mercoledì 27 dicembre 2017

Roma, Museo Bilotti, concerto del pianista Axel Trolese




Roma
Martedì 26 dicembre ore 12.00.  Museo Carlo Bilotti
Roma Tre Orchestra

Concerto del pianista Axel Trolese
W. A. Mozart: Sonata n. 11 in la maggiore K 331
M. Clementi: Sonata in sol maggiore "Didone Abbandonata" op. 50 n. 3
W. A. Mozart: Sonata n. 12 in fa maggiore K 332
L. v. Beethoven: Sonata n. 28 in la maggiore op. 101

Axel Trolese, pianista appena ventenne, ha recentemente pubblicato un cd in cui, con straordinaria maturità, intelligenza e sensibilità, interpreta gli Studi di Debussy (The Late Debussy, Etudes & Epigraphes Antiques. Movimento Classical MVC 001/16). Ora si presenta al pubblico romano con un concerto interamente dedicato al pianoforte del periodo cosiddetto classico, quello cioè che va da Haydn a Beethoven. Il concerto è organizzato da Roma Tre Orchestra. La sala del Museo Carlo Bilotti, dove il pianista ha suonato, non è la più adatta per un concerto: l’acustica risente di un eccessivo riverbero del suono. E lo strumento, inoltre, non era il meglio che si potesse desiderare. Ma predisponevano bene i quadri metafisici ridipinti da Giorgio De Chirico negli anni ‘60. Proprio poco prima del pianoforte, sulla sinistra, l’intensa tela di Mistero e malinconia di una strada e ragazza col cerchio. La rappresentazione sembra bloccata, l’astratto prende forma di oggetti concreti. L’attenzione alla costruzione formale, così evidente, quasi programmatica, nei quadri di De Chirico predisponeva, dunque, bene alla percezione dell’analoga evidenza costruttiva della sonata classica. Per ironia la prima sonata affrontata da Trolese, la Sonata in la maggiore K. 331 di Mozart, non ha nessun tempo in forma sonata. Il primo tempo è, infatti, un Andante con sei variazioni. Il secondo un minuetto. Il terzo è la famosa, forse addirittura famigerata, Marcia alla Turca. E tuttavia Mozart la chiama Sonata. Perché è una sonata. Solo l’accademismo ottocentesco, quando la forma classica non è più capita, poteva restringere questa forma all’esposizione, contrasto ed elaborazione di due temi. Haydn scrive tempi di sonata, di quartetto, di sinfonia con un solo tema. Beethoven si sforza spesso di derivare i temi da un’unica idea. Talora con evidenza stupefacente, come nell’Ouverture Coriolano e nella Quinta Sinfonia. Altre volte variandone l’aspetto, come nell’Appassionata, op. 57, in cui il secondo tema è l’inversione del primo (ma il modello gli viene da una tarda sonata di Haydn, in do maggiore). Il punto nodale sta proprio nella variazione: già con Haydn procedimento cardine della sonata. Mozart ne segue l’esempio. Ma fa di più. Anche la costruzione del minuetto disegna una sorta di microsonata. Abbiamo un’esposizione che si ripete, una specie di sviluppo alla dominante e una riesposizione del tema, che anch’essi si ripetono. Tutto in poche battute. Poi arriva la Marcia, un rondò, nel quale il terzo episodio funziona quasi da trio e divide tutta la marcia in tre sezioni, A B A, che si concludono con una coda. A essere precisi, anche A è diviso in A B, la forma così assume un carattere circolare del tipo A B C A B, coda. Non è un vero e proprio rondò sonata, perché Mozart evita di ripetere il tema prima dell’episodio che funziona qui da trio, ma che altre volte p un’elaborazione vera e propria del tema iniziale. Lo fa proprio per evitare un’allusione esplicita alla forma sonata, che invece è allusa per vie traverse, per omissione, direi, di una forma esplicita di sonata. Mi sono dilungato nella descrizione della sonata perché Trolese è apparso attentissimo alla scansione dei diversi momenti della complessa e abile costruzione formale. Attento anche ai contrasti tra le sezioni, e all’interno di ciascuna di esse. Splendido per delicatezza e fluidità, il minuetto. Soprattutto il trio, misterioso, sussurrante. Siamo nel 1783, la sonata, insieme ad altre due, K. 330 e K. 332, fu pubblicata nel 1784 come op. 6. Con la Sonata in sol minore op. 50 n. 3 di Muzio Clementi saltiamo al 1821. In quarant’anni il mondo musicale è cambiato. Si sentivano già i primi rumori del romanticismo e Beethoven stava lavorando alle sue ultime avveniristiche composizioni, proprio in opposizione alle nuove idee formali emergenti e che avrebbero dominato un intero secolo. Per contrasto o ironia, saranno proprio le intuizioni del tardo Beethoven a incrinare il tardo romanticismo e a preparare le avanguardie del Novvecento. Non a caso sia Schoenberg sia Bartók scriveranno i loro primi quartetti sul modello di due tra gli ultimi quartetti di Beethoven, Bartók l’op. 130, Schoenberg l’op. 131. Ma Beethoven comincia assai prima di Clementi: la Sonata op. 101, che concluderà il concerto di Trolese, fu composta tra il 1815 e il 1816. Clementi, tuttavia, non è Beethoven, e nemmeno Mozart. Ha in qualche modo inventato il pianoforte moderno, buttandosi anche nella costruzione di pianoforti, in Inghilterra, quelli preferiti da Beethoven, a differenza di Mozart che preferiva i pianoforti viennesi. Ma non ha inventato la costruzione moderna della musica strumentale. Sia Haydn, sia Mozart, sono assai più moderni di lui. La musica di Clementi è scritta molto bene, è sempre chiara, intelligente, godibilissima. Arriva ad intuire abissi, nei quali però non si butta. Resta sempre un centimetro prima del ciglio oltre il quale c’è lo strapiombo, guarda giù, ma si tira indietro. Anche in questa sonata tarda. C’era stato il Beethoven della Waldstein e quello irruente dell’Appassionata, c’erano state le sonate di Weber, Schubert non lo conosceva ancora nessuno, o quasi, e quindi non poteva conoscerlo nemmeno Clementi. Ma c’era abbastanza per capire in che direzione si muovesse ormai la musica. C’era, inoltre, il teatro. E c’era Cherubini, al quale tra l’altro la Sonata op. 50 n. 3 è dedicata. Ma Clementi è un prudente amministratore di sé stesso, sia come musicista che come imprenditore. La Sonata in sol minore, che Clementi chiama “Didone abbandonata”, omaggio o citazione che sia, senz’altro allusione, alla Didone abbandonata di Metastasio, di cui sembra volere rispettare l’equilibrio neoclassico, sembra tenere il piede in due staffe: l’ordine classico che in fondo non infrange e le nuove avvisaglie di disordine emotivo che non riescono però a scalfire le proporzioni equilibratissime della costruzione musicale. Il furore, nell’ultimo tempo, è, infatti, più adombrato che realizzato, non è lasciato libero di scatenarsi. Sta qui la prudenza di Clementi: nel fare intravedere uno scatenamento di forze