venerdì 10 dicembre 2021

Gli dei lontani


 

La razionalità, di cui l’uomo si vanta, avverte Nietzsche, è espressa dal linguaggio. Ma il linguaggio è allusivo, metaforico: non è la voce della verità. Come sarà poi per Saussure, il linguaggio per Nieztsche è arbitrario: è costruito non dalla Ragione, ma dalla percezione dei sensi che affida ai suoni emessi dalla corde vocali significati arbitrari. Altrimenti gli uomini dovrebbero parlare un’unica lingua. Riecheggiando in qualche modo Spinoza, anche Nietzsche sembra così sostenere che la radice del nostro essere sia materiale, pensiamo con il cervello e il cervello è un organo del corpo, noi pertanto pensiamo con il corpo. Il pensiero non è staccato dalla realtà dei sensi, non è immateriale, non è spirituale e intanto raggiunge l’astrazione dalla concretezza dell’esperienza. La civiltà occidentale, dopo i Greci, vive nell’illusione di poter conoscere la verità. La verità, invece, per sua stessa natura, come aveva già intravisto Lessing, e confermato Kant, è inconoscibile. L’uomo occidentale la suppone accostabile perché ha diviso lo spirito dalla materia. Abbandonando l’unità originaria che ancora permea il pensiero greco. Per questo, come canta Hölderlin, gli dei hanno lasciato la terra, e l’uomo è abbandonato alla solitudine della sua disperazione, all’unica conoscenza che gli sia ancora rimasta accessibile: la morte, o meglio, sapere che c’è, sempre, a un certo punto, la morte. Che chiude, impedisce la continuità del divenire, e dunque l’integrità dell’essere. Freud lo chiamerà il disagio della civiltà. Tra queste riflessioni, che si muovono tra la rilettura di Nietzsche e la rievocazione di Hólderlin, tra Darwin e Freud, e che danno corpo ai fantasmi di Schumann e di Wagner, si muoveva negli ultimi anni l’inquietudine filosofica, musicale, artistica di Giuseppe Sinopoli. La critica della pochezza del mondo moderno, soprattutto di quello italiano, che Sinopoli così spesso esternava nelle conversazioni, nelle interviste, nelle conferenze, aveva radici sì politiche e sociali, ma si nutriva, alla base, dal sostrato di questa sostanziale sfiducia sulla capacità del mondo moderno di capire il mondo, e, soprattutto, di capire sé stesso. Sfiducia perfino che l’arte potesse sostituire l’impossibile conoscenza cui aspirano la filosofia, l’arte e una certa scienza. Da qui il rifiuto di continuare a comporre musica. Attività che gli pareva, nel mondo di oggi, divenuta superflua. Il massimo che ci è ancora concesso di fare è riproporre ciò che del mondo hanno capito e rappresentato i nostri antecessori, musicisti, poeti, scrittori, architetti, pittori, scienziati. Questi ultimi, anzi, o almeno una parte di essi, sottratti all’illusione di crearlo un mondo, che è dei filosofi, degli artisti, sono gli unici che possano affrontarlo senza provocare danni, anzi giovando al resto degli uomini. I medici, soprattutto. Del resto, prima che musicista, Sinopoli era medico. L’archeologia fu l’estremo tentativo di raggiungere quell’unità dell’essere, che il mondo antico conosceva e possedeva, e che il mondo moderno ha spezzato, frammentato. Sumeri, egiziani, greci ci ripropongono un volto delle cose che noi oggi non sappiamo più vedere. Goethe cercava l’Urpflanze, la pianta originaria. Sinopoli cercava l’Urmensch, l’uomo originario. Queste e altre riflessioni – e molti ricordi personali di cui qui taccio – mi venivano in mente mentre ascoltavo Michele Dall’Ongaro, Prsidente-Sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e Gastón Fournier-Facio presentare, nell’aula Risonanze dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, al Parco della Musica di Roma, i due volumi, appena usciti, dedicati a Giuseppe Sinopoli: “Il canto dell’anima. Vita e passioni di Giuseppe Sinopoli”, a cura di Gastón Fournier-Facio, Milano, il Saggiatore; e “Gli dèi sono lontani. Giuseppe Sinopoli: una biografia”, di Ulrike Kienzle, tradotto in italiano da Clemens Wolken per la collana L’Arte Armonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, collana diretta da Alberto Basso. 




Alcuni dei collaboratori del libro “Il canto dell’anima” erano presenti. Mario Messinis, Antonio Rostagno, Luciano Berio, pur troppo no, trafugati dall’Angelo Sterminatore. Ma vivacissima, emozionante, è apparsa Ulrike Kienzle, che ha inviato un video in cui ha presentato, parlando un ammirevole ed elegante tedesco, la biografia di Sinopoli. Musicologa lucida e competente, coglie con assoluta pertinenza la complessità del monto emotivo e intellettuale di un musicista, e di un musicista così intricatamente intellettuale quale fu Sinopoli. 






Silvia Cappellini, moglie di Sinopoli, ha interpretato splendidamente al pianoforte, con ammirevole nitidezza ma anche con intenso potere di seduzione, tre momenti di una Sonata che Sinopoli ha composto negli anni ‘70, pagina irta di giochi architettonici, di fittissimi contrappunti, di matematiche dosature, come era lo spirito di allora, artifici che tuttavia non riescono a nascondere la furia, si direbbe la febbre di cui appaiono il prosciugamento. Accanto alla sala, c’è un’esposizione permanente di anfore greche che Sinopoli ha collezionato negli anni e che ha donato all’Accademia. Guardando quelle figure nere su sfondo rosso o rosse su sfondo nero, ci assale il senso di quell’unità appunto, di quella continuità della vita e delle cose, la stessa che spinge un Virgilio a indovinare dolore perfino nella cose – sunt lacrimae rerum – ci sono lacrime delle cose – e Aristotele a cercare nella proporzione degli umori che circolano nel corpo le cause di un male, la Malinconia, μελαίνη χόλη, bile nera, appunto, che tuttavia è la disposizione d’animo tipica, anzi indispensabile, di filosofi e di poeti (Aristotele, Problema XXX). Dal Problema aristotelico deriva nel Medio Evo e nel Rinascimento tutta una riflessione sui temperamenti dell’animo umano. Albrecht Dürer incide una sublime raffigurazione che ispirerà schiere di artisti, poeti, scrittori. Robert Burtun pubblica nel 1621 il suo Anatomy of Melacholy, che diventa un testo di riferimento per almeno due secoli. Dei libri presentati si dirà comunque un’altra volta. Fanno complessivamente 1.347 pagine. Ma se qualcuno, lette queste righe sulla loro presentazione, vorrà rievocarsi alla memoria la figura di Giuseppe Sinopoli, si raccolga in profondo e invalicabile silenzio, e si disponda ad ascoltare l’Adagio espressivo della Seconda Sinfonia di Schumann, registrato alla testa della Staatskapelle di Dresda (cd della Deutsche Grammophon). Sinopoli è famoso per il suo Wagner, il suo Puccini, il suo Verdi. Ma in Schumann si riscontra un’affinità più segreta, se ne trasente lo stesso cupio dissolvi, e vi si riconosce la stessa lucida contemplazione del delirio umano e la stessa, consapevole introspezione della morte. Ascoltatelo. Sarà quasi come leggere un libro di filosofia o sottoporsi a una seduta di psicanalisi. Avrete, cioè, acquistato una conoscenza di voi stessi – più che di Schumann, più che di Sinopoli – che prima non avevate. L’unica conoscenza, forse, concessa all’uomo. L’intensità del dolore, esasperata fino all’eccesso, l’assoluta privazione di ogni spiraglio di speranza, e dunque la lucidità della mente che si confronta con la disperazione, toccano qui vertici raramente attinti. Tranne, forse, che nell’interpretazione di un altro direttore anche lui compositore: Leonard Bernstein. Non posso chiudere queste righe che con due citazioni – greche, naturalmente: Pindaro definisce l’uomo ombra di un sogno:


ἐπάμεροι· τί δέ τις; τί δ’ οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ
ἄνθρωπος.


Effimeri: che cosa qualcuno? che cosa nessuno? di un’ombra sogno

l’uomo.


Pitiche, VIII, 95-96


Euripide va ancora più in là e dubita anche del divino, sapendo comunque che il divino e l’umano sono inestricabili, come ce li rappresenta in tutto il suo teatro,ma soprattutto nelle Baccanti, la sua ultima tragedia. Tuttavia la sospensione del giudizio, la sua interrogazione senza risposta, trova una mirabile e inimitabile sintesi in uno stasimo dell’Elena, la tragedia sulla follia delle guerre umane: Elena non è mai andata a Troia, vi fu condotto un fantasma, una “nuvola”. Da cui lo sgomento del Vecchio Soldato: e questi dieci anni di sofferenza, di morti, di dolore inconsolabile, per una nuvola? Ma per che cos’altro si fanno le guerre? risponde Elena. Una dea ha fabbricato la “nuvola”, una dea ha condotto la vera Elena sulle sponde del Nilo. Il coro, costernato, si chiede:


ὅτι θεὸς ἢ μὴ θεὸς ἢ τὸ μέσον … ;


che cosa dio che cosa non dio o ciò ch’è nel mezzo … ?


