lunedì 15 dicembre 2014

Rispetto della morte, anche di un gatto, post recuperato

Ieri notte, in mezzo alla strada, sulla Tiberina, c’era un gatto bianco e grigio travolto da una macchina. Ho raccolto il corpicino. Ancora caldo. E l’ho deposto sull’erba, nelle aiuole che fiancheggiano la strada. La civiltà umana è nata il giorno che un gruppo di uomini decide di seppellire propri morti. Nel mondo di oggi sembra di ritornare a un’epoca che precede questa civiltà. Sulle nostre strade si travolgono uomini senza fermarsi a soccorrerli. Che meraviglia se si lascia per terra un gatto ammazzato dalle ruote di un’automobile? E per un attimo ho tremato: così steso per terra, sembrava il mio Cherubino! Questa è la scintilla che ha acceso la mia riflessione. Il corpicino di un gatto morto non è nulla per chi non ha nessun rapporto emotivo con l’animale. Ma per chi può, e teme, di riconoscervi la perdita di un legame insostituibile, è un impatto che spinge a riflettere sui cardini dell’esistere. Come quando Aristotele osserva che la nobiltà di una scienza non si misura con la nobiltà del suo oggetto, bensì con la giustezza del suo metodo d’indagine. Anche lo studio di un verme (sì, dice proprio così!) può nobilitare una ricerca scientifica, se il metodo d’indagine è corretto. Ecco, temo (di nuovo!), invece, che il nostro rapporto con gli animali, oggi, sia distorto. O un investimento eccessivo, che trasforma l’animale in una creatura che non è, un essere uguale all’uomo, o addirittura superiore (“gli animali sono migliori degli uomini”), oppure un cinico disprezzo, che li considera inferiori e perciò insensibili. Gli uni e gli altri dimenticano che anche noi siamo animali, mammiferi, come il lupo, il cane, il gatto. Ma anche il delfino, l’orso, la volpe.


Fiano Romano, 12 novembre 2014 

Come ascoltare la musica

Schubert non scriveva per tutti, ma prima di tutto per la sua cerchia di amici, e poi per l’aristocrazia e borghesia e piccola borghesia viennese che condivideva i suoi codici estetici. L’idea - populistica – che tutti debbano apprezzare la sua musica col solo sentimento, è un’idiozia. La borghesia di oggi non conosce quei codici estetici. Deve dunque appropriarsene. Quanto agli “operai” erano e sono esclusi dai modelli musicali e dalle intenzioni di Schubert, ma anche di Beethoven, Schumann, Wagner, Verdi. Che Verdi fosse capito dal “popolo” italiano è una menzogna. Lo apprezzava una certa borghesia illuminata, e per di più fraintendendo le sue intenzioni. Se andiamo indietro, la cerchia dei destinatari si restringe. L’Ars Nova francese si rivolge all’aristocrazia feudale ed ecclesiastica, che la capiva, ma spesso anche proprio perciò la contrastava. Vitry e Machaut ereditano anzi la concezione trobadorica della cerchia chiusa, degli iniziati, che soli hanno la chiave per capire o, meglio, intendere i messaggi crittografici di quella musica. Né meglio andava alla corte di Ferrara, con la musica “reservata”. L’isolamento del compositore “intellettuale” non data da oggi, ma è tipica di oggi la velleità di accostarlo senza filtri culturali. Ricordo che ancora allo scoppio della prima guerra mondiale solo il 10 % degli italiani capiva il toscano, divenuto lingua di tutti solo sui libri, e di questo 10 % solo il 10 % sapeva leggere e scrivere. Leggetevi Migliorini e De Mauro e le loro storie della lingua italiana. O la vostra idea degli italiani e della cultura italiana è un fantasma mai esistito. Ciò detto era possibile che un contadino analfabeta della Stiria apprezzasse un Lied di Schubert, ma perché parte de i modelli musicali di riferimento erano gli stessi, vale a dire le melodie.  I modelli musicali del proletariato odierno, ormai trasformatosi in piccola borghesia, non hanno invece niente in comune con la cosiddetta musica “colta” di oggi, e, mi dispiace, ancora meno con quelli di Schubert e di Beethoven. Ciò che fa loro credere di poterli apprezzare è solo l’uso della tonalità. Sfido, perciò, i digiuni di cultura musicale adeguata, che esuli dalla conoscenza di non più di due secoli di musica, diciamo da Bach al primo Schoenberg, a trovare il sentimento di un motetto (si scrive così, con una sola t) di Machaut o di un madrigale di Luzzasco Luzzaschi. O intendere davvero il senso di un sonetto di Guido Cavalcanti.