oscure, ingovernabili, insofferenti di limiti, ma di trattenerle poi prima che possano disordinare la pagina. Molti anni prima proprio Mozart aveva, invece, dimostrato come si possa raccontare il furore in una sonata pianistica, ed era nata la Sonata in la minore K. 310. Un furore estremo che miracolosamente non incrina l’equilibrio della pagina. Ma Clementi ne ha paura. Il suo furore è smania teatrale, esibizionismo virtuosistico, più che un reale sprofondamento in abissi inesplorati. Agitazione di teatrante, insomma, più che visionarietà d’artista. Entra nel cerchio del pericolo, ma lo scansa. Il tema con cui è attaccato l’Allegro, ma con espressione è molto bello, ma non se ne traggono le conseguenze radicali che se ne potrebbero aspettare. Con molto meno Beethoven (come si vedrà nell’op. 101) o più tardi Schumann, al quale in più punti la Sonata di Clementi fa pensare, sono capaci di sprofondarti in veri abissi sconosciuti. Clementi guarda il deserto, legge la scritta: “hic sunt leones”, si spaventa e volta le spalle, non li sfida. Peccato. Perché anche così prudente questa Sonata è una bellissima sonata. Ma eccolo poi, subito dopo, nel concerto di Trolese, il démone che non ha paura di niente. La Sonata in fa maggiore K. 332 di Mozart è un inimitabile capolavoro, tanto è vero che poi la successiva Sonata in si bemolle maggiore K. 333, un altro capolavoro, procede per altre strade (Trolese non l’ha suonata). Entrambe le sonate, comunque, a smentire la successiva teorizzazione romantica della sonata, attaccano con un tema fluido, cantabile, che quei teorici chiamerebbero “femminile”, in opposizione al tema deciso, “maschile”, con cui dovrebbe cominciare una sonata. Spesso anche Beethoven, al quale per abitudine, per inerzia, per ignoranza, si suole attribuire quest’impostazione, attacca una sua sonata con un tema cantabile, come fa per esempio nell’op. 101, con cui conclude il suo concerto di Trolese. Ma tutti avranno in mente l’attacco della sinfonia Pastorale: è possibile immaginare un attacco di sinfonia più dolce, suadente, cantabile di quello? Il merito, dunque, e la notevole lucidità, di Trolese, sta nell’avere individuato molto bene i caratteri di queste sonate “classiche”. Un gioco di forze insieme drammatiche e virtuosistiche in Clementi. Un virtuosismo piegato a raccontare l’avvicendarsi di avventure musicali imprevedibili, nella due sonate mozartiane e soprattutto in quella in fa maggiore K. 332. L’irruzione dell’improvviso motivo eroico in minore nello spazio del primo tema (in realtà una successione di più idee musicali) è stato da Trolese giustamente esasperato e messo bene in contrasto con l’aerea ironia dell’idea musicale successiva, il vero “secondo” tema. Questo dimostra quanto Trolese sia attento alla costruzione formale delle musiche che interpreta, e quanto pertanto pieghi il tocco, il fraseggio, il respiro, alla percezione della forma. L’ascoltatore sente svilupparsi nell’ascolto i procedimenti musicali adoperati dal compositore e messi in rilievo dall’interprete. Tutto ciò si fa identità assoluta di forma ed espressione nella stupenda Sonata in la maggiore op. 101 di Beethoven. E’ la prima, delle cinque con cui Beethoven sviluppa un nuovo modo di costruire la sonata. A cominciare dallo straordinario, cantabile primo tempo, una sorta di Lied, o di foglio d’album, al quale certamente avrà pensato Schumann quando tratteggia i suoi originalissimi “fogli” pianistici. Ma il nodo strutturale della sonata sta soprattutto nel profondissimo, intimo, cupo “Langsam und sehnsuchtvoll” (lento e con nostalgia), che Beethoven traduce “Adagio, ma non troppo, con affetto”, intenso pannello che, dopo una breve rievocazione del tema d’apertura della sonata, precede l’esplosione del tempo finale, “Geschwind, doch nicht zu sehr, und mit Entschlossenheit” (veloce, ma non troppo, con risolutezza), tradotto in italiano da Beethoven semplicemente con “allegro”. Il carattere speciale di questo monumentale tempo di sonata sta nel fatto che al centro, in luogo di sviluppo, c’è una fuga. E si comprendono bene, alla luce di questa novità, le nuove misure formali costruite da Beethoven: invenzione ed elaborazione tematica, variante, variazione, contrappunto sono equiparati. s’intrecciano, si confondono, la forma non è più un dato stabile, circoscritto, ma un evento in divenire, solo la sua conclusione fa comprendere il percorso compiuto. La breve rievocazione del tema di apertura prima di tuffarsi nel labirinto finale sta a dimostrare proprio l’unità di questo divenire, lo sviluppo di un’unica idea dall’inizio alla fine. L’analisi musicali riconosce, infatti, nei diversi temi della sonata un’unica cellula generatrice. Eppure sarebbe difficile immaginare una sonata più varia, più multiforme, maggiormente piena di contrasti, di quanto sia questa op. 101. Più delle altre influirà sul pensiero musicale dei romantici, e in particolare di Schumann e di Liszt, anche se i due compositori ne trarranno conseguenze diverse. Trolese, questa continuità, questo pullulare di idee dall’idea di partenza l’ha fatta sentire con sensibile intelligenza musicale. E di questa intelligenza è anche la distribuzione dei piani tonali nel corso del concerto: la sonata K. 331 di Mozart è in la maggiore, la sonata di Clementi in sol minore, la successiva sonata mozartiana, K. 332, in fa maggiore, e infine la sonata di Beethoven torna al la maggiore con cui si era aperto il concerto. Le tonalità sono tutte in stretto contatto tra di loro: la tonica la della prima sonata, in modo minore diventa la tonalità relativa minore di do maggiore, di cui sol è la dominante, che come tonica nel modo minore diventa la tonica della sonata di Clementi, il fa maggiore della successiva sonata mozartiana, fa di nuovo perno sul sol come dominante di do, che a sua volta è dominante di fa, e si ritorna infine al la maggiore, con Beethoven, con il giro armonico inverso con cui da la si era arrivati a sol: fa-do-la. Il cerchio si chiude. Il pubblico applaude. Trolese concede due bis, modernissimi, ma a loro modo due classici del Novecento, tanto per restare in ambito “classico”: il primo degli Studi di Debussy, che rievoca ironicamente Czerny, allievo di Beethoven, come nel Doctor Gradus ad Parnassum del Children’s Corner aveva evocato Clementi, e la Toccata di Ravel. Un concerto che sotto veste di diletto musicale ci ha proposto una riflessione sulla classicità nella musica. Una conferma, infine, e dal vivo, di quanto Axel Trolese sembrava promettere con la registrazione degli Studi di Debussy.