Elena, 1135






mercoledì 8 dicembre 2021

Arte e artificio


 

Recentemente mi è capitato di ascoltare, in concerto, due opere diversissime come lo Stabat Mater di Josquin, e la Sinfonia in do maggiore K. 551 detta “Jupiter” di Mozart. Ebbene, il motivo che apre il Finale della sinfonia mozartiana – un modulo melodico abbastanza comune nel repertorio gregoriano – do re mi fa – è lo stesso del cantus firmus dello Stabat Mater di Josquin. Nelle edizioni moderne dell’opera di Josquin lo si suppone di una chanson attribuita a Binchois, “Comme femme desconfortée”. A leggere la chanson, il motivo è un frammento interno della melodia, non il suo incipit. Josquin lo riutilizza modificandolo a proprio piacimento. Segno, anche, della libertà che i compositori franco-fiamminghi (come i successivi) si prendono nel mescolare e utilizzare motivi della musica profana per le opere sacre e viceversa. Ma non voglio entrare, qui, in un’analisi comparativa del contrappunto di Josquin e di quello di Mozart. Il motivo piacque a Josquin probabilmente per lo stesso motivo per cui poi piacque a Mozart (e a molti altri compositori): la perfetta simmetria intervallare delle due sezioni: una seconda maggiore ascendente seguita, a distanza di una quarta – il tetracordo di un modo - da una seconda minore discendente. Altre cellule tematiche hanno struttura simile. Il nome BACH, si bemolle la do si, due intervalli discendenti di seconda minore a distanza di una seconda maggiore. Il nome di Dmitrij Šostakovič, nella traslitterazione tedesca D. S C H, ma D in tedesco si dice DE, dunque diventa D Es C H, re mi bemolle do si, una seconda minore ascendente seguita, a distanza di una seconda maggiore (D-re C-do), da un’altra seconda minore, ma discendente. È lo stesso motivo per cui esistono tante messe (perfino Palestrina!) sulla chanson goliardica “L’homme armé” (immaginate di che cosa possa essere armato un uomo che colpisce davanti e di dietro). Come si può vedere un compositore può costruire grandi edifici partendo da cellule motiviche elementari, piccole, semplici. Perfino una melodia, anche una bellissima melodia, una lunga, interminabile melodia, può non essere altro che lo sviluppo del suo impulso iniziale. Due esempi diversi: l’Andante del Concerto in do maggiore K. 467 di Mozart e la cavatina di Norma “Casta Diva”. Sia Mozart sia Josquin amano poi ripresentare la cellula in vari punti e in varie voci dell’opera. Josquin non si limita a confinarla nel cantus firmus. E, all’attacco, spiazza l’ascoltatore proponendo al basso e al superius l’intonazione ripetuta di un do, alla parola “stabat”, a rendere visivamente e uditivamente il senso dello stare. Solo a questo punto il tenor, cui è affidato il cantus firmus, intona il secondo suono della cellula, re. Alla parola “crucem” le voci disegnano una croce, con più evidenza il superius: si do e discendendo al fa. Anche la parola “pendebat” ha una figurazione musicale che associa il pendere e la croce: ribatte tre volte il mi – dum pende – sale al fa sulla sillaba “bat” e con la a sale di un grado al fa e poi di un grado e di una terza, mi do: unendo dunque la discesa, il pendere, all’immagine della croce: mi fa mi do. Anche Mozart non risparmia artifici e invenzioni degne di un fiammingo. La cellula che apre il Finale della sinfonia è intonata già nell’attacco del primo tempo. Ma rielaborata con note di passaggio. Dopo la maestosa asserzione della tonica da parte di tutta l’orchestra nelle prime due battute, alla terza battuta gli archi espongono una figura musicale ricavata dalla cellula do re mi fa esposta nella sequenza do do si re do sol fa, estendendo dunque la quarta a una quinta, il che rientra nell’affermazione energica della tonalità di do maggiore che caratterizza questa apertura e che funziona da contrappeso al cromatismo di quanto segue, cromatismo comunque anticipato dalla figura degli archi che succede al Tutti di apertura. Ma l’associazione che m’è venuta in mente, proprio ascoltando la sinfonia mozartiana, Josquin lo avevo ascoltato giorni prima, è un’altra. Da quando un ignoto cantore, che poi si firma, della cappella parigina di Nôtre Dame, ha l’idea di sovrapporre tra loro due e più melodie su un canto dato, in altri termini di agire sovrapponendo simultaneamente più voci invece di variare e allungare monodicamente – come si fa nel tropo – la melodia data, da quel punto la musica europea compie una svolta. L’ignoto cantore si chiama Leonin, in latino Leoninus. Anche altre culture conoscono procedimenti polifonici, ma che più spesso risultano in realtà eterofonici, tuttavia i procedimenti polifonici europei sono particolari, e da essi deriva tutta la musica che oggi si fa nel mondo, anche fuori dell’Europa. Escluse naturalmente le tradizioni locali che sopravvivono e che anzi possono influire sul corso planetario del sistema europeo oppure subirne l’influsso, o entrambe le cose (si pensi all’avventura di una danza sudamericana, nata tra il sud del Perù e il nord dell’Argentina, che ascoltata e assimilata dai conquistaori spagnoli e portoghesi trasmigra in Europa e diventa la Ciaccona, dal termine Chaco che designava la regione e oggi ne designa una parte). Oggi, dunque, in una discoteca di Shanghai si ascolta una musica composta non diversamente dalla musica che si ascolta in una discoteca di Boston. Perfino il Blues non può farne a meno di questo sistema europeo, ha dovuto adattarsi. Si parla tanto d’imperialismo, ma spesso a sproposito, e si trascurano invece le forme più odiose di imperialismo che la cultura dell’Occidente – e il potere economico dell’Occidente – impone al resto del mondo, come, per esempio, il rifiuto di distribuire i vaccini proprio nel mondo che non ha oggi i mezzi per acquistarlo o produrlo, ma che è quello stesso mondo, che l’Occidente ha depredato da secoli: non li si dona nemmeno per una parziale restituzione del maltolto. Sfugge, insomma, che anche sul piano culturale l’Occidente si è imposto dovunque. Un cellulare si costruisce nello stesso modo negli USA e in Cina. Anzi, in Cina li fanno meglio (che sia questo che irrita gli USA?). Lasciando, però, perdere questo discorso, che ha molte articolazioni, non ultima che il mondo non-occidentale delle invenzioni d’Occidente può farne un uso diverso, ritorno al punto da cui ero partito. Da Leoninus a Josquin, a Mozart, a Stravinskij, sotto le evidenti diversità, scorre, fluisce un sostrato comune, un’idea condivisa del fare musica. Mi piace pensare che quando Machaut elabora uno dei suoi stupendi mottetti isoritmici non lavori in fondo diversamente da Beethoven che costruisce sulla cellula BACH i suoi ultimi cinque quartetti, o da Schoenberg e Bartók che per il loro primo quartetto prendono a modello i quartetti di Beethoven, il primo l’op. 131, il secondo l’op. 130. O restando a Bartók, la Sonata per violino solo in sol minore è evidentemente modellata sulle sonate e partite per violino solo di Bach: comincia con una ciaccona d’irto, complicato contrappunto (Bach, invece, una suite la conclude con la ciaccona). Le avanguardie del Novecento avevano esasperato questa dipendenza da una tradizione secolare, anche quando per propaganda si diceva che si saltava il fosso, se ne faceva a meno, si voltava pagina. Non si ha idea di quanto questa continuità si affermi in pagine apparentemente di rottura come la Deuxième Sonate di Boulez o i Klavierstücke di Stockhausen. E oggi? Per quanto si voglia scappare o fuggire da questa trappola, se ne resta invischiati, perché anche opporvisi, contraddirla, trascurarla, come affrmano di fare quelli che dicono che le avanguardie sono morte, ed è vero, hanno esaurito la loro funzione, sono inutili, ed è falso perché hanno lasciato un segno nella scrittura, nell’uso della voce, degli strumenti, anche ripudiare le avanguardie, i loro istemi, è comunque sempre un tenerne conto. Se non altro per opposizione. Perfino quando si scrive una canzone facile facile: I V I V I e si crede di andare al gusto dei più, si sta in realtà compiendo una restaurazione, un atto polemico: le canzoni, e il jazz, del primo dopoguerra, grosso modo dagli anni ‘50 ai ‘70, sono impregnati di avanguardia più di quando si voglia credere, e, soprattutto, i musicisti che li componevano ne erano consapevoli. Le canzoni si chiudevano spesso sfumando il suono, facendo perdere la percezione della musica, come se la musica svaporasse piano piano nel silenzio. Era un modo per evitare il ritorno alla tonica, per non dare la sensazione di un discorso musicale che si conclude. Anche per la musica “leggera” o di consumo, dunque, il sisema tonale era sentito come un impaccio. Nei musicisti più consapevoli poi si affinava il gusto dlla rottura, del rinnovamento. Le avanguardie sono esistite, e sempre. Cambiano nome, si chiamano Ars Nova, Nuova Musica, Hard Rock, Heavy Metal, ma non li si può ignorare. Esistono. Devi farci i conti. Un po’ come in letteratura il pettrarchismo, l’avanguardia della poesia europea, da Bembo a Ronsard, da Garcilaso de la Vega a Shakespeare e a Donne: gli antipetrarchisti, da Berni, Arentino, Folengo a Rabelais, Quevedo, e talora lo stesso Shakespeare, che poteva assumere entrabbe le facce poetiche, di petrarchista e di antipetrarchista, per quanto detestassero Petrarca ne erano comunque dipendenti, se non altro perché, appunto, anti-.