Fiano Romano, 14 dicembre 2014

lunedì 6 ottobre 2014

L'analfabetismo musicale degli italiani

La musica non vive nella stratosfera, ma nel mondo e nei paesi. Ora in Italia, salvo a riempirsi la bocca delle glorie nazionali, gli italiani non sembrano mostrare molto interesse per la musica. Ai concerti non sembra esserci la partecipazione che si riscontra in altri paesi. Salvo che non ci sia un divo (ma un quartetto, un trio non diventeranno mai divi da noi!). Per non parlare, poi, della musica preclassica e post romantica. Il pubblico italiano è grasso che colsa se segue da Mozart a Debussy, Vivaldi forse solo perché italiano (ma certo, non il suo teatro, non la sua musica per la chiesa). Handel è di repertorio in tutto il mondo, non da noi. Idem Bruckner o Bartok. A Salisburgo ho visto gente che chiedeva un biglietto davanti alla chiesa dove si rappresentava "Luci mie traditrici" di Sciarrino! Da noi disertano il teatro. La classe politica cavalca l'andazzo. Le ragioni sono molteplici. Una probabilmente la scarsa cultura musicale del pubblico italiano, o forse addirittura la scarsa cultura tout court. Se il direttore di un importante giornale italiano, che si proclama anche uomo di cultura, può scrivere impunemente che Chopin ha scritto quartetti, che farà chi dichiara di non essere all'altezza, chi magari non distingue Chopin da Brahms? Partire dalla scuola, dall'asilo nido? Magari! Sarebbe una strada. Ho studiato in Argentina fino ai 14 anni, e nelle scuole elementari e poi nelle secondarie s'insegna a leggere la musica, a cantare e chi vuole a suonare. Nelle scuole! Il fenomeno venezuelano non è un'eccezione, ma la punta di un fenomeno comune, in un continente nel quale la cultura musicale, e non solo quella, è diffusa. Del resto non è per caso che almeno dieci dei più grandi scrittori del novecento appartengano all'Anerica Latina, e almeno cinque siano argentini. Recentemente ho letto su un giornale dell' "emergente cinema argentino"? Emergente? Ma è da decenni che il cinema argentino è notevole. Siamo solo noi italiani, più etnocentrici e sciovinisti dei francesi, ad accorgercene adesso!

domenica 21 settembre 2014

Un errore ortografico che denota ignoranza e superficialità





Leggo sulla “Repubblica” di oggi, domenica 21 settembre:


“Diciannove anni fa morì, adesso ha undici figli”. Cosa
succede se uno scrittore (ateo) israeliano improvvisamente si ritrova un’hassidim
in casa. (pag. 38)


Il titolista o il tipografo non conoscono l’ebraico, o non
sanno che in altre lingue la consonante h (sì: è una consonante!) si pronuncia,
e segna una forte aspirazione, simile a quella segnata dal carattere “j” in
spagnolo, o dalla combinazione “ch” in tedesco, per esempio, “ach”, corrispondente
al nostro “ah” Poco male, ma nessuno li obbligava a usare un termine ebraico,
potevano usare il termine italiano “ortodosso”. Non sarebbe, comunque, incorso
nell’errore, se avesse usato la più corretta traslitterazione “chasidim”. Faccio,
però, notare che “chasidim” è il plurale di “chasid”. Il titolista avrebbe
dunque dovuto scrivere: “ ... si ritrova una chassid in casa”. Infine, poiché
il titolista scrive in italiano, faccio notare che l’uso di “cosa” al posto di “che
cosa”  è scorretto, anche se si tratta
ormai di un uso abusato, e il gioco di parole è voluto.  In ogni caso ciò che mi irrita davanti a
simili strafalcioni è la presunzione di usare termini di cui s’ignora la provenienza
linguistica e la pronuncia e, in più, la superficialità con cui si crede, avventurandosi
in territori sconosciuti,  ma d’effetto, di
fare bella figura.


Fiano Romano, 21 settembre 2014.

martedì 9 settembre 2014

Un racconto pitagorico

Un breve racconto "pitagorico". Che è anche un omaggio a un grande amico scoparso: Francesco Pennisi. Aspetto i vostri commenti.


DINO VILLATICO 

LA MUSICA DELLA DISTANZA 

A Francesco Pennisi, in memoriam. 