Dino Villatico

Fiano Romano, 27 dicembre 2017





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giovedì 14 dicembre 2017

Teatro dell'Opera di Roma, La damnation de Faust

TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. SERATA INAUGURALE DELLA STAGIONE 2017 – 2018: LA DAMNATION DE FAUST (la dannazione di Faust), légende dramatique en quatre parties (leggenda drammatica in quattro parti), testo di Hector Berlioz, Almire Gandonnière, Gérard de Nerval, dal Faust di Johann Wolfgang Goethe, musica di Hector Berlioz

Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm
Movimenti mimici Chiara Vecchi

Faust Pavel Černoch
Méphistophélès Alex Esposito
Marguerite Veronica Simeoni
Brander Goran Jurić

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e il Palau de Les Arts Reina Sofía di Valencia

Prima rappresentazione, 12 dicembre 2017
Repliche: 14, 17, 19, 21, 23 dicembre 2017.

Hé bien! Règnez, cruel; contentez votre gloire:
Je ne dispute plus. J’attendais, pour vous croire,
Que cette même bouche , après mille serments
D’un amour qui devait unir tous nos moments ,
Cette bouche , à mes yeux s’avouant infidèle ,
M’ordonnât elle-même une absence éternelle.
Moi-même j’ai voulu vous entendre en ce lieu.
Je n’écoute plus rien ; et pour jamais, adieu.
Pour jamais ! Ah ! Seigneur , songez-vous en vous-même
Combien ce mot cruel est affreux quand on aime ?
Dans un mois , dans un an, comment souffrirons-nous,
Seigneur ; que tant de mers me séparent de vous ?
Que le jour recommence et que le jour finisse,
Sans que jamais Titus puisse voir Bérénice ,
Sans que de tout le jour je puisse voir Titus !
Mais quelle est mon erreur, et que de soins perdus !