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Oggi si torna a ribadire un principio che nell’epoca dell’illuminismo era certezza, soprattutto dopo che Rameau ebbe pubblicato nel 1722, l’anno in cui Bach completa il primo libro del Wohltemperierte Klavier, il suo Traité de l'harmonie: Réduite à ses principes naturels, che cioè il sistema tonale è il sistema armonico che maggiormente rispetta i principi naturali dell’organizzazione dei suoni e dunque il sistema naturale della musica. Una vera e propria ipostatizzazione della Natura, oggi improponibile, ma che tuttavia trova ancora favore. Ora, va detto, per la precisazione, che il sistema tonale, prima del tardo seicento non esisteva. Leonino conosce solo i modi ecclesiastici. Fuori dell’Europa esistono altri sistemi musicali e nella stessa Europa le tradizioni popolari conoscono una grande varietà di sistemi armonici. L’intervallo di terza, prima dei compositori franco fiamminghi e prima che Zarlino ne confermasse la funzione consonante, era considerato un intervallo dissonante. Rameau riconosce come dissonante un solo intervallo: quello di seconda, la settima è il suo complementare. Jacques Challey nel suo Traité Historique d’Analyse Harmonique sostiene che la percezione della dissonanza si affievolisce storicamente nei secoli, l’intervallo di nona è considerato da Debussy come consonante. La “naturalezza” de sistema tonale che pretende di fondarsi sulla successione degli armonici, si fonda il realtà solo sui primi sei armonici. Il settimo armonico di do è un si bemolle, e dunque un intervallo di settima, dissonante. Via via, di fatto, dal tardo seicento al primo novecento, si comincia a non risolvere più un accordo dissonante in uno consonante, lasciando dunque sospesa o rinviata la risoluzione. Dopo Wagner diventa quasi la regola, e gli impressionisti in Francia, la cosiddetta seconda Scuola di Vienna in Austria introducono libere dissonanze che non devono giustificare la loro presenza con una consonanza che le prepari o le concluda. L’orecchio si abitua a non percepirne più la necessità. Chailley si chiede, alla fine del suo trattato, che è del 1952, ristampato nel 1977 (A. Leduc):

Nous avons besoin d’une musique contemporaine, et le peché de celle qu’on baptise ainsi est que nous n’en ayons plus. La ‘varieté’ ou le ‘pop’, qui n’attendent que sa mort pour régner sans concourrents, de l’eglise au night-club, commencent déjà à luibravir, dans certains milux, ce titre envié. Puisse se traité donner conscience du péril à ceux qui, ayant le talent, sauront aussi avoir le caractère.

Pour le reste, ce n’est guère que dans deux cents ans environ que nous pourrons savoir si les convulsions auxquelles nous assistons étaient une simple fièvre passagère qu’explique ans peine le désarroi d’une societé secouée par trop de cataclysmes, ou si, amorce encoreinforme d’un monde nouveau en gestation, elles marquaient les sursauts d’agonie d’une civilisation parvenue au ferme de ses possibilités”.

E dunque non è il sistema tonale che impone una certa musica nel mondo, ma la logica del profitto che domina l’industria che la diffonde nel mondo. Ma tale sistema è una tecnica. Come è tecnica quella necessaria per costruire un telefonino. O un'automobile, i treni, gli aerei. L'uso che, che di questatecnica, di qualunque tecnica, se ne può fare è un altro discorso. Tant'è vero che si può anche fare a meno della tonalità - musica elettronica (ma ci sono le fasce!), musica per i film, musica d'oggi in Cina (interessantissima), in Giappone, nei paesi arabi. Attenti, però, a non confondere gli effetti con gli strumenti che li producono. Chailley già sente l’esigenza di affermare la necessità – nous avons besoin – di una musica “forte”, come direbbe Quirino Principe, che si pone come coscienza critica alla musica non solo di consumo, e questo è ovvio, ma anche alla musica che piace di più, che di più è ascoltata dalla maggioranza di chi ascolta musica, non solo perché l’abitudine di ascolto l’ha assuefatta ad ascoltare questa musica, ma perché l’abitudine di ascolto è quella che l’industria culturale propone come privilegiata, non perché realmente lo sia, bensì perché più facilmente distribuibile, vendibile, consumabile. Non diversamente da quella che Chailley chiama varieté e pop. Si badi: non è snobismo, o puzza sotto il naso. Sciccheria del privilegiato. È necessita di rimarcare la differenza di funzioni tra i vari generi musicali. Non privilegiarne qualcuno, ma per distinguere il passatempo dall’atteggiamento critico. Dovrà pure restare, nell’immane omologazione dei generi, una voce critica che dica: io non mi adeguo, io sono altro e voglio altro. Fosse costui pure un singolo, un isolato, un eremita, uno che sa leggere il sanscrito in mezzo a una folla che nemmeno sa che cosa sia. Come il monaco benedettino che nel monastero di Montecassino copia l’Eneide o l’asceta ortodosso che sul Monte Athos copia la Metafisica di Aristotele, costui preserva la sapienza del Bhagvad Gita, di cui un giorno tutti potranno godere gli insegnamenti. Ecco, quella musica è il Bhagvad Gita.


Si potrebbe obiettare, e mi è stato obiettato: la semplice realtà è che quasi tutti i sistemi si conformano intorno a una finalis, non chiamiamola tonica, la tonalità non è altro che una sistematizzazione completa e complessa di questa tendenza, e do in parte ragione a chi sostiene che contiene elementi oggettivi di funzionamento, ma il fatto che siano stati conquistati storicamente non vuol dire che non siano intrinseci al nostro modo di essere e di percepire. Dentro il sistema tonale si può simulare il sistema esacordale, mentre il sistema esacordale non può simulare quello tonale perché è difettivo di note e possibilità rispetto a questo, la tonalità è la sintesi onnicomprensiva ed estrema che è capace di inglobare tutto, infatti possiamo avere un Beethoven modale all'interno della tonalità.

