lunedì 18 aprile 2016

I vicini, di Fausto Paravidino



Il teatro di Fausto Paravidino stimola lo spettatore a farsi molte domande. Nascono dal testo, e dalla recitazione. Ma non è il testo, né tantomeno la recitazione, a porle. Sono suggerite dal dialogo dei personaggi, dal comportamento dei personaggi. E’ il carattere che subito colpisce, di questo teatro. Che non fa domande, né tanto meno dà risposte. Ma da subito, dalla prima scena, colloca non solo i personaggi, ma anche lo spettatore, in situazioni che non contengono in sé nulla d’inspiegabile, di complicato, o di irrisolto, di problematico, e tuttavia sembrano interrogarsi sul perché, sul come, sull’esito della situazione, senza però dichiararlo esplicitamente, nessun personaggio dice: perché mi accade questo? che cosa significa? e che cosa ne verrà fuori? Le domande sorgono immediate nel cervello dello spettatore, senza che se ne accorga, quasi, e quando se ne accorge, hanno già preso corpo nella sua testa. I personaggi ne sembrano inconsapevoli: agiscono quasi per caso, o semplicemente agiscono, e basta, come facciamo noi tutti i giorni, a casa, per la strada, guidando un’automobile. Il teatro di Paravidino è un teatro profondamente problematico, che s’interroga e interroga il pubblico, sull’esistenza, sul suo significato, sulla convivenza, sui rapporti affettivi, o solo di conoscenza, di “vicinato”, ma nessun personaggio se lo chiede, o dà delucidazioni.  Le domande – e mai le risposte – stanno sempre, e solo, nell’azione teatrale pura e semplice. Come nei grandi classici. Shakespeare, prima di tutti. Ma anche i tragici greci. Sofocle non spiega mai perché a Edipo succede ciò che succede. Ma porta sulla scena le vicende di Edipo. Accade, allora, che Edipo si ponga alcune domande – quasi sempre sbagliate – e non trovi risposte. Quando la realtà stessa gli darà la risposta, e di tutt’altro genere da quella che Edipo si aspettava, Edipo sa, a questo punto sa, che nemmeno quella è la risposta. E chiude la propria esistenza con un’altra domanda, questa volta l’unica vera, l’unica giusta. Ma non la chiede agli dei, al fato, al destino; la chiede a un altro personaggio, a Téseo: “Non sapevo di uccidere mio padre e di accoppiarmi con mia madre. Ero dunque innocente di questi crimini. Ma perché io?” Lo chiede nell’”Edipo a Colono”. Naturalmente Téseo non conosce la risposta. E nemmeno il Coro. Che però così commenta: “La vita umana è infelice. Dunque meglio morire giovani. E meglio ancora, non nascere affatto”.  Non è una risposta. Ma è il significato della tragedia. Di ogni tragedia: che sorga una domanda simile: perché io? e un commento che non spiega niente, come quello del Coro. Il Destino della Tragedia non è una Divinità, o un’istanza soprannaturale, trascendente, incomprensibile. Ma ciò che accade a ognuno di noi. Gli dei greci sono immanenti, sono la realtà. Io, che sto scrivendo queste riflessioni, per esempio: perché nasco italiano, e da una famiglia d’intellettuali, mio padre matematico e mia madre insegnante? e nasco a Roma, non a Torino o a Venezia? potevo nascere in una famiglia povera, o ignorante, in un altro paese, magari in guerra, e non in pace come l’Italia. Ma il mio Destino è stato di nascere a Roma da un padre matematico e da una madre insegnante. Non l’ho scelto io, come Edipo non ha scelto di risolvere l’enigma della Sfinge: se l’è trovata sulla strada. Quanto al padre, lo ha ucciso perché gli sbarrava la via, non voleva lasciargli il passo, e lui non sapeva che quell’uomo, Laio, fosse suo padre. Come non sapeva che Giocasta, la donna concessagli in premio per avere sciolto l’enigma della Sfinge, fosse sua madre. E allora si capisce tutta la forza, l’ineluttabilità, della domanda finale: perché io? Edipo, al silenzio di Téseo, e degli dei – solo le Erinni lo chiamano: che aspetti? - si nasconde nel boschetto da dove lo chiamavano le Erinni, e si lascia morire. Nessuno sa la risposta. Ma tutti restano con quella domanda nel cervello, che rode l’animo: perché io? Proprio perché non ha risposta, la domanda turba, corrode l’animo.