(E sia! Regnate, crudele; accontentate la vostra gloria:
Non ne discuto più. Aspettavo, per credervi,
Che questa stessa bocca, dopo mille giuramenti
D’un amore che avrebbe dovuto unire tutti i nostri momenti,
Questa bocca, confessandosi ai miei occhi infedele,
M’ordinasse essa stessa un’assenza perenne.
Io in persona ho voluto ascoltarvi in questo luogo.
Non ascolto più niente; e per sempre, addio.
Per sempre? Ah! Signore, ci pensate dentro di voi
Come questa parola crudele è orribile se si ama?
Tra un mese, tra un anno, come sopporteremo,
Signore, che così tanti mari mi separino da voi?
Che il giorno ricominci e che il giorno finisca,
Senza che mai Tito possa vedere Berenice,
Senza che per tutto il giorno io possa vedere Tito!
Ma che sbaglio è il mio, e quanti pensieri perduti!)

E’ la lunga tirata di Berenice a Tito, nella stupenda tragedia di Racine che dal nome della regina di Bitinia prende il suo titolo, Bérénice. Ma veramente la regina di Bitinia, accomiatandosi da colui che sarebbe diventato l’Imperatore dei Romani, gli avrebbe parlato così? Gli avrebbe dato del voi? l’avrebbe chiamato Signore? I Romani, quando si rivolgevano a qualcuno, conoscevano un solo pronome di seconda persona: il tu. Il voi comparirà più tardi, a Bisanzio, e in Occidente alla corte di Carlo Magno. Ma la Berenice raciniana non è che per finzione teatrale la regina di Bitinia, in realtà è una gran dama della Corte di Versailles. Il teatro è sempre stato teatro contemporaneo, e ha sempre alluso, dietro maschere antiche, all’oggi. Quando, sei anni dopo, nel 1676, Lully compone l’Atys, su uno splendido testo di Quinault, tutta la corte vi riconosce le vicende del Re Sole e della Montespan. Non diversamente, Handel, nella Semele, allude agli adulteri della corte londinese. In una bella messa in scena del Festival d’Aix-en-Provence, Robert Carsen disegna il personaggio di Giunone sul modello di Elisabetta II d’Inghilterra, facendole portare perfino le grandi borse criticate dagli snob. Giunone appare la prima volta che legge un giornale dove, in caratteri cubitali, si vede scritto: “E’ ormai ufficiale! Semele è l’amante di Giove”. Ricostruisce in chiave moderna le allusioni del testo, altrimenti incomprensibili al pubblico di oggi, dopo tre secoli dalle vicende e dai pettegolezzi a cui allude l’oratorio. Teseo, nell’Edipo a Colono di Sofocle, afferma che, prima di prendere una decisione così gravida di conseguenze per la città, come quella di accogliere Edipo, deve consultare l’Assemblea. Ora l’Assemblea era un’istituzione dell’Atene democratica, non certo dell’Atene arcaica, e tanto meno dell’Atene del mito. Questa forse troppo lunga premessa per dire che anacronismi, allusioni all’oggi appartengono al teatro di ogni tempo. Per la ragione semplicissima che il teatro è sempre teatro contemporaneo. Goethe, quando allestì a Weimar la prima messa in scena moderna dell’Amleto in Germania, impersonando lui stesso il ruolo del principe danese, non solo disegnò scene moderne e fece vestire ai personaggi gli abiti del tempo, ma addirittura tagliò alcune scene e ne introdusse altre nuove scritte di suo pugno. Non si comporterà molto diversamente,due secoli dopo, Laurence Olivier quando traspose in un film la tragedia di Shakespeare. E anzi, la lettura psicanalitica del personaggio fu evidenziata dalla visione di un cervello in primo piano sullo schermo, proprio durante la dizione del celebre monologo “to be or not to be”. La colonna sonora in quel momento simulava un battito cardiaco. Ma veniamo, allora, a questa Dannazione di Faust che ha inaugurato la stagione 2017-2018 del Teatro dell’Opera di Roma. Il grande successo dello spettacolo e degli interpreti richiede alcune precisazioni. Siccome è stato detto, alla radio, che a “gran parte” del pubblico la regia di Michieletto non è piaciuta, è il caso di rettificare che solo una parte, e modesta, del pubblico, ha dissentito con sonori buu. Ma questa piccola “gran parte” è stata subito subissata e zittita dalla vera “gran parte” del pubblico al quale invece lo spettacolo è piaciuto. Segno che ormai il teatro moderno è capito e gradito anche da “gran parte” del pubblico italiano. C’è infatti chi, sempre alla radio, ha obiettato che lo spettacolo era di difficile comprensione, aveva perciò bisogno di essere interpretato, bisognava fare uno sforzo per capirlo (sic!). La musica e la scena, infatti, s’è detto, sembrerebbero parlare di cose diverse. Il solito discorso. Ma perché, regia a parte, l’Amleto di Shakespeare si capisce subito? E il Tristano è un dramma d’immediata comprensione? La Kovanščina di Musorgskij è subito capita anche da chi non sa niente della storia della Russia e della politica di Pietro il Grande? Sembrerà strano, ma fin dalla sua nascita, il teatro ha richiesto dal pubblico la cultura giusta per essere capito, sia che questa cultura fosse frutto di studio sia che fosse, più spesso, invece, la cultura della società in cui la rappresentazione si realizzava. Avete mai letto il primo coro dell’Agamennone di Eschilo? Vi sembra un testo d’immediata comprensione, se non si è greci dell’Atene classica e non si sappia chi sia Zeus, anzi che cosa sia per Eschilo Zeus, che cosa sia la Dike, che cosa la speculazione teologica e filosofica di allora sul diritto del singolo e della comunità? O La vida es sueño di Calderón de la Barca si capisce subito senza conoscere la discussione teologica sulla predestinazione nella Spagna del ‘600? Gli esempi potrebbero continuare. Un po’ di umiltà, per favore, non usurpate il posto e il ruolo dell’autore. Che ne sapete di lui? Viene a proposito un aforisma schumanniano già da me citato altre volte: “Il filisteo