All’obiezione obietto: intanto chi stabilisce, e su quali principi, che esista un unico modo di essere e di percepire, in parole povere quello europeo tra sette e primo novecento? Perché devo concepire, che so, il sistema pntatonale cinese all’interno del sistema tonale? O i modi della musica tibetana secondo la teorizzazione dei modi europei? Perché una musica di cui non si percepisce immediatamente il sistema sarebbe irreale quando comque un sistema vi sottende, e basta studiarlo per comprenderlo? Mondrian non disegna né nudi né paesaggi, ma un sistema che costruisce le figure c’è, come se disegnasse nudi e paesaggi. E, anzi, proprio guardando come Mondrian costruisce le sue composizioni capisco, che so, che i paesaggi di Poussin sono costruiti con uguale rigore geometrico. Inoltre, perché parlare di gravitazione su un centro, su un suono, altrimenti si perderebbe il senso della successione. La gravitazione è una cosa, la suddivisione dell’ottava un'altra. E la suddivisione nata dal sistema temperato equabile, che oggi s’impone alle orchestre, ai cantanti, alle registrazioni discografiche, è un dato di fatto imposto dall'industria della riproduzione, non un dato di natura. Come credeva Rameau. Se il repertorio mondiale è o il rock, il pop da una parte e il "classico" (orrido termine) di due secoli (XVIII e XIX) dall'altra, ovvio che a predominare e generare abitudine d'ascolto sia il sistema temperato. Come le seconde minori che "sporcano" l'armonia del jazz o nella Repubblica Popolare Cinese l'adattamento al sistema tonale delle melodie tradizionali. Un adattamento, appunto. La cui necessità non è imposta dalla natura, ma dalla facilità di rendere più accessibile il prodotto. Il difficile non è innaturale, è solo difficile. Ma si tende, invece, a convincere che l’immediatezza, il facile, sia natura, e il bisogno di studio, d’indagine di spiegazione, insomma il difficile, non lo sia. La malattia che oggi affligge compositori e scrittori non è come comporre o scrivere, ma la paura di non avere esito, di non bucare il lettore e l'ascoltatore. Questo non nasce da come si scrive o si compone. Oggi Joyce non potrebbe scrivere Finnegans Wake, nessuno glielo pubblicherebbe. Il problema precede la scrittura: è sociale, politico. Lo scrittore, il compositore, come li intendiamo, con i parametri della musica "colta", della poesia alta. è un alieno. Triste, però, che il fenomeno ormai tocchi anche la musica cosiddetta leggera (come se l'altra fosse pesante) o, più propriamente, di consumo: i Beatles non ci sono più, in compenso di sono i Maneskin. Ma questi sono solo appunti per una riflessione più articolata. Il fatto però che sia esistito uno Schubert, un Webern, mi dà tuttavia speranza, forse è ancora possibile. Certo, come dice Challey, ne abbiamo bisogno. Perché il giorno che sarà sparita la voce isolata che dissente, il singolo esperimento apparentemente senza radici, sarà sparita, nella società, anche la possibilità di chiedersi se la società in cui si vive è la società in cui si vuole vivere. In sintesi: 300 anni non dimostrano la validità permanente di nessun sistema, ma solo il momentaneo accondiscendere della produzione al gusto dei più, anzi provocarlo, questo gusto, per vendere meglio. Il trobar clus di alcuni poeti provenzali non accondiscendeva affatto alla immediata e facile comprensione del testo. I poeti, e i loro ammiratori, si capivano tra loro, in tutta Europa non saranno stati più di un centinaio di persone. Ma ciò non impedisce che proprio quei poeti, per esempio Arnaut Daniel, il più difficile e proprio per questo il più amato da Dante, non siano un vertice assoluto della poesia di tutti i tempi: come i lirici greci, i poeti della dinastia T’ang, il nostro Leopardi, Baudelaire. Questa necessità di misurare la validità di un'opera, di una poetica, di un artigianato artistico, sulla quantità di consenso, sull'immediatezza della percezione dei più, è un artificio - alla lettera, un’astuzia, un inganno - che caratterizza l'ultimo periodo della produzione capitalistica occidentale, in parole povere nient’altro che una mercificazione - un tempo si sarebbe detto reificazione - dell'arte, una strategia di propaganda che equipara una bottiglia di Coca-Cola a una canzone, a un quadro, a una musica. Non che l'arte non appartenesse anche nel passato a un mercato, e che non venisse quantificato il suo valore in denaro - il costo spropositato della Cappella Sistina provocò la scandalosa vendita delle indulgenze e quindi la Riforma di Lutero: Michelangelo era un genio, ma si faceva pagare profumatamente - . Ma quanto avviene da almeno due secoli è un'altra cosa. Il valore di scambio si sostituisce al valore intrinseco dell'opera. Un'opera era costosa perché se ne riconosceva il valore. Ora il suo valore artistico è proporzionale la prezzo della vendita. Ma soprattutto, e questo la seriosità dell'industria culturale lo ha completamente cancellato, Mozart, per tornare a lui, Mozart (e non solo lui, ma solo lui a quel livello di suprema delizia) non ha mai separato il piacere dei sensi dallo sfoggio dell'intelligenza. Qui sta il suo segreto – ma, guarda caso, prima di lui non è che Josquin agisse diversamente - il contrappunto più complicato, più artificioso è insieme sapienza e gioco. Quando di certa musica oggi si dice che è artificiosa, intendendo dire che non ha valore musicale, si dice una sciocchezza, perché tutte le musiche, tutte le pitture, le poesie sono artificiose. Non sono un dato di natura. I sassi non scrivono poesia, non cantano Lieder. E non è dunque un dato di natura l'endecasillabo o l'esametro, come non lo è il modo musicale frigio o il do maggiore. L'industria culturale ci sta obbligando a considerare come "naturale" ciò che non richiede sforzo, che si capisce subito, perché si vende meglio. Quando si accusa Boulez di essere troppo cervellotico o complicato, si commette lo stesso sbaglio di prospettiva che il Papa Giovanni XXII fece con la bolla contro i "rumori" (sic!) dell'Ars Nova. Se faccio ascoltare un mottetto di Machaut a qualcuno digiuno di conoscenze musicali gli parrà "cacofonico" quanto uno Stuck pianistico di Stokckhausen e un canto tibetano gli risulterà sgradevole quanto un tenore stonato. Il miracolo della musica di Mozart (ma anche di Beethoven e di Schumann) è la sovrana, quasi inimitabile capacità di unire il massimo dell'artificiosità al massimo del godimento sonoro. Quanti, infatti, ascoltando gli ultimi cinque quartetti di Beethoven, si accorgono che sono costruiti tutti e cinque su una cellula musicale minima che genera tutto il quartetto, guarda caso la cellula BACH? Mozart a tutto questo aggiunge che il massimo dell'artificio scorre liscio e fluido come un ruscello di montagna. Quasi tutti quelli che hanno studiato pianoforte si saranno misurati con la sonata (facile!) in do maggiore. L'Andante, in sol maggiore, si svolge su un basso albertino che lo percorre costante da cima a fondo. Quasi un esercizio per principianti. Ma è sorretto da una sapienza costruttiva che fa venire i brividi. Dietro quell'apparente semplicità c'è una complessità di pensiero costruttivo da far tremare le vene e i polsi. Certo che Mozart ha modelli nella testa, in questo caso forse Galuppi. Ma il modello è innalzato a un livello di complessità musicale, a cominciare dall'intricatissimo gioco armonico, che ne fa tutt'altra cosa. E, in ogni caso, ho citato Galuppi, un grande compositore, non una figura insignificante come Luchesi. A chiarire come sia sempre l'elaborazione, la rielaborazione, a firmare la qualità di un brano musicale, nessuno negherà a Debussy l'artificiosità del suo modo di comporre (ma strangolerò chiunque per questo affermi che Debussy non è gradevole). Ebbene, per mantenersi agli studi, da ragazzo praticava il piano bar allo Chat Noir di Parigi. Lì probabilmente ascoltò la nuova musica che veniva dall'altra sponda dell'Oceano. E se ne innamorò. Minstrels, uno dei bellissimi Preludi, rievoca una banda jazz. E nei pezzi per bambini (in realtà difficilissimi) - Children's Corner - inserisce un cake walk. Non dovremmo mai dimenticare che l'artista sapiente gode delle più diverse manifestazioni della sua arte, che solo l'artista povero d'intelletto e di fantasia (ma è allora un artista?) crede che fare arte sia una cosa seriosa in cui è proibito giocare. Mozart ha composto un valzer in cui l'ordine delle battute è stabilito dal tiro dei dadi. Ciò significa che componendolo ha dovuto prevedere tutti i possibili percorsi armonici diversi nell'ordine delle battute. Un'operazione da calcolatore elettronico. Sembra infatti tra l'altro che fosse un genio anche nella matematica, del resto l'attività intellettuale più vicina alla musica: riusciva a calcolare la radice quadrata anche di numeri complessi. Una specie di Galois, insomma. Ma Galois si dedicò alla matematica, Mozart alla musica. E, a propositodi Galois, leggetevi il delizioso romanzo "Evariste" del giovane scrittore francese François-Henri Désérable. Nomina sunt consequentia rerum.

Ipostatizzare un sistema come più giusto perché di più facile accesso è distorcere la realtà dei fatti. L'accesso facile dimostra solo che il gusto del momento - provocato o meno ad arte - è quello. Niente di più. Callimaco, il grande poeta alessandrino - quello che scrisse che talora Omero dorme - sostenne la morte del poema epica. Sembra di sentire chi oggi parla della morte del romanzo. Ciò non toglie che il suo contemporaneo Apollonio scrive un poema sull'impresa degli Argonauti e secoli dopo Nonno un immenso poema su Dioniso. Questo nel mondo greco. Nel mondo latino Virgilio scrive l'Eneide, Lucano la Pharsalia e Stazio la Tebaide. Certo non sono l'Iliade e l'Odissea, ma sono poemi epici. Come lo saranno l'Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata. Mai dire che perché qualcosa non si fa più o ottiene scarso gradimento è per questo finita, inutile o addirittura sbagliata. Cerchiamo di tirare le somme.

Il termine atonalità non piaceva nemmeno a Schoenberg, compositore che non va confuso con il serialismo successivo. Quanto al problema del raggiungimento di un pubblico è un falso problema. O meglio, è un problema reale per chi scrive, perché in qualche modo un riscontro ama riceverlo o di fama o di denaro. Ma in sé stabilire che chiudersi in un élite sia sbagliato e giusto andare incontro a ciò che chiedono i più è un'idea senza senso, irrilevante, quanto quella contraria che giusta è solo la prelibatezza di un élite e sbagliato il consenso di una massa. Semplicemente non sta qui il punto. Almeno per quanto riguarda la musica, la letteratura, ecc. Riguarda la fortuna di un artista, di un'opera. Anche all'interno della musica "tonale" esistono diversi livelli di consenso. Le sonate per pianoforte di Schubert sono una conquista di questo secondo dopoguerra, ciò significa che per più di un secolo non piacevano e nessun pianista le suonava in pubblico. Debussy scriveva per pochi, e se ne vantava. Come più di duemila anni prima Callimaco si vantava di essere capito da pochissimi: alla lettera, una poesia che piacesse a molti per lui non era poesia. Dirai che sono compositori, poeti d'élite? Se lo dicevano già da sé, e se ne vantavano. Allora? Allora il criterio del consenso non ha nessun peso per giudicare il valore di un'opera o di un sistema. Anzi, non è nemmeno un criterio. Perché si continua a confondere il consenso con il valore dell'opera, il riscontro emotivo con la riuscita di un sistema. Šostakovič e Webern sono entrambi legittimi. Non si può rimproverare all'uno di non essere l'altro, o privilegiare uno dei due perché piace ai più e dire che l’altro va contro alle abitudini uditive del pubblico. L’arte non si misura a ricavati delle vendite. Solo pochi, anzi pochissimi artisti riescono a far combaciare l’arditezza dell’invenzione, la complessità dell’elaborazione con l’immediatezza dell’ascolto. Butteremo perciò alle ortiche tutti gli altri? Rimprovereremo a Berg di non essere Puccini, a Webern di non essere Ravel, a Janáček di non essere Bernstein? Sei grandi compositori del Novecento. Ma l’uno diverso dall’altro. Tre, Puccini, Ravel, Bernstein, di più immediato impatto, gli altri tre, Berg, Webern, Janáček, di più difficile approccio. Definirò la loro rilevanza in base al consenso? E se confrontassi Stockhausen e Morricone, a furor di popolo Morricone sarebbe acclamato come un genio musicale e Stockhausen uno che non è nemmeno musicista?


Riflessione in calce. Al solito, una messa in scena moderna, come quella che inaugurato la stagione della Scala, lo scorso 7 dicembre, suscita polemiche. Ma è normale che ciò accada. Ciò che invece suscita perplessità è, spesso, il criterio del dissenso. Intanto, giudicare uno spettacolo da un ripresa televisiva non è molto corretto, a meno che lo spettacolo stesso non sia stato pensato in origine per la ripresa in video, com’è accaduto per taluni spettacoli durante questa pandemia. Ciò detto, in genere il dissenso è giustificato con motivazioni personali: non mi piace, non c’entra niente con il libretto, mi disturba: ho chiuso gli occhi e ascoltato la musica, Lady Macbeth non fumava sigarette, ecc. ecc. Nessuno che entrasse nel merito della messa in scena, se fatta bene, se fatta male, se la recitazione fosse congruente con l’azione, e via dicendo. Ora, il proprio gusto, il proprio criterio non interessa nessuno, potrei rispondere semplicemente: a te non è piaciuto? A me sì. Ma nemmeno questa mia sarebbe una riflessione sullo spettacolo, bensì solo un’esternazione del mio gusto. Ecco, mi piacerebbe che chi esprime un parere su uno spettacolo non si limitasse a dire: non mi è piaciuto, è brutto, questo non è il Macbeth di Verdi, senza un briciolo di motivazione. È la motivazione che giustifica qualunque giudizio, positivo o negativo che sia. Altrimenti non sono nemmeno chiacchiere da bar. Sono parole al vento, esternazioni di un narciso che pensa di essere il mondo, di avere in tasca il giudizio esatto per ogni cosa, la verità che tutti gli altri ignorano. E di simili narcisi ne abbiamo già troppi in politica. Risparmiamoceli almeno nel teatro. Ricordo che il teatro, in Occidente – in realtà anche in India, in Cina, in Giappone - è nato per interrogare il pubblico, una comunità, sul senso della vita stessa della comunità, interrogare, senza proporre risposte, tanto meno pensando di dovere titillare il piacere di qualche singolo edonista, che consuma uno spettacolo come un bacio perugina.

domenica 5 dicembre 2021

Chi, o Saffo, ti fa torto?