Sembra un giro di divagazioni assai lungo, per riflettere sulla commedia “I vicini” di Fausto Paravidino.  E invece no, perché da queste riflessioni nasce un’osservazione essenziale: il teatro di Paravidino, come il teatro dei grandi classici del teatro, pone domande, anche inquietanti, ma non ha, non conosce le risposte a queste domande. Come non le conoscevano Sofocle, Euripide, Shakespeare, Calderón, Racine, Alfieri, Pirandello.  Per questo mi ha attratto subito, e vi ho riconosciuto lo stigma di un vero drammaturgo. Non è naturale nell’Italia di oggi. Capisco il suo successo in Francia, in Inghilterra, negli USA. Gli autori teatrali italiani di oggi, o di cinema, gli scrittori, e perfino i poeti italiani, salvo poche eccezioni, non solo le domande le esplicitano, le ripetono fino all’ossessione, ma danno anche le risposte e le spiegazioni delle risposte.  Perciò risultano così spesso prevedibili, banali, noiosi. Nel racconto di un film, di una commedia, sullo svolgimento del racconto prevale la spiegazione del significato del racconto. Spesso, in chiave ideologica. E sono caratterizzati in modo manicheo i personaggi:  positivi e negativi, buoni e cattivi. Talora con una conversione, un ravvedimento finale, o un sentimento “buono”, che salva il cattivo. La terrorista della “Meglio gioventù” si commuove e piange alla vista della bambina sua figlia. Ben altra durezza si trova in “Heimat” di Reitz, a ritrarre i terroristi. Ma anche i personaggi  “normali” di Heimat non sono definiti una volta per tutte. Perché non c’è una vera divisione tra buoni e cattivi. Ma una rappresentazione del “puramente umano”, direbbe Wagner. I personaggi di Paravidino hanno i nostri difetti, le nostre avversioni e le nostre simpatie, anche il nostro furore logico, se afferrati da una situazione che vogliono capire. Ma come noi non sanno le ragioni dell’avversione, o dell’attrazione, o della necessità di argomentare, di ragionare su ciò che avvertono e non capiscono. Il fantasma fa paura. Nessuno lo vede. Ma Greta lo avverte. E poi anche l’altra donna, Chiara, ne sente la presenza. Lo temono. E tuttavia potrebbe essere solo un’allucinazione, una proiezione di paure inconfessate o ignorate. Se esiste, la donna che abitava la casa dei vicini, potrebbe essere lei ad avere paura, come l’aveva quando era viva. Paura degli estranei. Perché gli altri, chi sa perché, fanno sempre del male. Magari è solo questa paura di lei che non c’è, che sorge ora nell’animo di chi c’è. Le domande potrebbero continuare. Come la diffidenza, e poi la simpatia, e poi di nuovo la diffidenza per i vicini. Il cibo li unisce, ma subito li divide. Come il sesso: scambio di coppia? Forse sì, forse no. Importante saperlo? Importa che il tradimento sia percepito, e in modo furibondo da uno dei personaggi: guarda caso, il vicino. Proprio il vicino di cui invece l’uomo della coppia, il marito di Greta, sospettava una tresca con la propria moglie. O davvero la tresca c’era stata? Ma in fondo che cosa sanno costoro l’uno dell’altro? e che cosa di sé stessi? E