vorrebbe capire in un attimo ciò che all’artista è costato giorni, mesi, forse anni di faticoso lavoro”. E, piaccia o no a tutti, anche un regista è un artista, ogni teatrante lo è, e anche lui pensa, lavora, con durezza, con fatica. Dunque, prima di esternare il vostro dissenso dal suo lavoro, non domandatevi se vi è piaciuto o no, bensì cercate di capire (eh sì!) che cosa abbia voluto dirvi. Mi soccorre un altro aforisma, da me citatissimo, di Schumann: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se al mondo non ci fosse niente altro di più importante da fare che piacere alla gente”. Cambiamo arte. Guardiamo un quadro. Per esempio, L’Annunciazione di Leonardo. La Madonna vi sembra una signora ebrea del primo secolo a. C.? E l’angelo, un essere sovrannaturale? Sono una gran dama fiorentina del Rinascimento e un bel giovane zazzeruto, di quelli che probabilmente piacevano a Leonardo. Già: perché nel quadro c’è anche questo. Insomma, il realismo e la congruità della rappresentazione con l’evento rappresentato è un’esigenza che non spunta fuori prima del Naturalismo ottocentesco. Ma anche lì, a teatro si sono prese tutte le libertà che servivano. Se guardiamo le foto di spettacoli tra Otto e Novecento, pettinature, trucco del viso, denunciano l’epoca in cui si realizzano e non eventuali cavalieri della Tavola Rotonda. Anzi, ci appaiono addirittura ridicoli, proprio perché si sforzano di sembrare ciò che non riescono a raffigurare. Quanto alla Damnation de Faust di Berlioz, è una partitura che già allora parve d’avanguardia. E come far capire al pubblico di oggi, magari digiuno di cognizioni storiche ed estetiche, l’avanguardia di ieri, se non travestendola da avanguardia di oggi? I ballabili della Traviata non sono danze svenevoli e romantiche, come farebbero pensare troppe vaporose rappresentazioni, ma veri ballabili, e i galop sono più numerosi dei valzer. Come a dire: il rock di allora. L’operazione di Verdi, infatti, disorientò una parte dei suoi contemporanei. Ma perché Berlioz, quasi un decennio prima della Traviata, affronta un personaggio così emblematico, e dalle molteplici facce, già allora, come Faust? Faust, come Edipo, Amleto, Don Chisciotte, Don Giovanni, è personaggio che ci appare quasi autonomo dai poeti che l’hanno immaginato, Marlowe e Goethe, quasi fosse una figura storica, un individuo in carne ed ossa. Ciò avviene perché in lui, come negli altri personaggi, c’è una parte di ciascuno di noi: la ricerca di un senso della vita. Il diavolo, in questa ricerca, assume un ruolo determinante. Vittorio Mathieu ha scritto un saggio imprescindibile, al riguardo: Goethe e il suo diavolo custode (Adelphi, 2002). Nella tradizione medievale, e poi rinascimentale e barocca, il diavolo è un personaggio comico. Seduttore delle donne, come incubo, e degli uomini, come succubo. Michieletto prende questa tradizione alla lettera. Coloro che hanno contestato lo spettacolo - pochi, a dire il vero e, come si è detto, subito zittiti dalla maggioranza del pubblico, che invece ha decretato un trionfo a tutti gli interpreti - se ne facciano una ragione, e si studino un po’ di storia del teatro. La “leggenda” di Berlioz, che utilizza, liberissimamente, la già libera versione francese che Gérard de Nerval trae dalla tragedia di Goethe (il quale, a sua volta, aveva reinventato Marlowe), riscrive le peripezie di Faust, e a differenza di Goethe, come aveva fatto Marlowe, lo danna. Di questa dannazione il diavolo è lo strumento insieme ironico e perversamente consapevole. Ed è qui che Michieletto costruisce il suo spettacolo. Il mondo che devasta e perde Faust è celato dentro Faust stesso, è un mondo immaginario, una costruzione del diavolo. Margherita è un sogno, a baciare Faust non è la sua bocca, ma quella del diavolo “succubo”. Che poi, però, quando i due si baciano davvero, inserisce, tra la bocca di Faust e quella di Margherita, una mela. L’atto d’amore ripete, ogni volta, il peccato originale. Tutta la vicenda assume una connotazione di sofferenza reale, la visione, il sogno, possono essere immaginazione inesistente, ma la sofferenza che infliggono è vera sofferenza: è la disperazione per il fallimento della propria vita, per le perdite immedicabili, del padre, della madre, dell’infanzia felice, dell’adolescenza infelice, sbeffeggiata e usurpata dai bulli, che registrano con i cellulari le prevaricazioni inflitte a Faust ragazzo. Ma poco importano la felicità e l’infelicità di ciò che s’è perduto, importa invece l’irrecuperabile perdita, lo stesso dolore si fa nuovo dolore nella perdita. Le scene geometriche, luminose, di Paolo Fantin. i costumi semplici, ma fantasiosi (la coda serpentina del diavolo!) di Carla Teti, i video, le luci, i figuranti e mimi, sono perfetti. Alla bellezza dello spettacolo corrisponde l’intelligenza e la penetrazione musicale di Daniele Gatti, l’adesione sulfurea, ma anche struggente, della musica alla scena: indimenticabile la galoppata verso l’abisso. Colpisce poi e affascina l’immediatezza della recitazione, l’adeguamento al personaggio di ciascuno degli interpreti: il giovane, avvenente ma spaesato Faust di Pavel Černoch, bravissimo nel moltiplicare le facce del suo personaggio; l'imprevedibile, duttilissimo Mefistofele di Alex Esposito, un diavolo mercuriale, onnipresente e onnipenetrante; l'intensità mimica e musicale di Veronica Simeoni, Margherita, fanciulla innamorata e donna disperata. Un vero giullare, poi, divertentissimo, il Brander di Goran Jurić. L'orchestra, il coro di diavoli e di angeli (sono la stessa cosa), onnipresente sugli spalti di un terrestrissimo inferno, completano magnificamente uno spettacolo imperdibile.