Il porto di Samo era in fermento. Come ogni giorno, all’ora del tramonto si animava della vita molteplice e tumultuosa di un’importante città commerciale. Tornavano le barche dei pescatori e, una volta approdate,  il pesce veniva scaricato in grandi ceste di vimini. Seduto a una bottega di vino Pythagoras guardava il movimento dei marinai che scendevano dalle navi da carico, dei facchini che portavano nelle capaci stive le cassette di merce da spedire. La vista di quei pesci agonizzanti lo intristiva. Ancora più lo tormentava l’odore pungente della carne d’agnello che abbrustoliva sui carboni, davanti alle taverne. I marinai, passando, compravano uno spiedino e una focaccia. E mangiavano. Si alzò, e si diresse verso la punta estrema del molo, dove i due moli del porto si spalancavano al mare aperto e dove un grande scoglio bianco e roseo si tuffava nell’acqua, le onde vi si rifrangevano e schiumando cullavano l’orecchio con uno sciabordio dal ritmo costante, quasi un invito a condividerne la musica con un bagno ristoratore. Si sedette sul ciglio dello scoglio e guardò lontano dove s’immaginava la costa della Lidia e il porto di Mileto. Cambise era stato certamente inghiottito dal deserto. E con lui tutta l’armata della spedizione egiziana. Lui, il matematico conteso da egiziani e persiani, aveva invece avuto fortuna. Era scampato allo stesso tremendo destino per poco, appena una settimana d’ancitipo nella partenza dal porto di Menfi. In Egitto si era sentito preso tra due morse: Psammetico si credeva giustamente tradito da Polycrates, tiranno di Samo e amico di Pythagoras, passato dalla notte al giorno nel campo persiano, visti gli esiti della spedizione, e Cambise diffidava, anche lui a ragione, delle promesse di fedeltà proferite da un greco, che poteva così facilmente e così leggermente cambiare alleanze. Probabilmente la spedizione era stata sorpresa, al ritorno, nel deserto da una tempesta di sabbia. Ma Dario, a Babilonia, era stato generoso con lui. L’avrebbe voluto trattenere. A osservare il corso delle stelle dai giardini del Palazzo. Ma lui aveva voluto ritornare alla natia Samo, da dove in seguito – ma questo non lo disse a Dario - sarebbe tornato in Italia, a Crotone. Gli venne in mente il commiato da Anassimandro, più di venti anni prima. E quell’affermazione di Senofane che il vecchio filosofo ripeteva ossessivamente, come se più che gli altri volesse convincere se stesso: se mosche, rane, cavalli, scimmie avessero dei, se li raffigurerebbero come mosche, rane, cavalli, e scimmie. “Ricordalo, figliolo”, sospirava, fissando un punto lontano: “non dimenticarlo mai. Il sangue degli dei, nel caso,” soggiungeva poi, guardandolo fisso negli occhi: “non sarebbe diverso dal sangue di qualunque animale. Non ci sarebbe sicuramente nessuna differenza tra un uomo e un dio, come non ce n’è tra un uomo e un animale. E anche il dio sarebbe mortale”. E qui sciorinava le sue teorie teologiche. Iside aveva mummificato un cadavere, e Asclepio aveva rimesso insieme i pezzi di un bel giovane un po’ effeminato dialaniato dai Titani. Ma solo la semplicità di chi presta fede alle favole poteva supporre che Osiride o Dioniso fossero dei e fossero immortali. Poco importa se il popolino avrebbe voluto lapidarlo per queste bestemmie. Poco lontano si ergeva la città di Efeso. Al tempio di Artemide accorrevano fedeli e viaggiatori da tutta l’Asia, dalle isole dell’Egeo e dalla Grecia, arrivavano dalla Tracia e dalla Macedonia, dalla Sicilia e dalla Magna Grecia, dalla Scizia e dell’Egitto. Avrebbero costoro invocato invano fecondità dalla dea generosa? Le mammelle di capra che le pendevano sul petto non stavano lì a dimostrare l’attitudine benevola della dea? “Sempre che sia una dea”, rispondeva Anassimandro: “e non un fantasma delle nostre paure”. Chi sa che cosa ne pensavano della dea cacciatrice gazzelle e cerbiatti, lepri e fagiani, cinghiali e leoni.