 

DINO VILLATICO


CHI, O SAFFO, TI FA TORTO?



Placida notte, e verecondo raggio

della cadente luna; e tu che spunti

fra la tacita selva in su la rupe,

nunzio del giorno…


Giacomo Leopardi













I.


Una panca. O un letto. In una stanza nuda. Vi sta sopra, distesa, una donna. Senza cuscino, supina. Indossa una specie di lungo chitone. E’ l’alba.


LA DONNA Pensare. O ricordare. Ma potessi

chiudere gli occhi e non vedere nulla,

nemmeno dentro la mia testa. Quanto

tempo fa? Quanti giorni? Quanti mesi?

Fuggono, senza ch’io possa fermarle,

le parole. O che cosa? Ma non sono,

no, non furono mai parole, quelle

che non dico, ma vedo, e dunque scrivo.

Quando? oh, quando? Se fu solo dire.

Come ancora, guardando, penso, e dico.

Mai più! mai più! Fuggito via per sempre.

Annegare! annegare! oh sì, annegare!

Nessuna cosa è la cosa più bella,

tranne questo morire che non muore

della mia vita, un vento che squassa

tutte le ossa e frantuma una per una

le mie parole. Torno a dire? Torno

altro di me a non essere che il dire?

Tu, tu che mi ascoltasti allora, dove

sei fuggito, mio canto, mio sublime,

unico canto? E se toccare, oh! appena

una carezza, appena uno sfiorarti

leggera con le dita la peluria,

laggiù, dove tu bruci e fai bruciare,

se mi lasciassi là depositare

un breve bacio, un mio lungo sospiro

appena con la punta della lingua,

laggiù, dove l’amore nasce e affonda,

perché già vecchia mi disprezzeresti?

Ma tu ti copri. Tu ti chiudi. E scappi.

T’avrei donato tutte le parole

del canto con cui canti la tua scialba

giovinezza. Che cosa può ferirti,

sciocca, se la mia mano ti carezza?

Ho solo quindici anni, se mi vuoi.

E sono madre. Posso tutta darti,

ancora, dal mio seno, una dolcezza

che tu ignori. Perché ti parlo ancora?

Le mie parole sono baci, lunghi

baci che non t’ho dato. Ricordare!

E smarrirmi. Ma in quell’annegamento

della memoria, mi ridesto al canto,

quasi mi rassereno, mi conosco,

e mi salvo. - Tu ridi? Se ne muoio!

Si può, certo, morire di memoria,

del desiderio di dolcezza, forse

perfino di bellezza, che s’appaga

nella sola visione del ricordo.

Illanguidita voce del pensiero,

umida bocca del mio desiderio,

per te così si bagna la memoria,

così germoglia il canto tra le labbra

che vieti alle mie labbra. - Devo alzarmi.

Devo guardare. Più nulla, quando m’alzo,

di ciò che penso, è vero. Tutto, adesso,

invece, mi distrugge, mi divora. -

Vivo soltanto delle mie parole,

ma non di te. Ma non di te! perduta,

unica voce innominata. Tutte

quante le altre, ora, fuggitiva voce,

ah no! no! non mi giovano, se questa,

sola, non mi risponde, mi respinge. -

Lui, però, mi deride. Sorrideva,

al tuo fianco, e parlava, ti diceva

non so che cosa, forse t’additava

me che tremavo, che rabbrividivo

guardandolo, guardandoti, e morivo,

di soffocata tenerezza. Basta!


Si drizza. Sta seduta sulla panca.


Odio la luce, il giorno che vi coglie

ancora avvinti. Intera, tutta quanta

è passata la notte, senza sogni,

guardandovi. Sto qua, che guardo, sola,

ciò che non vedo, e non vorrei vedere.


Batte i pugni chiusi, ritmicamente, tra loro.


I miei capelli un tempo erano viola

e li cantò un poeta. Io sono pura -

oh, tu non sai, no, tu non puoi sapere,

tu sei fuggita, ti sei chiusa gli occhi,

prima, non tanto di scoprirlo, prima,

piuttosto, di lasciartelo scoprire -

che sono pura, veramente pura,

e che ogni volta tocco come fosse

la prima volta. Sciocca! Di noi due,

non io te - che follia! - ma tu me, come

un calice di vino ancora colmo,

e non toccato, me tu hai perduto.

Sì! m’hai perduta! Per tutti questi anni

che mi pesano addosso, che tu conti

in ogni filo grigio dei capelli!


Si butta bocconi sulla panca.


E non posso tornare indietro. Fosse

solo d’un giorno. Avanti, come freccia

scoccata, scorre la mia mente, vola

il respiro e s’estingue la parola.

La musica è sospesa. E il giorno passa,

passa la notte, senza sonno, senza

sogni. Ma scorre, e vedo, tutto il giorno,

tutta la notte, questo inappagato

desiderio di te che mi concede

al tuo rifiuto. - Sì, odio la luce

che ritorna. Vorrei che fosse sempre

notte. - Ma no! la notte è ancora peggio!

Che il giorno m’abbandoni, e ricominci

la notte, amico il buio in questo letto

non scende. Né sorride, quando torna,

il sole. Asciutto il ciglio, e fermo l’occhio.

Ma, dentro, una tempesta mi sconvolge

di lacrime e di sangue che va via. -


Si drizza un’altra volta. Fissa, seduta sulla panca, un punto lontano.


Adesso si alza. Chiama la sua serva.

Si fa portare nardo e cinnamomo.

Si lava, si profuma: tutta quanta

dai capelli alle gambe, dalla fronte

alle dita dei piedi e, tra le cosce,

una goccia di muschio. Si cosparge

d’olio le membra, tinge le sue guance

di croco e di papavero. Tessuti

lievi di Licia stende sopra il letto.

Il suo corpo ora freme: lo nasconde

allo sguardo infiammato la sottile

ragnatela di un abile ricamo,

lino leggero d’Egitto che brune

fanciulle ricamarono cantando

sulle sponde del Nilo nelle calde

lunghe notti d’estate quando il cielo

è tutto quanto un delirio di stelle.

Corta la notte fu per le delizie

d’amore. Nuove nascono dal giorno

che arriva le delizie della luce.

E guardarsi è già quasi penetrarsi.

Dai suoi occhi ora tu l’apprendi, e senti

cedere a quello sguardo le ginocchia.

Senti bruciare d’una sconosciuta

febbre i tuoi occhi. E tutta t’abbandoni

di nuovo a lui, ricominciando il gioco

che ti sfibra, ma non ti sazia. - Sempre

ti dura il desiderio quando credi

già finito il piacere. Ricominci

a guardarlo e ti lasci da lui tutta

guardare. Scorge un tremito incresparti

le labbra: ride, gli occhi ancora fissi

nei tuoi occhi, si piega sulle labbra,

e con un bacio il tremito t’arresta. -

Ma come t’attraversi l’occhio d’una

donna, questo l’ignori. Che languore

dentro svuoti le viscere, tra sguardo

e sguardo se giocare lasci gli occhi.

Più dolci gli occhi sono delle dita.

Più dolci della verga che tu chiedi

all’uomo che ti coglie e ti feconda

col suo seme, ma non può la tua bocca

colmare con la stessa tenerezza

della mia bocca di donna. Nessuna,

più dolce, ormai perduta ricordando,

dell’unica che incauta rifiutasti,

ma che sola dei giorni senz’attesa

fingere ti saprebbe una memoria. -

Ricordo il giorno che da me venisti:

ti svolazzava intorno per il vento

la bianca veste, e io ti pregai,

su quel vento, d’improvvisare un canto,

lasciando sulla pettide volare

le tue dita: guardandoti godevo,

intorno a te volavano gli sguardi

che muove come il vento il desiderio,

e tutte salutammo in te l’ingresso

della bellezza. Offrimmo quella sera

ad Afrodite tutte quante un dono.


Si palpa i seni. Si strofina l’inguine.


Mai! mai! mai! mai! Terribile parola.

Già. Tu non la conosci. Tu conosci,

adesso, solo la parola sempre

e la parola ancora. Per me solo

si dice mai, o, peggio, mi s’insulta

con un non più. - Perché non dirmi invece

non ancora? Volevi forse intatta

serbarti a lui, lasciargli il primo fiore

della tua giovinezza? e, di piaceri

ormai esperta, finalmente darti

a me? questo volevi? E inutilmente

mi dispero? M’illudo, se ti aspetto?












II.


La stessa scena. Mezzogiorno. Luce accecante. La donna siede sulla panca. Con le gambe incrociate e le palme delle mani sulle ginocchia. Fissa il vuoto.


LA DONNA Guardare. Anche così si aspetta. Forma,

anche questa, chi sa, d’intesa. Forma

- ma di chi? ma per chi? - forma d’incontro.

E d’inganno. Chi aspetto? e fino a quando?