Dino Villatico

Roma, 13 dicembre 2017

domenica 19 novembre 2017

Massimiliano Felli, De Peccatis Nostris, dall'omega all'alfa, l'ultima indagine del Commissario Cafasso

Massimiliano Felli, De Peccatis Nostris, dall’omega all’alfa: l’ultima indagine del Commissario Cafasso, Napoli, Stamperia del Valentino, “Giallo Valentino” V, 2017, pagg. 224, € 16,00

Il romanzo chiude la tetralogia dedicata al Commissario Aniello Cafasso. E ne tira le fila. Una sorta di postfazione, dal titolo Il principe velato, un congedo dell’Autore, ne chiarisce il percorso. Quasi quattro secoli di storia napoletana – e italiana – dall’uxoricidio del Principe di Venosa a un delitto di camorra del 2021, ci strisciano sotto gli occhi, e con essi ci assalgono confitti terribili, efferati, c’inorridiscono crimini impuniti, che sembrano destini a non finire, se il fantascientifico 2021 di questa postfazione, scritta nel 2017, prende il senso, più che di un giudizio, di una constatazione. O piuttosto, di una coazione a ripetersi delle più ignobili, ma costanti, nefandezze della storia patria. Il nucleo centrale del racconto ruota, infatti, intorno alla cosiddetta Rivoluzione Napoletana del 1799 e al suo fallimento, alla sua ignobile, sanguinosissima repressione: e poi c’è ancora chi tuona per l’attività della ghigliottina durante la Rivoluzione Francese, si istituivano almeno regolari processi, prima. Perfino un conservatore come Benedetto Croce, infatti, chiamato in soccorso negli esergo iniziali del romanzo, dichiara che “mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte /.../ tutto il fiore intellettuale e morale del paese”. Non diversamente da oggi, sembra sottintendere il narratore. Forse con minore esibizione pubblica del crimine cruento, ma con identica ferocia e determinatezza. Tutti e quattro i “gialli” si rivelano, a lettura completata dell’ultimo, una interpretazione al nero della nostra storia, e i romanzi, più che galli si rivelano “noir” assai foschi. I nomi, i fatti, di crimini, stragi e misfatti di oggi o di poco addietro non sono né detti né narrati, ma il lettore non fa fatica a leggere negli orrori della repressione della Rivoluzione Napoletana altri orrori della storia più recente, e mica è detto che oggi ciò avvenga senza la responsabilità di qualche “monarca”. La struttura narrativa è più complessa, spezzata, articolata, che nei romanzi precedenti. C’è il manoscritto di un diario, che si suppone scritto da Cafasso, che appare e dispare e poi ricompare, costituisce una sorta di filo rosso della narrazione. C’è la scansione quasi teatrale, anzi tragica, da teatro greco, del racconto: un Prologo, che si svolge nel 1590, l’anno in cui Carlo Gesualdo, Principe di Venosa uccise sua moglie Maria D’Avalos e l’amante Fabrizio Carafa, una cappella sorge a memoria degli uccisi. C’è una Parodo, nel 1751, quando Raimondo di Sangro, Principe di San Severo fa completare, dall’antica, la sua Cappella. A Santa Maria della Pietà, che i napoletani chiamano Pietatella, poco lontano da San Domenico Maggiore, dove accanto c’era il palazzo di Gesualdo. Sono luoghi della Napoli rinascimentale e barocca bellissimi. Proprio a Spaccanapoli, il cuore della città, dove poi ci abitava anche Bendedetto Croce e da lui prende il nome la via. Poi abbiamo un Primo Episodio, anni 1798-1799, il Primo Stasimo, primavera del 1799, il Secondo Episodio, sempre nel 1799, seguito dal Secondo Stasimo, un Terzo Episodio, al quale segue, di rito, un Terzo Stasimo, e l’Esodo nel 2021, e infine a conclusione, Il Principe Velato, di cui si diceva, il congedo dell’Autore. La lingua appare meno mescolata tra i livelli alti e bassi della lingua letteraria, quella parlata e quella popolare, che negli altri tre, la sfera della parlata napoletana appare più nettamente separata dall’italiano toscaneggiante della narrazione, che per lo più si finge autografa del Commissario, e come stesa da un immaginario esercizio di stile da parte di qualche allievo della scuola di Basilio Puoti. Il maestro di Francesco De Sanctis. Alcune pagine restano profondamente impresse nella memoria, come quella dell’impiccagione di Mario Pagano, nel Terzo Episodio. Anzi, quell’esecuzione sembra la chiave interpretativa non solo della storia napoletana, come fu, ma della storia d’Italia tutta intera. Pagano, sul fallimento di quella rivoluzione, sembra intessere le riflessioni che saranno di Vincenzo Cuoco: “Con i nostri proclami, le nostre leggi, e in ogni articolo, ogni rigo, ogni parola della Costituzione che abbiamo promulgato, noi intendevamo parlare al popolo. Ma quale? Il popolo! Quale popolo? Non certo quello napoletano, non la plebe stracciona e fannullona che ogni giorno intravedevamo da sotto al mantice delle nostre carrozze. Le nostre concioni, degne dell’eloquenza di un Demostene, d’un Cicerone, si rivolgevano a una folla puramente ideale; ci pareva, come in sogno, di arringare la Boulè di Atene, di essere novelli Gracchi, la cui voce tuona principi d’equità e giustizia sociale dal palco tribunizio … Quanto m’ingannavo, quanto noi tutti c’ingannavamo! Me ne rendo conto solo adesso. Tardi, tardi! … Un sognatore invecchiato è più ridicolo di un eroe sopravvissuto alle proprie gesta”. A queste parole fanno eco, nel Terzo Stasimo, gli insulti della folla che lo vede salire al patibolo: “Tè, Napuliò, sient’a ‘sta pummarola, è ‘na pret’ ‘e zucchero!” dice un “guaglione” che gli scaglia addosso un pomodoro marcio. La diffidenza per la storia circola in ogni rigo, se lo stesso Cafasso, nel suo diario, può annotare: “Ohibò, risponde l’anonimo compilatore delle presenti pagine, se ormai qui a Napoli nulla sembra avere più senso, perché pretenderlo da un povero quadernetto?” E allora, sembra dirci il narratore, quale senso anche nella “mia” storia? Lo si intuiva anche nei romanzi precedenti. Il delitto nasce spesso senza ragioni, e la sua punizione non impedisce altri delitti. C’è poi un delitto più grande, un’ingiustizia secolare, forse millenaria, che affligge tutti gl uomini, da parte di tutti gli uomini su tutti gli altri uomini, un’ingiustizia impunita, della quale anzi si stenterebbe a trovare il vero colpevole. Perché poi sta qui