Perché uccidere per vivere? pensò Pythagoras. Il lezzo della carne abbrustolita si allontanava. Gli uomini si ammazzano per una fettuccia di terra, e ammazzano per il possesso di un bue, di una donna, per affogare le carni della vittima nel vino prima d’ ingozzarsene. Meritavano di rinascere rospi, serpenti, zanzare, sciacalli. Vero che anche le bestie uccidono. Ma per necessità, per fame. A volte, tuttavia, pensando alla vita degli animali selvaggi, nemmeno la natura gli appariva troppo benigna, gli sembrava anzi una grande beccheria, dove si attuavano le più efferate carneficine, un mattatoio sterminato che non risparmia nessuno. Gli accadeva di commuoversi per lo sgozzamento di un maiale come se si stesse scannando un bambino. Gli strilli erano esattamente gli stessi. Alle sue spalle tramontava il sole, dietro la montagna. Il mare davanti a lui s’era tinto di rosso. Il Cane[1] ancora non appariva nel cielo. Ma non ne aveva bisogno per il viaggio, la direzione verso la quale sarebbe partito l’indomani era esattamente l’opposta: avrebbe sciolto le vele contro il soffio di Noto, e poi sarebbe corso incontro a Zefiro, verso le nuove terre dei Calabri, una volta voltata l’isola di Citera, nel cui mare lo sperma di Ourano fecondando i flutti scuri come il vino aveva generato Afrodite. Sentiva spalancarsi un grande lago nel cervello: l’anima è là. E dalle limpide notti di Menfi trascorreva ai caldi e afosi tramonti di Babilonia. Chi l’avrebbe detto, quando a 20 anni incontrò per la prima volta Talete? Le notti estive dell’Anatolia erano più chiare delle brumose notti di Samo. Lo avevano sfidato, e lui aveva trovato la dimostrazione del teorema: bastava costruire  altre tre copie del triangolo e ruotarle via via di 90, 180, 270 gradi e infine combinarli, incastrarli, ecco ottenuto il quadrato. La superficie d’acqua che si stendeva dal porto di Samo alle coste della Lidia poteva raffigurare l’ipotenusa di un immaginario triangolo,  i cui lati minori sprofondavano nell’Egeo o s’alzavano al cielo per sfiorare le Pleiadi. Ma da qui all’Alfa di Boote, la luminosa stella di Arturo, quale ipotenusa misurerà la distanza del mio desiderio di spazi? Nelle notti di Babilonia il cielo m’appariva come un immenso libro da decifrare. Era scritto tutto lassù, perfino il mio occhio che leggeva nel cielo le tracce dei miei passi sulla terra. Forse ha ragione Talete quando dice che la vita comincia dal mare. Ma prima del mare? E se il mare è l’uno da cui tutto proviene, la terra sarà due? e chi l’ha fatta sorgere? chi le ha dato forma? Non ci sarà forse, dietro, o prima, del mare e della terra, un’altra realtà più generale e più concreta, che è il vero principio delle cose? O vaneggiava a cercare un principio prima del primo principio, un accadimento prima dell’inizio del tempo? Dall’uno il due, uno e due fanno tre, e fa cinque, raddoppiato dieci: l’intero universo. Ma prima dell’uno non c’è niente. La domanda nasce perché veniamo dopo, e siamo dunque abituati a calcolare una successione di eventi. Prima del primo evento non esistono eventi. Il quadrato di un segmento è lo spazio in cui il Caos si fa Ordine. Che la pianta, la più umile delle piante, come il più nobile degli animali, il cavallo, l’uomo, abbiano bisogno di congiungersi con un’altra pianta, un altro animale, per generare una nuova vita, non è senza significato. Ma per fermare il ciclo delle rinascite bisognerà spogliarsi della propria individualità, dell’orgoglio di credersi unici, lasciare senza rimpianto la propria storia individuale per riaffondare nel flusso degli elementi. Bisogna smetterla d’illudersi stoltamente di essere speciali. Nell’immenso vuoto dell’universo la sfera terrestre è il punto in cui convergono gli afflati delle stelle, ma ciò non significa che sia l’astro più illustre. Nel corpo dell’animale si duplica ogni principio di movimento, che sia guardare, toccare, camminare: due occhi, due, quattro arti. Ecco come la nascita del due dall’uno s’imprime anche nella figura dell’animale. Ma il bisogno fondamentale resta quello di masticare: anche l’amore, se tra un uomo e una donna, resta un impulso a mangiare, a divorare l’altro. Si uccide sempre ciò che si ama. Come se si fosse incapaci di amare senza possedere, senz’assimilare l’oggetto del proprio amore. L’amore, a volte, se scatenato dal desiderio, assomiglia di più a un crimine che alla volontà di procurare all’altro il massimo bene. Il furore di un amante non è meno egoista della solitudine del misantropo.