Il sole, alto nel cielo, che mi guarda,

guarderebbe comunque, anche l’amplesso,

come ora guarda, qui dentro, la mia

solitudine. Scendi, te ne prego,

scendi a parlarmi, misericordiosa

voce, fammi sentire il frullo d’ali

che fino a me ti porta, dolce voce

del canto che t’invoca, fammi udire

le mie parole un’altra volta dentro

il suo cuore. Ch’io possa, dentro il cuore,

dentro il suo cuore, i battiti avvertire

della mia voce. Ch’io mi riconosca,

dentro di lei. La mano che mi coglie

mi coglierà che bacio il suo venirmi

dentro, e dentro la stringeranno forte,

inumidite, le mie labbra. Oh lascia

ch’io t’ascolti le vene, ch’io ti senta

fremere sotto la mia lingua, lascia

che con questa mia guancia dello stesso

mio fuoco ardere io senta la tua guancia.

Ma quali, adesso, snerveranno amori

le tue fibre? da quale bocca accolta

la tua bocca si lascerà donare

giovinezza? e da chi, poi, penetrata,

riversandogli umori nella stretta,

berrai da lui la vita che dà vita?

Anch’io conobbi quei piaceri. Avevo

la tua età. M’aveva già un’amica

- cara! - prima di quella notte, aperta,

perché poi non soffrissi nella nuova

per me tanto diversa congiunzione.

Piangevo. Io piangevo, e non volevo

abbandonarla. “No, mai, mai”, dicevo:

“voglio lasciarti. Morirò se passo

quella soglia”. Ma invece la passai.

E mi strinse, oltre l’uscio, un’altra mano.

Grande. Nessuna mano così grande

m’aveva preso ancora per la mano.

E la sentivo calda. Tutta quanta

bagnata di sudore. Cominciavo

a sentirmi protetta. E anch’io sudavo.

Sarei caduta, inerte, se il suo braccio

sorretta non mi avesse. Mi mancava

la forza nelle gambe. Mi sentivo

tutta dentro bagnarmi e ne provavo

vergogna. Non osavo alzare gli occhi.

Non osavo guardarlo. Ma sentivo

che mi guardava. Forse, sorrideva.

Appoggiata al suo braccio, mi condusse

nella stanza del talamo. Mi tolse

la veste, senza dire nulla. Solo

in quel punto m’accorsi che d’un tratto

avevo smesso di tremare. Allora

alzai anch’io su di lui lo sguardo.

Io avevo paura. Quasi ancora

nulla sapevo del suo corpo, e tutto

nudo me lo vedevo avanti. Eppure,

già vederlo, e noi due la prima volta

là, così soli, l’uno contro l’altra

- contro! com’ero sciocca! da lui seppi

come si possa due corpi stare

l’uno per l’altro! - sì, da lui! - sentivo

il suo respiro intorno a me volare

per la stanza, colmarla, profumarla,

addensarla di desideri, quasi

chiuderla dentro un bozzolo di venti

leggeri, delicati, e domandarmi

con quell’alito il dono atteso e dolce

d’un bacio, il dono infine di me stessa.

Avvertivo i suoi occhi scivolare

sulla mia pelle, come ora anche i miei

li sentivo bruciare al desiderio

d’abbracciargli le gambe, il ventre, il petto,

secca la lingua nella bocca, e come

prosciugate le labbra dalla sete.

Mi sentivo cadere. Inumidirsi

la mia pelle. Disciogliersi le membra.

Appannarsi la vista. Risucchiata

da me stessa. Mi venne addosso un grande

caldo, venni squassata da un furore

finora sconosciuto, era una febbre

che mi bruciava gli occhi, ma d’un tratto

invece tutta quanta fui sconvolta,

scardinata da tremiti di freddo. -

Chi sa se così dolce anche te l’uomo

che ora ti stringe ha colto il tuo donarti

a lui, come mi colse, spaventata

prima, onda poi d’estrema tenerezza,

l’uomo che quella prima volta, al colmo

del mio donarmi a lui mi rese madre.

Aveva anch’egli, come me, tremendi

gli amori, e molti,ognuno il primo, ognuno

il più grande. Perciò tra noi più bella

fu la vita, più tenera la notte,

e più tranquillo il giorno. A me veniva,

se amore nuove angosce gli portava.

A lui parlavo, se me l’alba desta

mi trovava nel letto. E noi parole,

l’uno per l’altra, si cercava, nuovi

canti, nuovi discorsi, per scacciare

l’umore nero delle nostre notti

senza compagni. Entrambi cercavamo

la luce, il sole, il ridestarsi amico

dei colori allo sguardo, il puro incanto

d’una forma, la geometria sonora

d’una voce, che agli occhi dà l’ebbrezza

della vita. Coglieva entrambi un dolce

pianto all’aprirsi, dopo lunga via,

del mare all’orizzonte. La bellezza

d’un fiore, d’una tazza, ci rapiva.

Ma solo poi la grazia luminosa

d’un corpo, la divina limpidezza

d’uno sguardo eccitava nel contatto

la febbre del divino. Conoscenza,

senza paura non si tocca. Solo

si schiudono le cose a chi le accoglie.

Amo per questo il lusso, l’eleganza,

e voglio intorno a me soltanto cose

raffinate. Uno sgarbo involontario,

una mancanza di delicatezza,

più, forse, mi feriscono che il nudo

morso della malvagità. Ci univa

una stessa paura: lo sgomento

della bruttezza. - Adesso posso dirlo:

forse nessuna donna, come lui,

mi conobbe, perché nessuna, come

lui, me, soltanto me, dopo l’amore,

cercava. Dopo! Qui sta la miseria.

Tutta piena del dono di piacere,

che un corpo di fanciulla mi donava,

cercavo poi negli occhi qualche intesa,

ma gli occhi si chiudevano spietati,

la bocca non s’apriva alle parole.

Lui mi parlava. E con che tenerezza

mi raccontava, sempre, le sue pene

d’amore. Con che pena confessavo

i miei tormenti. E’ lui la dea che viene

a confortarmi, è lui la dolce bocca

che canta la mia pena e il mio dolore.

Non bruciassi così, come anche brucio

per te, non altro amore, nella vita,

felicità più grande, bramerei,

e meno pianti, che il dolce tormento

di carezzarlo e farmi carezzare.

Ma tu, tu che ne sai? Soffrire, quando

si ama, è anche la lunga oscura notte

che ci lascia nel letto soli, senza

parole, senza mano che accarezzi.

Noi ci donammo. E tu mi sfuggi. Questo,

tutta mi fa per te rabbrividire.

Adesso, che la notte è passata,

e alto in mezzo al cielo tutto brucia

il sole, e brucia, dentro, il desiderio,

una carezza invano sospirata

misura il tempo che t’aspetto invano. -


Si sdraia sulla panca. Incrocia le mani dietro la nuca.


Venne da me, più tardi, un grande amico:

era un grande poeta, forse grande

più di tutti tra i Greci. Cara mi ebbe

tra le donne. Cantò la mia bellezza.

Ma gli piacque, di me, più di ogni cosa,

quella ch’egli chiamava mia purezza.

Si drizza. Resta seduta.


E questo, cara, è vero, è vero, proprio

come per me lo canta. Sono piene

le mie orecchie ancora di quel canto.

Non credere che vita senz’amore

sia vita, ma nemmeno che sia tutta

la vita il desiderio che chiamiamo

amore. Egli sentiva questa forza

di dire che mi muove, ma sentiva

anche, che mossa è dalla vita stessa

la mia bocca, non già perché parole

m’offra la vita, ma perché la forza

che muove tutte quante le parole

ch’io dico e canto, è quella forza stessa

della vita che muove la natura

delle cose. Per questo pura il canto

mi dice. Squame ai pesci variopinte

e dato il verde ai boschi, azzurro il cielo,

alla luna l’argento e alle stelle,

e l’oro al sole, scuro come il vino

il mare, più colori ebbero i fiori,

ebbe ogni cosa un dono: a me fu data

la parola, fu dato alla mia bocca

il canto. Ma chi diede ciò che diede?

vita ebbero da chi le cose, quella

che quaggiù vedi? Un dio, se dio lo chiama

la lingua che parliamo, se altro nome,

a ciò che non sappiamo nominare,

la mente, dentro il fuoco che la brucia,

non pensa. Ma divino è tutto, dio

anche cercare un dio. E non importa

il nome. Sono per questo mio canto

quello che sono, così come cielo

è l’azzurro, ed è luna, sono stelle

l’argento, è sole l’oro, è mare il vino.

Rubò per noi, dal cielo, sull’Olimpo,

Prométeo non solo il fuoco, estrasse

col fuoco anche la vita. Ed è per questo

che vivere c’infiamma. E quando muore

una vita si dice che si spegne.

Io canto questo fuoco, io dico questa

vita. Ti fa paura, che la fuggi? -

Si alza. Scruta l’orizzonte.


Nelle notti serene, quando tace

d’estate all’improvviso la cicala,

egli veniva e parlavamo insieme

del canto che finisce, di quest’altro

nuovo che allora ci nasceva dentro.

Il dolce sguardo e la soave mano

anche lui travagliava della stessa

inflessibile dea. Ma un altro dio,

più tremendo, più forte, più selvaggio,

lo dominava. E lo scagliava fuori

nelle lotte, lo dava tutto in pasto

ai furori dell’odio. Una crudele

febbre squassava la sua vita, come

vento d’estate sui monti le cime

degli alberi. Ma c’era il vino. Colmo

d’un’altra ebbrezza il cuore allora un altro

vento la mente gli sferzava, e altri

canti, con più gioiosa e aperta voce,

ad altro dio la bocca gli cantava. -


Si siede, in atto di accingersi a conversare.


Mio dolcissimo amico, tu, il più puro

dei miei più dolci canti.come sono

quelle notti d’estate ora lontane!