perché prima si attraggono e poi si odiano? I personaggi dialogano molto. E parlano anche dei massimi sistemi. Di Dio, per esempio. Apparentemente come se ne parla spesso in conversazioni private tra sconosciuti, o al bar. Dio, o il capo del governo, il calciatore famoso, fa lo stesso. Se ne sa soprattutto lo stesso, di Dio, quanto se ne sa del calciatore e del capo del governo. E rimasta sola, la vecchia vicina, il fantasma, nello spazio (abusivamente?) abitato dalle due nuove coppie, sembrano calmarsi le sue inquietudini, tornare il silenzio, la pace, in quello spazio, ch’era stato abitato da uomini così umorali, così fragili e così pericolosi. Ora, abitato da un fantasma? dai morti? Buio. Non lo sapremo mai.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, vede lo stesso Paravidino nel ruolo del marito. Io l’ho visto al Piccolo Eliseo di Roma, mercoledì 13 aprile. Ho provato una grande emozione e un piacere intellettuale profondo. La recitazione di Paravidino cattura subito, per un che di estraneo, di non accademico, l’accento marcatamente genovese, ma senza caricatura. Leggera, anche, la recitazione di tutti gli altri attori, Iris Fusetti che fa Chiara, Davide Lorino il vicino, Sara Putignano, Chiara, e Barbara Moselli, la vecchia. La regia è dello stesso Paravidino. Scene di Laura Benzi. Costumi di Sandra Cardini. Luci di Lorenzo Carlucci. Dura un’ora e quaranta minuti senza intervallo. E’ stato scritto che si pensa al teatro inglese. In parte, è vero. Ma anche a Woody Allen, soprattutto per la recitazione di Paravidino, che tuttavia sembra mirare più in alto. Però, scrittura e recitazione appaiono tipicamente italiane. Per fortuna, non quelle abituali di oggi. Sembrano cadere quasi per caso, le battute. nessuna enfasi, nessuna sottolineatura, e soprattutto nessuna imitazione sciatta del parlato. O se può sembrare parlato, è un parlato tra parentesi, sopra le righe, che fa cogliere ogni virgola del testo. Ma fa cogliere, in particolare, la presenza di un sottotesto che non viene mai esplicitato. Si resta inchiodati alla poltrona, senza tirare il fiato. Si prova quasi disagio. Si ride, anche. Ma con la strana sensazione che si sta ridendo di sé stessi. E sorge una domanda, la domanda: chi sono, i personaggi, e chi siamo noi che li ascoltiamo parlare? Ci assomigliano? sono come noi, un nostro doppio? Ma veramente ci comportiamo così? E ci accusano? ci additano agli altri, a noi stessi? Tutte queste domande restano senza risposta. Ma ci si accorge che l’importanza di ciò che si è visto e ascoltato non sta nelle domande - implicite, ripeto, mai esplicite – che la commedia ci ha fatto sorgere nel cervello, bensì, appunto, nel fatto che siano sorte, che ce le siamo poste, che ci siamo sentiti obbligati a porcele. E che il senso, forse il senso più profondo, della commedia stia qui: nell’inquietudine di quelle domande che non hanno risposta, non possono avere risposta, ma che sono sorte spontanee nel nostro cervello assistendo alla commedia. Se non è questo vero teatro, che cosa è teatro?