il busillis della storia, di ogni vicenda, che il vero colpevole è sempre un altro, che la Verità, una volta che si è creduto di afferrarla, la si scopre poi altrove, e così via. E allora, chi sa, come diceva Lessing, o lo Schopenhauer, citato verso la fine del racconto, non è la Verità che conta, il trovarla, bensì il cercarla, e scrivere potrebbe essere la via di questa ricerca. L’episodio di Leopardi che si gusta un sorbetto in una famosa gelateria di Napoli, nella Carrozza di Priapo, il terzo romanzo della tetralogia, e che lui stesso svela agli avventori i numeri della smorfia per la propria gobba, numeri che poi non escono, può essere una chiave di lettura per tutti e quattro i romanzi. La scrittura svela molti segreti, ma non l’ultimo, non quello che spiega quanto accade. Quando Cafasso incontra nel carcere Pagano, prima dell’esecuzione, osserva che “… i suoi occhi salivano all’immensità di quel Cielo che neppure il peggior miscredente, in punto di morte, ha tanta forza da insistere nel considerarlo disabitato”. Ma nemmeno potranno dubitare dell’indifferenza, della dura e assoluta indifferenza, con cui la storia guarda ogni sua vittima, o più semplicemente, ogni individuo, che lui sì, la abita. Ma con che stile si racconta la mancanza di senso della storia, anzi di qualunque storia? E’ qui che la lettura del romanzo di Felli si fa stimolante. Un lungo, quanto vacuo dibattito letterario discute da qualche tempo in Italia se lo stile del romanzo moderno debba essere paratattico o richieda. Invece, una costruzione sintattica complessa, che preveda anche frasi subordinate, periodi dalla costruzione intricata. E’ una questione mal posta. Come se lo stile “moderno” debba ubbidire a una prescrizione. La lingua moderna è moderna proprio per la sua libertà: prevede sia la paratassi sia una costruzione più articolata. Ed è esattamente quello che fa Massimiliano Felli. La struttura portante è generalmente paratattica, ma non sono evitate costruzioni d’intricata complessità. La varietà lessicale degli altri tre romanzi è qui sacrificata a una ricostruzione dell’italiano medio parlato e scritto dall’italiano medio, ma anche aristocratico, del primo Ottocento. In questa lingua è scritto il diario di Cafasso, una lingua molto ipotetica e fantasiosa, per fortuna, proprio perché si tratta di un’invenzione di scrittura e non della piatta imitazione di una scrittura già sperimentata nel passato . Il dialetto è per lo più riservato ai dialoghi, quando intervengono figure popolari. Ma, come spesso gli aristocratici, parla napoletano anche Re Ferdinando: “Comm ‘e vieste ‘e vieste, fujeno sempe”. Ma non mancano termini dialettali anche nel suo volgare, per esempio quando nomina i “caciocavalli” a figurare gli impiccati. Insomma, si riconferma, anche in questo quarto romanzo, la varietà stilistica della prosa narrativa, l’uso del dialetto non già come pennellata di colore locale, bensì come elemento strutturale della lingua, come recipiente comune della vulgata italiana, in ciò non diversa a Napoli che a Roma, a Torino o a Milano, dovunque una mescolanza di toscano e di parlata locale. Il dettato che ne risulta è una lingua variegatissima e musicalissima. Del resto, anche nelle pagine che apparentemente appaiono scritte nel più puro italiano letterario, a volerle leggere con inflessione partenopea se ne coglierebbe lo spirito. Lo denuncia la costruzione sintattica, per esempio gli anacoluti, l’anticipazione dell’oggetto, e altre figure della parlata napoletana, senza però che con questo la lingua narrativa cessi di essere lingua italiana. L’esempio che mi viene in mente per un confronto, di un’operazione simile, è l’Adalgisa di Gadda, in cui la parlata milanese è assorbita nel dettato italiano del racconto. Proprio quest’abile costruzione della lingua del racconto, anzi, fa superare al romanzo i limite del genere, pur rispettandone le regole. E’ insomma la scrittura a rendere il romanzo giallo un romanzo e basta, senza però che per questo cessi di essere un racconto poliziesco. Il confronto che mi viene più naturale sono i film di Hitchcock: certamente film polizieschi, ma la cui struttura narrativa e la cui cura dell’immagine, dei dialoghi, della recitazione, il cui uso sbalorditivo della macchina da presa, li rendi esteticamente film di altissimo livello, non contro le regole del genere, ma innalzando il genere a elaborazione alta, consapevole, tipica di ogni opera che voglia porsi come esempio individuale di elaborazione narrativa, drammatica, poetica. Non ultima gratificazione regalata dalla lettura di questo romanzo è la restituzione, vivissima, indimenticabile, di un momento decisivo della nostra storia nazionale. Il fallimento della Rivoluzione Napoletana del 1799 ci si rivela come un sottotesto, o piuttosto una struttura permanente di tutta la nostra storia, ne spiega i tentativi sempre abortiti di rinnovamento del paese. Vengono in mente le pagine finali del Barone rampante di Calvino, anche lì si parla di una rivoluzione fallita. Forse, ancora oggi, noi italiani, restiamo bloccati a quel fallimento di una rivoluzione che avrebbe dovuto cambiarci, al fallimento di qualunque rivoluzione si tenti di scatenare nel nostro paese. Sarebbe successo, infatti, di nuovo a Roma nel 1849. E senza volere offendere la memoria di nessuno, anche perché personalmente me ne sento troppo coinvolto, ma forse dovremmo interpretare come fallita anche la Resistenza, e ancora inattuata la scrittura della nostra Costituzione repubblicana, anch’esse volontà di una minoranza e non di tutto un popolo. Spero proprio di no, ma i momenti che viviamo sono tremendamente bui. E mi spaventa, mi spaventa da morire, che, se ci si riflette, l’unica rivoluzione riuscita della nostra storia sia stata, probabilmente, quella fascista del 1922. Questo romanzo vorrei interpretarlo come uno scongiuro, come un atto di scaramanzia. In fondo, Cafasso se lo augura: la morte di Mario Pagano, il suo sacrificio, devono condurre a una società migliore. O saremo condannati a restare per sempre, sconfitti, dannati, ai margini delle bocche dell’Averno. Dalle quali nessun Virgilio – leggi: nessun poeta – potrà salvarci.