Dove vegli, esiliato? quale terra,

in quale mare, sotto quale cielo,

tutta tremando ascolta ora il tuo canto?

E’ di discordia anche quello che in terre

ora canti lontane? Ma tu credi

che altrove meno ingiusta sia la gente

di quella che lasciasti disgustato

in quest’isola, dove insieme, pazzi,

noi due sognammo un mondo dove il cuore

fosse libero, e mai venisse a colpa

poi additata la delicatezza

di questa libertà? Ma fa paura,

essere come siamo, a quella massa

che vuole dominarci per fondare

un mondo di soprusi e di appetiti.

Gente corrotta intorno a sé non ama

l’onestà, e non puoi a chi s’ingozza

chiedere di mangiare più discreto.

Nasce libero chi la propria vita

costruisce: chi libero non nasce,

la vita la sparpaglia, se ne spalma

addosso quanta più ne può, la ingoia

in una volta tutta quanta, e resta

ancora con la fame. Questi sono

gli uomini che sprezzi, ma che, come

vedi, stanno sul trono e hanno potere

di scacciarti, perché non assomiglia

a nessuno di loro la tua vita.

E tu, potevi credere di avere

la forza di cambiarli, o quanto meno

sottometterli, questi, che tu odiavi

per la loro bassezza, ma che sono

molti, e tu uno sei, anche tra i pochi

delle stesso tuo rango, da te tutti

diversi? Qui nessuno, adesso, sente

la tua mancanza: non la sente, certo,

chi t’è nemico, ma nemmeno quelli

che credi amici vogliono davvero

il tuo ritorno. Fingono amicizia,

perché il tuo nome a loro porta onore,

ma che da qui tu stia lontano, è cosa

che li rende beati. Uno di meno,

intorno al piatto, il più intelligente,

il più puro, e perciò pericoloso,

perché troppo diverso da quei pochi

che sono uguali a tutti i molti uguali. -

Ma tu resta così. Sei sempre, amico,

degli ottimi il migliore, e sei te stesso,

solo te stesso. E’ questo che fa rabbia

agli altri. Tu, però, potresti, o caro,

qui venire per me, per me soltanto.

La tua amica, sappi che non cambia.

Come potrebbe? E dunque, come sempre,

sta qui, sola, che aspetta accanto un corpo

che la inviti a dormire. Senza sonno

passa la notte, sorge senza pace

il giorno e senza speranza si chiude.














III.


La stessa scena. E’ il tramonto. La stanza è tutta invasa da una luce rossa. Si ode lo sciabordio del mare. LA DONNA sta sdraiata bocconi per terra, con le braccia allargate. Parla, sillaba, piano, l’inizio di un canto.


LA DONNA Come zaffiri o come luminose

perle da mano in cielo conficcate

amoroso ricamo tutte quante

stanno le stelle.


Ma quando poi compare il grande disco

della luna, la luce invade il cielo,

scompaiono le stelle, ed è d’argento

tutta la notte.


Alza la testa. Sta china, con le braccia tese, poggiando tutto il peso del corpo sulle dita delle mani. Sillaba un altro canto.


Sei venuta! Ti vedo, finalmente!

Hai fatto bene. Il cuore si struggeva

di desiderio e mi sentivo morta.

Nasce la vita.


Si alza in piedi, nervosa, agitata.


No! Non è vero! Non è più, da questo

momento, vero, e io non posso, adesso,

più cantarlo, perché non è più vero

per me! Non viene più. Non verrà mai.

Non sarà vero mai più per nessuno.

Le parole si perdono, si sfanno,

hanno solo la nuda consistenza

dell’aria che nell’attimo le accoglie. -

Ma come! così povera la voce

s'è fatta del mio canto, che cantare

non so, non posso, il canto che non vivo?

E non è invece canto ciò ch’io vivo?

o fino a questo punto mi dispero,

che lontana da me non mi conosco?

fuggita, e dove, negli affanni calma,

nei tormenti serena, la mia voce? -

Mai! mai! mai! Tutti:dolci, amari, duri,

molli, soavi, acerbi, sono canti

della mia voce. Tutti: di speranza,

quando il mio cuore annega; di allegria,

quando ride. M’è sollievo il pianto,

mi ridesta il dolore. Sono tutte

le voci della vita, tutte muove

la stessa forza che muove la vita. -

Non mi passano invano accanto, le ore,

se so questo. - Ma passano. E non dentro,

passano scivolando accanto, come

l’acqua che scorre, come, tra le mani,

grandi, bianche farfalle. Tutto torna

al suo punto, anche il vano e ripetuto

attenderti. Per un respiro, l’aria

che dalla tua trapassa nella mia

bocca, e udire altre, non più mie, parole,

da te che aspetto, e che aspettando amare

mi fai l’attesa, che te solo aspetta. -

Ma che follia! Ho così tante volte

cantato quest’attesa, questa mia

solitudine, che mi pare il suo

sapore ormai restarmi sulle labbra,

attaccato. E più, quasi, non sentirlo.

Ma sto qua, io sto qua: e aspetto, aspetto!

Una donna è più sola, tutta quanta

la sua vita. Non bastano le poche

ore di gioia dell’amato, e meno

ancora dell’amata, per riempire

il grande vuoto dei contatti e scopo

riscoprire nei giorni sempre uguali.

A me le Muse il canto, un grande dono

diedero, che mi colma tutte le ore

del giorno, che m’affonda dentro il sacro

segreto delle cose e per me sola

l’oscurità dell’essere rischiara,

come nel cielo d’un’oscura notte

l’improvviso apparire della luna.

Anche la luna è sola, in mezzo al cielo,

troppo piccole intorno a lei le stelle,

troppo lontane. Come luna, dono

anch’io senza ritorno la mia luce.

Ma le stelle che attorno a me da lungo

ordine d’anni bevono la luce

del mio canto, col canto del ricordo,

anche lontane, restano nel cuore.

Vive di chi ritorna la memoria:

e chi, lasciata questa casa, torna

col pensiero all’amore in cui conobbe,

per me, se stessa, sillaba il mio canto,

e lo sillaba insieme a me, per sempre. -

L’uomo mi chiede tutta la mia vita,

e di sé solo lascia ch’io mi goda

una piccola parte: anche se grande

quella fu che dal padre di mia figlia

non l’obbligo concesse, ma l’amore.

Ma chi con me, per me stava nel punto

che da me venne fuori, a respirare

e a guardare la luce, una bambina,

il tesoro più grande di una donna?

Ero sola, dovevo essere sola.

Certo, l’amore dell’amato io dentro

lo sentivo nel frutto che m’usciva

dalla vagina: ma quel corpicino,

quella bocca già pronta per il grido,

quegli occhi ancora chiusi, ma che presto

avrebbero veduto il chiaro giorno,

e il mare azzurro, e il cielo luminoso,

quella piccola cosa era una vita,

e quella vita usciva dal mio corpo

come una vita che da me si stacca,

era mia, tutta mia la nuova vita

che nasceva. Non ebbi con mia figlia

più stretta unione mai né più completa

solitudine. Tutta mia, ma tutta

già staccata da me. Via via cogli anni

compresi che nasceva in quel momento

il dolcissimo e tuttavia struggente

amore d’una madre per la figlia,

quasi l’estremo denudato amore

di se stessa. Guardavo quel mio fiore

sbocciare, rassodarsi, la bambina

farsi una donna, inturgidirsi il senso,

impiumarsi le labbra della vita.

Ami nel figlio la vita che doni,

ma nella figlia la tua vita stessa

che si ripete. Un figlio si possiede,

e lo si stringe come in sé si stringe

un amante. Perciò quando si stacca,

il tuo cuore si spezza, come quando

t’abbandona un amante. Nulla chiedi

a una figlia. Ti basta riscoprire

in lei te stessa. Mai da me non ebbe

di mia figlia nessuna donna dolci

più le carezze, né con più tremante

pensiero la bellezza contemplata,

quasi con la paura di sfiorarla,

come potesse sotto le mie dita

squamarsi, lacerarsi la sua pelle,

e, ancora peggio, paura di vederla

senza delicatezza profanare

da troppi sguardi, e mani grossolane,

indegni, e mani e sguardi, di pensare

un’occhiata, un contatto. Inaridirsi

le foglie d’una rosa, e raggrinzirsi

come al contatto di una fiamma ho visto

i petali del fiore, impuro sguardo

o indegna mano se la respirante

e profumata vita ne ghermisse

anche lontano col pensiero e appena

li sfiorasse col tocco delle dita.

Eppure, anche mia figlia, una mattina,

gonfi gli occhi di lacrime, da questa

casa, cantando, è uscita per un’altra

casa, dove altre mani l’hanno accolta,

e carezzata, e sorridendo un’altra

bocca per altri baci l’aspettava.

Credo che dal mio cuore uscito tutto

fosse il mio sangue, pallida nel volto

come l’erba, le gambe senza forza,

e la mente svuotata. Ma seguivo

ogni suo passo, amavo ogni suo passo,

io stessa quei suoi passi, uno per uno,

avevo contrattato, avevo io stessa

deciso l’abbandono e l’affidavo

a quelle mani, la donavo, triste

per l’abbandono e lieta di donare,

alla giovane bocca che l’amava

non più di me, ma d’altro e più fecondo

amore. Ma da me soltanto appresa,

l’arte di darle le carezze, l’arte

d’amore che non chiede, gli svelava.

Mi figuro il sorriso, mi figuro

i dolci e grati baci che la bocca

del bel giovane andava uno per uno

sulle guance, sugli occhi, sulla fronte,

sul collo e sulle labbra dolcemente

depositando. Mi figuro il nero

e luminoso sguardo che la svela,

l’impeto che la coglie, l’improvviso

fiotto che le sue viscere ricolma.