Dino Villatico
Fiano Romano, 18 aprile 2016

martedì 12 aprile 2016

Antigone a Montopoli di Sabina



Sabato scorso, 9 aprile, sono andato a Montopoli di Sabina per assistere a una nuova rappresentazione di “Antigone”. Non era Sofocle e nemmeno Anhouil. Ma una sorta di riscrittura di entrambe le tragedie, concentrate in un unico, serratissimo, dibattito, o scontro, tra Creonte, il Potere, e Antigone, una ragazza, la Gioventù. Per terra lo spazio era delimitato da una striscia luminosa che si chiudeva in fondo nell’abside della chiesa sconsacrata, adibita a biblioteca comunale, dove era stato allestito lo spettacolo. Due insegne, anch’esse luminose, sul davanti, dicevano, una, a sinistra, “παιδοκτόνοι” (infanticida, assassino di giovani, assassino dei figli), l’altro, sulla destra, “SALE”, che poteva significare sia il minerale che la svendita: dietro, infatti, giaceva, apparentemente senza vita, Antigone. Ora, tutti conoscono il mito, e soprattutto la sublime tragedia di Sofocle, nella quale s’impianta un conflitto irrisolvibile, come sempre nel teatro tragico.  Creonte difende la legge dello Stato, la legge scritta che assicura l’ordine e la convivenza. Antigone sostiene con forza la legge non scritta, che sta a fondamento di ogni civiltà: seppellire i morti, e cioè il culto degli antenati, il rispetto della tradizione. Antigone, proprio per questo, infrange la legge scritta, disattende un editto promulgato da Creonte, che proibisce di seppellire il fratello Polinice. Egli ha combattuto contro la sua stessa città, ed è perciò da considerarsi un nemico, un aggressore, va pertanto lasciato insepolto, a imputridire divorato dagli uccelli rapaci e dalle fiere. Antigone disubbidisce all’editto per ubbidire alla legge non scritta che obbliga a seppellire i morti. Tanto più se il morto è un fratello, una persona amata. Creonte la condanna a morte. Ma Emone, suo figlio, l’ama, e si lascia morire insieme a lei. La moglie di Creonte, per il dolore si uccide, ma prima di morire lancia al marito l’imprecazione che lo stigmatizza come “assassino di figli”. La tragedia finisce qui, senza risolvere il conflitto, senza riscatto, senza redenzione, come quasi sempre in Sofocle. Il “fato” non è, come troppi pensano, una condanna che pesa ab aeterno sull’individuo, ma una condizione a cui non si sfugge. In termini moderni è la condizione che mi fa nascere italiano e non palestinese o siriano. In una famiglia ricca e non in una famiglia di diseredati. Provate a dimostrare che non sia una “necessità” (ἀναγκη – anánke) costrittiva, e che tale necessità non condizioni la vita dell’individuo. E’ quello che Nietzsche, fine filologo, oltre che grande filosofo, chiama “dire sì alla vita”, cioè conoscere, e accettare, chi si è. Non altrimenti il conflitto appare insanabile nell’ “Edipo Re” o nel “Filottete”. Nell’ “Edipo Re” gli dei puniscono Edipo non perché abbia ucciso suo padre e si sia congiunto con sua madre, ma perché ha creduto di poter sfuggire al destino segnato dalla sua condizione.  Ha peccato di ciò che i greci chiamano “ὕβρις – hýbris” (orgoglio, superbia, tracotanza): credere di essere padrone del proprio destino. Il secondo coro dell’ “Edipo a Colono” lo dice bene: la vita umana è infelice, beato chi muore giovane e più beato ancora chi non nasce mai. E pensare che Sofocle nasceva da famiglia illustre, era ricchissimo e da giovane fu bellissimo. Nel “Filottete” il conflitto è tra Filottete, esponente della morale aristocratica, eroica e individualista, e Ulisse, esponente della morale di una società democratica in cui l’interesse della collettività prevale su quello del singolo. L’anacronismo è voluto. Sofocle si rivolge al pubblico di una democrazia.  