Si alzò. E cominciò a passeggiare lungo il molo del porto. L’agitazione di poco prima s’era calmata, ma il molo s’era riempito ora di una folla festosa: gli allegri schiamazzi assordavano il cielo. Sui tavoli delle taverne brillavano le fiamme delle lucerne. Si udiva un vociare chiassoso e confuso. Dalle griglie saliva il fumo dei pesci arrostiti. Affrettò il passo, turandosi il naso. La visione della morte lo inorridiva. E ancora più lo sfruttamento della morte. Che ne sapeva il vecchio che ora frugava avido con le dita dentro la testa di un cefalo, estraendone la polpa saporita, quali pensieri avessero attraversato il cervello del cefalo prima di finire nella rete del pescatore? Ma che fatto era quella singola morte? Non ogni morte è uguale. Come nemmeno la nascita. Ogni cosa ha un’origine oppure è essa stessa un’origine. L’indeterminato, che non è ancora l’Uno, gli diceva Anassimandro, non ha origine, assomiglia al Caos da cui Orfeo fa nascere l’Uovo d’Argento, fecondato dal Cielo nel grembo della Notte, l’uccello dalle piume nere come la pece che volteggia da sempre sul vuoto primordiale. La creatura che viene alla luce, quando l’uovo si schiude, è l’Uno, Eros, che divide gli elementi e li connette, li accorda, li mescola, li armonizza. Ma questo è fantasia. Fiaba di nonna ubriaca. L’Indeterminato è cionostante un oggetto limitato, è increato e immortale, una sorta di principio universale delle cose, ma non è infinito come non sono infinite le cose che si producono dal suo corpo. Da esso nascono, infatti, tutte le cose, che necessariamente hanno una fine, e la loro fine è il termine di ogni processo di distruzione. Perché dato che le cose hanno un’origine, vanno incontro anche alla propria distruzione, eseguono così una sentenza di condanna, l’una sull’altra, condanna per il crimine di esistere, di separarsi dall’unità originaria, in conformità con la disposizione del tempo. Vivere è sempre separarsi da qualcosa. Sarebbe tornato a casa, avrebbe bollito la sua razione quotidiana di ortiche e cicoria. Anche mangiare piante decretava, certo, una condanna a morte. Ma almeno non vedeva la sofferenza del condannato. A passi lenti si dirigeva verso la sua casa, ai margini della città, in fondo a un viale fiancheggiato da platani. Ma si sentì trattenere per un braccio. Si voltò. Era il più giovane dei suoi allievi, Demetrio, lo guardava sorridendo, disse: “Ma te ne vai così, maestro?” “Che cosa vuoi che faccia per te?” “Per noi tutti”, replicò l’allievo: “Vedi? Sono tutti là sul molo che aspettano”.

Un gruppo di sette o otto ragazzi, in piedi davanti alle taverne, lo guardava e faceva cenni di saluto. Pythagoras sorrise, ricambiò il saluto. “Ma che cosa volete, ora, da me?” domandò. “Le Muse ti hanno fatto dono del canto”, disse Demetrio: “vieni in mezzo a noi e cantaci qualcosa”. “Ma non ho con me la mia lyra”. “Archidamo ha la sua con sé: stava giusto provando a ricordare sulle corde le melodie che ieri gli hai fatto ascoltare, pizzicando le tue”. I ragazzi avevano già preparato uno sgabello sul quale Pythagoras si lasciò trascinare e subito tutti gli furono allegramente intorno. “Cantaci la melodia di ieri”, chiese Archidamo consegnandogli la lyra. “L’invocazione all’Uno?” Pythagoras cominciò a pizzicare le corde. “Di là da questo braccio di mare c’è la città di Mileto”, disse, continuando a pizzicare le corde: “L’armonia lidia è la più adatta per quest’invocazione di armonia tra le cose”. Smise di provare lo strumento. E cominciò a cantare.

 

Zeus, che da sempre il destino consapevole osservi

del groviglio che annoda i mortali in un unico cappio

di sofferenze e di gioia, primo termine fisso

d’ogni consiglio, destinazione eterna del gioco

in cui vita nasce, rinasce cedendosi a morte,

ultimo segno d’ogni umana visibile cosa,

traccia sonora e segreta dell’invisibile mondo,

ecco, ti canto me stesso e ti chiedo placida quiete,

quella che mite tu rendi a chi osserva numero e legge,

nell’ordinato mistero che l’universo feconda:

canto quaggiù se proporzione canta di corde,

musica quale lassù rotazione intona di stelle?

