratica un pompino. Eiaculando, Marcos si sente uscire da sé stesso. E afferra in un attimo quale sia la fuga di tutti, di Omar, di Montes, di Helena, dalla vita, come se proprio la vita fosse il male, e il confronto fosse sempre con la morte, una morte che c’è, alla quale non ci si può sottrarre, prima o dopo, ci arriva addosso, ci coglie, ci toglie di mezzo. La condizione di Omar è la condizione di tutti. Don Chisciotte conosce la realtà del suo sogno quando capisce che la Morte è venuta a visitarlo. E’ un tema assai caro alla tradizione letteraria e figurativa spagnola. “Mirad que vais a morir, / si está en Diós que muráis” (Guardate che morirete / se Dio ha stabilito che moriate) dice Clarín, il “gracioso”, il jolly del teatro elisabettiano, il buffone delle Corti rinascimentali e barocche, l’Arlecchino della Commedia dell’Arte, nella Vita è sogno di Calderón de la Barca. Ed è giusto che a dirlo non sia un personaggio tragico, ma un buffone. Oppure il povero, l’escluso. Nel Gran teatro del mondo, sempre di Calderón, al “gracioso”, al giullare viene affidata la parte del povero. E ti pareva, protesta costui. Sempre a me l’ultima parte, quella del derelitto, dello scacciato. La tensione del romanzo è estrema. Una prosa nervosa, articolatissima, s’insinua nelle pieghe insospettate, nascoste di ogni personaggio.  Lo scontro è tra esserci o non esserci. Di nuovo un dilemma già esposto dal teatro, ricordate il monologo di Amleto? Ecco, tutta l’azione del romanzo ha qualcosa di teatrale, o di cinematografico. Il ritmo asseconda il procedere dell’azione ora con studiata lentezza ora con frenetica furia. In somma, un capolavoro, di concezione e di scrittura. Ed è il suo primo romanzo. In Spagna è già uscito il secondo, El instante de peligro, l’istante di pericolo, sempre per Anagrama. E simultaneamente esce una riflessione sulla scrittura del romanzo, Presente continuo, un po’ come fece Thomas Mann, quando scrisse Romanzo di un romanzo, per raccontare la scrittura del Doktor Faustus. Lì c’era Schoenberg e l’invenzione della scrittura seriale, il nazismo, il suicidio della Germania e dell’Europa. Qui c’è Walter Benjamin. E una riflessione sul significato, il destino, il contenuto dell’arte, oggi. Ma soprattutto, sul senso della vita, e dell’eterno confronto con la morte. Che non è solo quella individuale di ciascuno. Ma può essere di un paese, di un continente, di una civiltà. Come dice bene Julian Barnes: The Sense of an Ending (New York, Vintage International, 2011). “La muerte es lo más real. Pero por todos los medios buscamos  maneras de tapar esa realidad. El discurso del cura, el ritual, la caja ..., maneras de barnizar lo más terrible. Pensé entonces que en el fondo, todo eran forma de iconostasis, maneras  de poner distancia ante lo inevitable. Y tuve claro que el arte de Montes pretendía precisamente lo contrario de eso, quitar distancia, romper el ritual, llegar a lo más real, aunque nunca pudiera conseguirlo del todo. Porque la única realidad real es la muerte. La última frontera, la última barrera. Ahí es donde todo acaba. Lo más real, lo más abyecto, el fin de la representación. Si Montes pretendía llegar a lo real, la muerte era la única solción” (La morte è il massimo di realtà. Ma con ogni mezzo cerchiamo maniere di coprire questa realtà. Il discorso del prete, il rituale, la cassa ..., maniere di verniciare ciò ch’è più terribile. Pensai allora che nel fondo, tutto erano forme di iconostasi, maniere di porre distanze davanti all’inevitabile. E mi fu chiaro che l’arte di Montes pretendeva precisamente il contrario di ciò, togliere distanza, rompere il rituale, arrivare a ciò che c’è di più reale, anche se mai avrebbe potuto conseguirlo del tutto. Perché l’unica realtà reale è la morte. L’ultima frontiera, l’ultima barriera. Lì è dove tutto finisce. Ciò che c’è di più reale, di più abietto, la fine della rappresentazione. Se Montes pretendeva arrivare alla realtà, la morte era l’unica soluzione).   Miguel Ángel Hernández, nato nel 1977, è professore di  Storia dell’Arte all’Università di Murcia. E tiene corsi di storia dell’arte all’Università di Ithaca, negli USA. Niente di straordinario, dunque, che attraverso la figura di un artista, ci racconti l’oggi. Ma più straordinario è che l’oggi così raccontato non ci appaia la nicchia di un’élite intellettuale, bensì metta in discussione proprio il ruolo di interprete del mondo, di guida esperta, che quell’élite pretende di assumersi, mentre anch’essa è succube, come il resto del mondo, di un disorientamento, di una perdita di realtà, non solo intellettuale, ma prima ancora esistenziale, della vita di oggi, in tutte le parti del mondo. E che ce lo racconti uno spagnolo non è forse casuale, se proprio la letteratura spagnola, forse come nessun’altra letteratura del mondo, ci ha abituati, fin dalle origini, fin dal Poema de mio Cid (la Chanson de Rollant spagnola), a non fidarci di ciò che vediamo, che sentiamo, che viviamo. El engaño, l’inganno, e perciò l’inevitabile desengaño, il disinganno, non è mai del mondo, ma sempre del nostro modo di stare al mondo.
Fiano Romano, 22 luglio 2016