Filottete ha subito un torto dagli Achei, che lo hanno abbandonato sull’isola di Lemno solo, ferito, sofferente. Ora, dopo 9 anni, gli Achei hanno bisogno di lui per conquistare Troia e vendicare l’oltraggio di Paride. Filottete si rifiuta. Neottolemo, figlio di Achille, condotto nell’isola da Ulisse per convincere Filottete, prende invece le sue parti. Compare Ercole, l’eroe che ha donato a Filottete l’arco che farà vincere gli Achei, e obbliga Filottete a cedere. Per ricompensa gl’insegna come guarire della sua ferita. E’ una riconciliazione apparente. Ci è voluto un intervento divino a sciogliere il contrasto. Quale morale è la morale superiore, quella individuale di Filottete o quella comunitaria di Ulisse? Sofocle, un aristocratico, ma fedele alla democrazia, non lo sa. Scioglierà il nodo qualche decennio dopo Aristotele, nel proemio all’ “Etica Nicomachea”: bello è cercare il proprio bene, coltivare sé stessi fino alla conoscenza delle cose, ma ancora più bello, anzi ”divino” (così scrive Aristotele), è cercare il bene della comunità, della polis, di tutti. Queste riflessioni percorreranno tutto il pensiero etico e politico antico (per gli antichi etica e politica sono indivisibili) e poi medievale, rinascimentale, moderno (Shakespeare, per molti aspetti vicino a Sofocle, ma più ancora a Euripide, riprende il tema a modo suo, cioè in modo sublime, nel “Coriolano”, e anche qui non scioglie il dilemma). Su questi temi, e su questo dissidio, riflette anche Anhouil, nella sua “Antigone”. La scrisse nel 1941, andò in scena nel 1942. La Francia era occupata dai Nazisti. Una parte dei francesi prese le parti di Hitler, nacque il governo fascista di Clichy. Il grande storico delle “Annales”, Marc Bloch, si fa partigiano ed è ucciso dai tedeschi. Anhouil scrive “Antigone”. La giovine si ribella agli ordini, si rifiuta di accettare la prevaricazione, il dominio. Dice no al Potere, alla violenza del Potere. E seppellisce il fratello ammazzato. Creonte, ai suoi occhi, è non tanto un Potere assoluto, ma chi è sceso a compromessi per mantenerlo, chi ha detto sì non già alla vita – come scrive Nietzsche - e dunque alla giovinezza, alla ribellione, ma sì alla connivenza, alla complicità, alla subordinazione. A suo dire, per preservare il benessere, l’ordine della società. Nell’idea di Antigone, invece, per rendersi correo dei crimini che ogni Potere commette, soprattutto sui giovani che non accettano di asservirvisi. Queste le premesse dello spettacolo.
Due soli attori, Julia Borretti, che incarna il ruolo di Antigone, e Titta Ceccano, che impersona Creonte. E’ loro anche la regia. I dialoghi sono prosciugati e il confronto è senza esclusione di colpi. Scene e costumi sono di Jessica Fabrizi, le ceramiche di scena di Laura Giusti _LaghirÁ, e lo spettacolo è prodotto da MATUTATEATRO. Sede a Sezze, Latina, dove c’è anche il MAT spazio teatro, 40 posti. Citano molti nobili antecedenti, tra cui l’Odin Teatret di Eugenio Barba, da cui sembra assimilare taluni procedimenti, per esempio la dissociazione tra gesto e parola recitata. Evidente proprio all’inizio, nel bellissimo monologo-dialogo con sé stessa e il mondo, di Antigone. Il racconto e la situazione si realizzano non solo nel discorso dell’attrice, ma anche nei gesti che sembrano negarlo, contraddirlo. Togliersi e mettersi le scarpe. Indicare un luogo e volgere il viso da un’altra parte. Poi, l’uomo di spalle si volta. Capiamo che è Creonte. Più che palare sussurra. Sembra quasi una recitazione naturale, realistica, tradizionale. Non lo è, sta a indicare la tradizionalità, la naturalezza del Potere. Ma dice cose terribili, annienta la ragazza con le parole. Ma lei non ci sta. Dice no, appunto. E gli rinfaccia, a lui, al Tiranno, al Potere, come in Alfieri (altra bellissima tragedia), di dire sì. Lui si mostra allora protettivo. Ma lei rifiuta quella protezione. Fino a lasciarsi annientare, accucciata dietro