Cantami, dio, dell’uno, del due, del cinque, del dieci,

l’indistruttibile ciclo che ci alimenta e sostiene. [2]

 

Quando il canto fu finito, Pythagoras si accorse che intorno a lui non c’erano più solo i ragazzi che lo avevano invitato a cantare, ma si era formato un grande cerchio di folla plaudente. Vecchi pescatori con le mani rugose, giovani marinai, e perfino donne con i bambini in braccio. Se tanto poteva sugli animi della gente semplice agire la melodia di un uomo, che cosa avrebbero detto e fatto quegli stessi uomini, che ora lo avevano ascoltato commossi, se avessero potuto udire le melodie che i suoi calcoli indovinavano nel moto degli astri?

“Sono stanco”, disse: “domani, lo sapete, parto per l’Italia. Ho bisogno di riposare”. “Avrai tutto il viaggio per dormire, maestro. Resta con noi, e brindiamo alla benevolenza di Dioniso. Glicera ha preparato una frittata di verdure per te”.

Quando si stese sul letto era già quasi l’alba. E tra poco sarebbe dovuto partire. Ma non aveva sonno. Una folla di pensieri gli arrovellava la mente, schiamazzando, non diversamente dalla folla degli allievi e dei cittadini di Samo che avevano cantato e bevuto con lui tutta la notte. Nell’inno cantato poco prima aveva dato per scontato che tra le proporzioni della divisione di una corda che producono i diversi intervalli musicali e le proporzioni celesti dei movimenti degli astri potesse esistere una corrispondenza. Ma l’ipotesi non era dimostrata, nessuna esperienza di una musica cosmica suffragava la suggestione della teoria. Esisteva un limite tra l’oggetto e la sua misura, che sembrava travalicare l’esperienza. Cinque mele, cinque noci, cinque pecore, cinque navi, cinque uomini, cinque donne sono gruppi diversi. Ma tutti hanno in comune il fatto di essere composti di cinque componenti. Quale la natura di questo numero? e quale il suo rapporto con gli elementi ai quali si aggregava? Sul corso di simili pensieri il suo cervello volava lontano. Che differenza tra Pythagoras, Demetrio, Archidamo, Glicera e il termine generico con cui vengono indicati, uomo, ragazzo, donna? Il numero, il nome, potevano sdoppiarsi, svilupparsi, l’uno farsi due, l’uomo diventare un vecchio, la donna una vecchia, il ragazzo un uomo virile. Ma Pythagoras non poteva che essere Pythagoras. E non stava già qui la radice dello sdoppiamento, del due, che lui fosse Pythagoras, ma anche un uomo? Tutta la realtà poteva dunque essere detta dai nomi, dai numeri? o solo i numeri avevano questo privilegio, di indicare il termine ultimo a cui possa essere ridotto un elemento, sia esso uomo, animale, albero o pietra?

Un gallo cantò da un orto vicino. Si alzò, si vestì. Mise nella bisaccia i pochi indumenti e i pochi oggetti che avrebbe portato con sé nel lungo viaggio: l’inseparabile lyra, una tavoletta, uno stilo, un papiro, un calamo egiziano. Il cuore gli batteva forte come quando a vent’anni gli venne incontro Talete. Ripensò alla notte trascorsa e, riudendo in mente il canto dell’Uno, fu assalito da una commozione irrefrenabile: che parte aveva quella musica nel suo cervello? e come poteva il suo cervello inventarla o trovarla, cantarla, ricordarla? o qualcosa prima di lui sopravviveva nel suo cervello e gli sarebbe sopravvissuto dopo la  morte? Con questa domanda percorse gli spazi celesti che lo dividevano dal cielo di Mileto, di Menfi e di Babilonia e lo avrebbero presto diviso, a Crotone, dal cielo di Samo. La dolcezza della melodia che aveva appena intonato quella notte gli si contrasse allora in una più struggente sensazione: un brivido che gli fendeva le vertebre dal capo al coccige. Percepiva, in maniera misteriosa, dentro il suo corpo, la ferita di un distacco insanabile. Che tuttavia non gli faceva male. S’insinuava, anzi, dolcemente negli occhi con visioni di cieli stellati e sulle labbra con il suono di melodie lontanissime. Nostalgia di un esiliato? o desiderio di un amante? O prima, o dopo, la dolcezza del canto non era lì. Esisteva già prima che nascesse, sarebbe continuata a esistere dopo la sua morte. Ricordo o desiderio che fosse, gli venne il sospetto che la musica, come il numero, non sia una realtà di qui, di adesso, ma il sogno di un prima o di un dopo che intravediamo come le nostre ombre proiettate dalle fiamme che crepitano ai nostri piedi sui muri di una caverna. Non bisognava farlo sapere a tutti, ma solo a chi fosse pronto ad accettarne la terribile realtà. La verità non è cibo per tutti, i più ne sono disgustati. Che vivessero dunque tra le loro fugaci e fallaci illusioni. Quanto a lui, e alla sua cerchia, non avrebbe mai più abbandonato il sogno di quella melodia, per quanto distante fossero il luogo da dove veniva e il mondo sconosciuto dove andava. Ma nessun altro luogo aveva, ormai, per lui la concretezza solida, indistruttibile, di quella incommensurabile e dolcissima distanza.