Ora è madre anche lei. E mi regala

ore divine, quando viene, il nero

ciuffo del suo bambino. - Tutto questo

è accaduto aspettandoti. Parole

dietro parole, ti confesso tutta

la mia vita. Che tu già conosci.

Ti aspetto ancora. Oh vieni, te ne prego.

Se dico “vieni”, ecco, la mia parola

forse ha potere di chiamarti. Forse

tu non resisti, quando dico “vieni”.

Vieni! t’aspetto. Vieni. Tutto questo

è accaduto aspettandoti. Potrebbe

accadere di nuovo. E accade. Accade.

Il silenzio con cui nel mare il sole,

vedi, si tuffa, è uguale al tuo silenzio.

Il silenzio di sempre. Tutto questo

è accaduto aspettandoti: e io, pazza,

fingo che ancora accada, parlo come

tu stessi qua, per ascoltarmi. Parla,

io sono stanca di ascoltare solo

la mia voce. - Si svuota tutta l’aria

della stanza, inghiottita dal silenzio.

E soffoco. Non poso respirare.

Forse sarà così che lascio il mondo:

inghiottita dall’aria, dal silenzio

che mi soffoca. E sola, nel mio letto,

aspettando l’insonnia. Verrà invece

il sonno, questa volta. E la mia voce,

finalmente, farà silenzio. Tutte

le mie parole. Dimenticheranno

tutte le mie parole. Veramente

nel mondo si farà silenzio. Almeno

in questa stanza. Almeno, finalmente,

per me. - Dopo, se credi, puoi venire.

Io non t’aspetterò. E tu avrai pace.












IV.


La stessa scena. E’ notte fonda. LA DONNA sta distesa sulla panca, come nella prima scena.


LA DONNA Quello che resta. Oh sì! quello che resta.

E scendere più a fondo. Alle radici

del desiderio. Entrare nella notte,

dentro me stessa. Questa è l’ora giusta.

La luna è tramontata. Tramontate

sono tutte le stelle. Nel mio letto,

io sto sola. Sospendo il sogno e guardo

fuggire il sonno. E aspetto un’altra volta

l’alba. Non mi spaventa più la corsa

dei pensieri. Sferzatemi la mente,

bocche del desiderio. Il Cane morde

l’ultimo morso e il cielo si arroventa.

Adone, Adone. Pleiadi notturne

non rinfrescano d’una sola stilla

dal cielo il tuo giardino inaridito.

Evapora il profumo che ci avvinse,

l’ebbrezza che ci colse si dissolve:

infuoca il Sole, adesso, e Noto sperde,

nei deserti d’Arabia o tra le dune

di Cyrene, la rena che travolta

si fa ricordo della tua bellezza.

Non valse a nulla il tuo passare. Piange,

per te, senza speranza, perfino una

dea, ma dove vai non può seguirti.

Nemmeno a me più parla. Noi si passa,

e del nostro passare, come foglie

che cadono l’inverno, dopo breve

tempo, anche passa la memoria. Spazza

via le carezze, i baci, dalla pelle,

e cancella gli sguardi. Come foglie

la prima pioggia. Peggio per chi ancora

ne brucia e sopravvive al vento, all’acqua,

fuoco inestinto, fremito testardo.

Quello che resta, sì, quello che resta.


Si alza. Non trova riposo. Le mani s’intrecciano, le dita si agitano, afferrano oggetti nell’aria, accarezzano immaginarie figure, scivolano lievi sul lino che copre la panca.


Il fremito deluso e, inappagata,

l’ora che non s’estingue, che rinvia

sempre a quella che segue la sconfitta

dell’attenderti. Tante, mi si dice,

tante, quello che quest’una ti nega

vorrebbero donarti e il delicato

umido primo intatto fiore accolto

saprebbero da te di giovinezza.

Un inno canterebbero le loro

labbra per te di scatenata gioia,

susurrarlo lo udresti di serena

felicità sulle tue labbra. Dunque,

perché ti ostini? - Ma io non m’ostino.

Io muoio e muoio adesso per quest’una.

Forse un’altra, chi sa, domani, quella

che oggi trascuro e che me soffocare

vede per un rifiuto, mentre cieca

non vedo lei che soffre, lei che sente

sulla pelle l’ignara indifferenza

del mio sguardo, il rifiuto dei miei sensi,

e io che all’altra chiedo di guardarmi,

non so, guardando nei suoi occhi, il giorno,

leggere i desideri della notte,

ah sì! m’accenderei forse, bruciando

per quest’altra più forte di come ora

brucio per lei che mi rifiuta, e forse

inferiore costei mi sembrerebbe

alla mia sofferenza, mentre l’altra,

che sta nascosta, e che in silenzio soffre

l’umiliazione d’essere respinta,

l’altra, sì, l’altra, finalmente, intere

al desiderio m’offrirebbe le ore

della notte. - Ma è questa la mia notte!

Perché, ditemi, chi può comandare

ai sensi? Io non soffro per chi m’ama,

soffro per chi non m’ama. E come posso

dunque pensare che inferiore scorga

alla mia sofferenza quella che ora

mi fa soffrire? - Ma che cosa voglio

io da lei? e, perché, da lei negato

ciò che voglio, ne soffro? Vero amore

farebbe amare ciò che ama l’amata,

e non amare ciò che lei non ama. -

Essere amati è bello, ma grandezza,

anche se non amati, amare. - Forse. -

Mi si spacca il cervello. Sento freddo.

La notte mi raggela ciò che il giorno

m’infuoca. Eppure, dentro il gelo, brucia

il fuoco d’una febbre che i pensieri

mi fa rabbrividire nella mente.

Una parte di me non vuole quello

che vuole l’altra parte. Devo andare

fino in fondo. Capire fino in fondo. -

Non è ancora la notte tutta intera

trascorsa. E non ancora si rischiara

sopra le onde del mare l’orizzonte.

Posso ancora aspettarti. Forse arrivi

quando tutte mi sembrano cadute,

per sempre, le speranze di vederti.

E anche se non vieni, questa notte,

verrai, forse, domani. O, chi sa, dopo,

una notte che non t’aspetto, e tutto,

fino a quel punto, sarà stato il tempo

dell’attenderti come il predisporsi

al canto della voce, come l’ora

vuota senza parole che prepara

il sillabarsi dei pensieri, o come,

prima di cominciare il canto, l’ansia

di mancarlo che soffoca il respiro.

Ma tutto questo tempo poi trascorso,

e tutto senza te trascorso, è nulla,

io non potrò mai più di te colmarlo,

sarà per me, per te, per noi perduto,

e perduto per sempre. Il desiderio,

che di te mi divora, non è, credo,

possederti: mi disprezzassi, giusto

sarebbe il tuo disprezzo. No, non voglio

il tuo possesso: è ancora troppo poco.

Voglio il tuo cuore. Non ti chiedo quello

che non vuoi darmi, ma ti chiedo quello

che solo posso chiederti: di darmi

tu stessa quello che ti chiedo. Troppo,

ti sembra? E’ poco. Tutta, o cara, quando

vieni, ti voglio: e tutt’avrai me stessa.

Tutta in quell’ora. Dimenticheremo

il tempo dell’attesa. Non avremo

altro tempo che l’ora dell’incontro.

Saremo entrambe il tempo di quell’ora,

l’una per l’altra l’essere indiviso,

immobile, del flusso che c’ingoia.

E fuori di quel punto, entrambe nulla.

Ogni prima soppresso, nessun dopo

oltre quel punto scorre nella mente,

se l’essere che annoda le parole

alle cose ci stringe nel silenzio. -

Ma tu non vieni! E tutto questo è stato

un sogno. - Lo sospendo. Per guardare,

una per una, le lunghe ore vuote

di quest’attesa ormai precipitarsi

al deserto dell’alba. Per guardare,

dentro me stessa, dentro il mio delirio,

la mia paura. Io non finisco all’alba

il sogno che sospendo. Lo ripeto

ogni notte, ogni notte lo ripeto

uguale. Una paura lo sospende:

ma, sospeso, si vendica, e ne resta

una scheggia incompleta, e questa scheggia

si ripete ogni notte, si ripete

incompleta ogni notte, come ruota

che gira sempre nello stesso solco. -

Invecchio. Il desiderio resta indietro

alla corsa degli anni. La mia mente

è ancora di bambina. Ma gli dei

non diedero al mio corpo questa stessa

eterna fanciullezza. Se mi guardo

allo specchio, capisco il tuo rifiuto.

Ma non capisco il cuore. Non capisco

il tuo, non capisco il mio. Cedo

alla condanna senz’appello. Cedo

alla fuga dei giorni, al declinare

dei sorrisi, allo spegnersi degli occhi,

quando guardo. Nessuna che m’inviti,

se prima non la invito. Chiusa in questa

stanza, su questo letto, invoco invano

un corpo, inascoltata chiedo un cuore.

Muore giovane, chi è caro agli dei.

Verrà quel giorno anche per me. Paura

non ho di abbandonare questo mondo,

di non vedere più la luce. Cara

mi fu, mentre la vissi, la mia vita.

Ora la guardo. Ora comincio a uscirne.

E voglio uscirne non come vi entrai,

senza coscienza. L’ultimo commiato,

voglio vederlo. E udire intorno solo

il mio rantolo. Senza pianti, senza

grida di donne. Uscirne sola, come

la vissi. Sola con me stessa: senza

altre parole che le mie. Morire

col canto sulla bocca. Il solo sogno

che non sospesi mai, che ancora dura. -


Entra, nella stanza, la luce dell’alba.





FINE





Venezia, 8 agosto 1993 - Salisburgo, 16 agosto 1993.

Revisioni:

Roma, 12 ottobre 1993.

Venezia, 12 marzo 2003.