l’insegna SALE. Anche qui il conflitto non è sanabile se non con l’annientamento di una delle due parti. Che è poi lo spirito della tragedia. Quando il conflitto si sana, si ricompone, afferma Goethe, e non c’è più tragedia, c’è la commedia del mondo moderno. Anhouil, messo a faccia a faccia con il furore nazista, ci ricorda che la tragedia invece persiste, c’è anche nel mondo moderno, e anche nel mondo moderno non c’è soluzione del conflitto se non con l’annientamento di una delle due parti. La chiesa sconsacrata è piena, e il pubblico segue silenzioso, col fiato sospeso, la vicenda, il contrasto. Alla fine gli attori dialogano con il pubblico. E Titta Ceccano spiega che hanno voluto rappresentare in Creonte il Potere che uccide i giovani. Messaggio di un’attualità quanto mai sconvolgente. Sia che i giovani debbano contrastarlo, il Potere, o farsi strada nelle sue spire soffocanti, lavoro, disoccupazione, fame, e che cosa più? – sia che ne se ne facciano strumenti per imporre un nuovo ordine, come i terroristi, i combattenti dell’ISIS, i kamikaze, e altri -, perfino i giovani delle organizzazioni criminali, perché no? anche loro un modo per contrastare un potere e affermarne un altro – ma chi guida, controlla, domina anche questi giovani che si credono strumenti di un nuovo ordine? Be’: le riflessioni non mancano. Si esce con l’animo e la mente pieni di domande senza risposta. Come dice Julia Borretti: queste domande ce le facciamo da sempre, e da sempre non trovano risposta. A questo punto viene in mente anche il “Pilade” di Pasolini.
Lo spettacolo è stato dato nell’ambito di una rassegna culturale annuale, “in viaggio tra teatro, cinema, musica e poesia”, organizzata a Montopoli di Sabina dalla Regione Lazio, dal Comune di Montopoli di Sabina e, soprattutto, dal Teatro delle Condizioni Avverse, nome ch’è tutto un programma. Viene spontanea a questo punto una riflessione: cose simili non si sono viste a Roma, a Milano, a Torino, alla Biennale di Venezia, ma in un Borgo della Sabina che conta poco più di 3.000 abitanti. Nel sottopasso che conduce al Comune, ci sono alcuni murales assai belli. E tutto il borgo sembra fermo nel tempo. Immerso nel silenzio dei bellissimi colli sabini. E tuttavia, invece, la vita moderna prende anche qui il respiro del teatro moderno. E con invidiabile forza, con invenzione rappresentativa. Funziona, sembra, se uno spettacolo così difficile richiama un pubblico folto. Che applaude e discute. Animatamente, e con partecipazione.

Fiano Romano, 12 aprile 2016

venerdì 8 aprile 2016

Domenico Zipoli interpretato da Giovanni Nesi



DOMENICO ZIPOLI.  COMPLETE SUITES & PARTITAS. Giovanni Nesi, piano. Héritage. HTGCD 298

La maggior parte dei manuali di storia della musica andrebbe gettata nei cestini della carta straccia. Ossessionati come sono i loro autori di trovare moduli e modelli costanti delle forme musicali, conducono fuori strada il lettore. Quasi sempre la descrizione della cosiddetta forma sonata è sbagliata. Si legge: primo tema, ritmico, e i più ottusi aggiungono “maschile”, secondo tema, melodico, naturalmente “femminile”. Qui già siamo fuori strada. Spesso una sonata, un quartetto, una sinfonia di Haydn hanno il primo movimento monotematico. E allora i casi sono due: o Haydn non sa costruire un tempo in forma sonata, o tale forma non obbliga alla costruzione di due temi. Inoltre, tanto per fare un esempio, la bellissima Sonata in la maggiore op. 101 di Beethoven attacca con un tema che più cantabile non si può. Dov’è andato a finire il primo tema “maschile”, che sarebbe anzi tipico di Beethoven? Non si contano, del resto, le pagine beethoveniane che cominciano con un tema di grande cantabilità: la “Sinfonia Pastorale”, il Trio dell’”Arciduca”, la Sonata per violino e pianoforte detta “Primavera”. Non va meglio, quanto a esattezza della descrizione formale, con la suite. Tutti, o quasi, dicono e scrivono che la successione delle danze è allemanda, corrente, sarabanda e giga, con altre danze talora inserite tra la corrente e la sarabanda o tra la sarabanda e la giga, ma tutte le suites finirebbero con una giga.  