 

Roma, 15 marzo 2010



[1] La costellazione dell’Orsa.
[2] Tentativo di rendere nella metrica accentuativa dell’italiano la prosodia quantitativa dell’esametro classico: si considerano lunghe le sillabe toniche e brevi le sillabe atone.

Una noterella frivola (apparentemente!) e leggera.

Noi italiani abbiamo fama di essere superficiali e sciatti. Spesso non è vero, e in ogni caso non più di altri popoli. Tuttavia, per quel che riguarda i campi che abitualmente frequento, musica e letteratura, noto che l’indifferenza alla proprietà linguistica e l’analfabetismo musicale della maggior parte degli italiani fanno strage.  Qualche esempio.

La w non è carattere dell’alfabeto italiano, indica, però, una semiconsonante, o semivocale, a seconda delle lingue che l’adottano, assai diffusa in altre lingue, per esempio l’inglese, dove ha suono semivocalico, e il tedesco, nel quale ha invece il suono consonantico che corrisponde alla v italiana (la v in tedesco si pronuncia f, salvo che nella parola “violin”, in cui si pronuncia v, come in italiano). Ebbene, gli italiani sembrano provare una radicata resistenza a dire esattamente di quale carattere si tratta quando, in una sigla, si presenta la w. Non lo fanno quasi mai, e l’assimilano alla v. Così, per esempio, per il web dicono: “vuvuvu”, invece di “doppia vu doppia vu doppia vu”, come fanno i parlanti di tutte le altre lingue. Troppo lungo? Ma allora perché non dire “tre volte doppia vu” o addirittura “tripla doppia vu “? Così, una fabbrica tedesca di automobili, la BMW, che i tedeschi dicono, correttamente, “Be Em We”, per gli italiani diventa “Bi Emme Vu”, invece del corretto “Bi Emme Doppia Vu”. Peggio fanno gli annunciatori e le annunciatrici alla radio. L’Orchestra Giovanile Europea, sigla EUYO, da pronunciarsi “E U I greco O”, diventa “eùio”: che cosa capiscono gli ascoltatori che volessero cercare il sito internet? Sentono dirsi: “vuvuvu eùio”. Francamente, in questi casi, la fama di sciatteria e di superficialità è più che meritata.

Fiano Romano 9 settembre 2014

domenica 7 settembre 2014

Poiché sono anche un critico musicale, ecco le mie riflessioni sull' Amiata Piano Festival appena conclusosi:

Fare in Italia musica da camera è oggi cosa da eroi. Il pubblico insegue altri miti, che non quelli di un Lied, di un quartetto, di una cassazione. Vuole l’ugola che strilla, l’icona fotogenica, il pianista stregonesco o fantasmagorico, il regista che si nasconde per lasciare sulla scena le didascalie del libretto. L’arte è altrove, come spesso accade: nell’ugola che parla cantando, nella figura che impersona magnificamente un ruolo, non importa se bella o brutta, ho visto Quasthoff interpretare il Pizarro del Fidelio, ed era sublime, demoniaco, ho sentito Bernstein “accompagnare” Christa Ludwig nei Zigeuner Lieder di Brahms, Peter Sellars mettere in scena il Saint François di Messiaën. Maurizio Baglini appartiene a questa seconda categoria di artisti: la semplicità non è un dono di natura, la si conquista con lo studio, e soprattutto con l’amore che ci fa umili davanti a una partitura. L’Amiata Piano Festival fu da lui fondato 10 anni a. Sembrava una sorta di sfida alla Roque d’Antheron. Ma lì il piano gioca da solo (peccato non poter rendere in italiano l’ambiguità del verbo giocare, che in inglese, francese e tedesco significa anche suonare e recitare, sarà forse per questo che alcuni musicisti italiani giocano così poco), qui chiede la complicità di altri strumenti. L’edizione di quest’anno è dedicata a Claudio Abbado, un musicista che amava giocare. E il dio del vino, che si Chiami Bacco (26-29 giugno), o Dioniso (28-31 agosto), o ceda il posto alla musa della poesia lirica, Euterpe (24-27 luglio), presiede ai concerti, donando a tutti l’ebbrezza del bello. Ho assistito agli ultimi concerti. Una serata interamente mozartiana, con i fiati dell’Opera di Rouen Haute-Normandie diretti da Luciano Acocella. La Serenata in si bemolle maggiore k. 361, “Gran Partita”, naturalmente, e il sublime Quintetto in mi bemolle maggiore K. 452, per pianoforte e fiati, al pianoforte lo stesso Baglini. Si noti l’affinità tonale dei due brani, segno dell’intelligenza con cui è composto il programma. Il luogo è la Cantina di Collemassari a Poggi del Sasso, in Maremma.  Pagine, entrambe, che richiedono un estremo controllo per l’equilibrio dei timbri e l’intricata delicatezza dei contrappunti.  Mozart non avrebbe potuto desiderare un’interpretazione più sentita e penetrante, eppure fu lui a dirigere la prima volta la Partita e a sedersi al pianoforte nel Quintetto. I fiati donano, nella seconda serata, una raffinata antologia di musica da camera: da Richard Strauss, la deliziosa Serenata in mi bemolle maggiore op. 7, alla preziosa Suite Persane di André Caplet, alla bellissima Serenata per dieci strumenti a fiato, violoncello e contrabbasso di Antonin Dvořák. E il violoncello solo fa da intermezzo con la splendida Suite per violoncello solo di Gaspar Cassadó splendidamente interpretata da Silvia Chiesa. The Bass Gang, strepitoso quartetto di contrabbassi (Antonio Sciancalepore, Andrea Pighi, Alberto Bocini, Amerigo Bernardi) scorazza, nella terza sera, nel più vario dei repertori, da Mozart a Carlos Santana, da Čajkovskij a New York New York, da Bach a Carosone. Divertimento assoluto. E musicalità superlativa. Nell’ultima serata arriva il Quartetto di Cremona. E il pianoforte di Roberto Piano. Un divino quartetto di Haydn: l’Op. 77 n. 1 in sol maggiore, poi il pianista si esibisce da solo negli Improvvisi op. 14 di Skrjabin e nelle Réminiscences de Norma di Liszt. Unendosi infine al quartetto, insieme affrontano l’intenso e indiavolato Quintetto in fa minore op. 34 di Brahms. L’eroismo, il coraggio, sono premiati. La cantina registra l’esaurito tutte le sere. Ma allora, almeno in Maremma, la musica da camera va. E che cos’è che non va a Roma, a Milano, a Torino, a Venezia, a Firenze, a Napoli, che le sale si spopolano se c’è una serata di Lieder, di quartetto, e in genere di musica da camera? O bisogna insistere? Christa Ludwig dedicò i suoi ultimi due anni di concerti pubblici a ripresentarsi nelle città che videro i suoi trionfi. Ad Aix-en- Provence, a Salisburgo, e naturalmente nella sua Berlino, le sale erano stracolme. Al Teatro Olimpico di Roma, per l’Accademia Filarmonica Romana, la platea era mezzo vuota e furono fatti scendere i pochi spettatori della galleria, per non dare alla grande Christa Ludwig, forse, insieme a Irina Arkhipova, il più grande mezzosoprano del secondo Novecento, la desolante impressione di una sala deserta!


Fiano Romano, 5 settembre 2014 
Benvenuti nel mio nuovo blog!
Vi accolgo con un'immagine, il faro del Canale di Beagle, a sud della Terra del Fuoco,
e con un sonetto.


E se di mille anche solo uno il Fato
giorno togliesse al tuo cammino, quale
cambiamento supponi ti sia dato
dalla discorde opzione che si avvale

di un mai giocato giorno? Se spacciato,
barando, hai tu per certo il terminale
del Tempo, ipotecando un giudicato
di successione, l’oggi che ti vale?

Qualunque sia la maschera che il giorno
ti presenti, l’attore non ha faccia;
ciò che speri e che agogni, il suo ritorno,

se il Tempo te lo dà o te lo scaccia,
rida o pianga di te, nel tuo soggiorno
il patto che t’illude è solo carta straccia.