Ora questa è, più o meno, la successione adottata da Johann Sebastian Bach. Ma prima di Bach e tra i musicisti coevi di Bach troviamo altre successioni. Purcell finisce le sue suites ora con un minuetto ora con una sarabanda ora con un’altra danza, per esempio una hornpipe. Questa forse troppo lunga premessa per dire che anche Domenico Zipoli non rispetta la successione dei manuali. Le sue quattro suites finiscono la prima con una gavotta, la seconda e la terza con una giga, la quarta con un minuetto. Nato a Prato nel 1688, dunque tre anni dopo Johann Sebastian Bach, muore a Córdoba, in Argentina, nel 1726. Entrato nell’Ordine dei Gesuiti e ordinatosi sacerdote, era partito da Cadice nove anni prima. Come gli altri gesuiti, fu sempre attento alle condizioni dei nativi. E ai nativi del continente sudamericano trasmise il suo amore per la musica, ma estrasse anche il loro innato talento, coltivò la loro disposizione musicale, li aiutò in ogni modo a conquistarsi un’autonomia economica. Va detto, tra parentesi, che fu proprio quest’attività di protezione dei nativi a irritare le corti europee e a chiedere e ottenere l’abolizione dell’Ordine. Per gratitudine, i nativi ci hanno, invece, conservato i suoi manoscritti. Il giovane pianista fiorentino Giovanni Nesi ci restituisce in questo bellissimo cd tutt’e quattro le suites e le due partite di Domenico Zipoli. Le suona sul pianoforte. Il padovano Bartolomeo Cristofori, lo aveva inventato proprio a Firenze alla fine del Seicento. Ma la fortuna dello strumento cominciò solo più tardi, con le modifiche apportate a Berlino da Johann Gottfried  Silbermann, verso la metà del secolo. Lo strumento così modificato piacque anche a Johann Sebastian Bach, che non aveva, invece, prima apprezzato lo strumento di Cristofori. Ma Zipoli compone i suoi pezzi per tastiera pensando o all’organo o al clavicembalo. La distinzione tra gli strumenti forniti di tastiera non era rigida. Lo stesso Bach immagina il “Clavicembalo ben temperato” per qualunque tastiera, e forse pensa preferibilmente al clavicordo, come farebbe supporre l’estensione di quattro ottave per tutti e due i volumi dell’opera, che è appunto l’estensione di un clavicordo. Il titolo italiano, traduzione della traduzione francese con cui l’opera arriva in Italia, non rende giustizia alle intenzioni di Bach. “Wohltemperierte Klavier” significa, infatti, “Tastiera ben temperata” e non “Clavicembalo ben temperato”. Ci si aspetterebbe, dunque, che Zipoli debba essere suonato sul clavicembalo, il pianoforte s’impose dopo la sua morte (quello che chiamiamo “fortepiano” per distinguerlo dal pianoforte ottocentesco con il doppio scappamento, è in realtà già un pianoforte, tant’è vero che i russi, per esempio, usano il termine “fortepiano” per indicare il pianoforte). I fondamentalisti filologici che pretendano per Zipoli esclusivamente un clavicembalo, però si sbagliano. Prima di tutto perché, come si è detto, i confini tra gli strumenti non era tra Seicento e Settecento così rigido, e poi perché l’ossessione dell’esattezza timbrica è un’ossessione moderna, ignota ai compositori barocchi. Ne fanno fede le trascrizioni per tastiera che Bach compone dai Concerti di Vivaldi. Il timbro aveva più che altro funzione di colore evocativo, l’oboe per le atmosfere pastorali, il trombone per le scene teatrali di oracoli, la tromba per le celebrazioni trionfali. Il che non significa che Bach o Corelli o Handel non stessero attenti agli equilibri timbrici di un organico orchestrale, ma solo che ciò non costituiva per loro un’ossessione come, dopo il romanticismo, lo è per noi. Godiamoci pertanto questo Zipoli sul pianoforte senza complessi d’inadeguatezza. Potrebbe risultare perfino più interessante di uno Zipoli suonato sul clavicembalo. L’orecchio moderno non sente più il clavicembalo come uno strumento contemporaneo, ma il pianoforte sì. Per essere apprezzata nel suo vero valore storico ed estetico (le due cose sono interdipendenti), l’interpretazione sul clavicembalo richiede un’operazione intellettuale di ricollocazione storica del suono, e allora se ne gode tutto il fascino. Altrimenti il clavicembalo è degradato a strumento “antico”, e perciò esotico. Uso qui l’attributo “antico” non in senso filologico, ma di costume dell’ascoltatore medio, che ne gode perché lo reputa autentico proprio perché diverso dal suono di oggi, e dunque rassicurante, consolante. Tutto ciò è sbagliato. Ai suoi tempi il clavicembalo poteva suonare e suonava anche disturbante, esattamente come molte musiche pianistiche di oggi. E’ questa operazione di ricostruzione del contesto storico che bisogna attuare quando si ascolta suonare un clavicembalo. E non tutti hanno la cultura, la disponibilità psicologica, la libertà intellettuale per attuarla. Il clavicembalo diventa allora per costoro una fuga dal presente, dagli orrori del presente, il rifugio in un paradiso consonante e consolatorio che ci strappi ai dolori dell’oggi.  Quanto arriva a costoro del tormento creativo di un Bach, di un Couperin, di un Rameau?
Ma torniamo allo Zipoli pianistico di Giovanni Nesi. Si ascolti, subito, il preludio della prima suite, in si minore. L’attacco fa pensare a Bach. Ma sia Zipoli sia Bach attingevano a un repertorio comune. La figurazione iterativa di un giambo seguito da una risposta articolata di suoni contigui, quasi banale nella sua genericità, diventa invece un esercizio intenso di cantabilità. Tutto sta nell’inseguire il filo che raccorda le voci che s’interrogano e si rispondono. Il tocco mette in evidenza i punti di tensione, piuttosto che quelli di risoluzione. E il canto si esalta in perpetue spirali che ritornano implacate su sé stesse. Segue, immediata, una corrente il cui moto perpetuo non è altro che l’accelerazione del labirinto melodico del preludio. E anche qui il tocco insiste sui punti di tensione, risolve dolcemente lo scioglimento delle dissonanze. Il resto mantiene le promesse della partenza. Bellissima, sempre in questa suite, l’esitazione dell’aria. Certo, Zipoli queste melodie non le ascoltava con questo suono. Ma forse sì con questa libertà di fraseggio.  E allora, seduti nel nostro studio, ad ascoltare questa musica, invece di essere irrazionalmente trasportati in un’epoca trascorsa che non sappiamo di preciso quale suono avesse, abbandoniamoci a questo suono moderno che la rievoca. Chi sa che non vi riconosciamo tante suggestioni che hanno fatto sorgere altri e più nuovi pellegrinaggi sonori. Ma se lasciamo stare la richiesta di un’autenticità impossibile – nulla di più inautentico che la ricerca dell’autentico, scriveva Karl Kraus – incontreremo, può darsi, la verità di una musica la cui bellezza sta tutta nella delicata elaborazione contrappuntistica di un’intelaiatura sonora che aspira continuamente a cantare. Ed è la dote che più ci affascina nell’interpretazione che Nesi ci regala di queste pagine di Zipoli: l’intensità di un gesto pianistico che aspira al canto. Ma con leggerezza. Il sublime e il discorde sono accuratamente evitati, per mantenersi nell’aurea medietas di una musica perennemente discorsiva.  Esito veramente notevole, che suscita insieme piacere intellettuale e ammirazione.

Nel libretto allegato al cd molto chiare, preziose e documentate, le note di Gregorio Moppi.

Fiano Romano, 8 aprile 2016