Fiano Romano, 19 novembre 2017

giovedì 9 novembre 2017

Incomprensione della musica moderna

Incomprensione della musica moderna


Le seguenti riflessioni fanno seguito a simili riflessioni di qualche tempo fa sull’incomprensione e sulla diffidenza, da parte degli italiani, nei confronti dell’arte moderna, per non dire sul loro vero e proprio rifiuto di tutto ciò ch’è moderno e, in ultima analisi, di ogni forma di cambiamento, non solo nelle arti. Questa volta rifletto sul rifiuto della musica moderna, per non dire addirittura sullo scandalo, sul disgusto e, nei casi più radicali, sulla negazione che sia musica. Prendo lo spunto da due messaggi inviati a radio3 da due ascoltatori: uno, dopo l’ascolto del Concerto per violino di Stravinski, l’altra sera, da Torino, per la stagione sinfonica dell’orchestra della RAI, e l’altro questa mattina, dopo l’ascolto della Notte Trasfigurata (Verklärte Nacht) di Schoenberg, in una bellissima trascrizione per Trio di pianoforte, violino e violoncello, trasmesso, sempre su radio3, durante il Concerto del mattino,. Sono, come è ormai riconosciuto, due capolavori del Novecento, la pagina schoenberghiana nemmeno poi tanto sconvolgente, dal punto di vista armonico, perché ancora tonale, sia pure di una tonalità che esaspera l’irrequietezza cromatica, come molte altre pagine del tardo Ottocento e del primo Novecento. Ma probabilmente il solo nome di Schoenberg viene subito accostato dall’ascoltatore medio alle dissonanze della scrittura dodecafonica. E spesso la dissonanza è accostata alla dodecafonia, sentita come un suo sinonimo, la consonanza riconosciuta invece come tipica della tonalità, anche se non è vero. E’, anzi, una idea assai poco musicale. Presuppone che i compositori del passato non abbiano mai fatto uso di dissonanze irrisolte e che la tonalità non le preveda. Basterebbero, invece, per esempio, Bach e Beethoven a smentire questa insulsa idea. Uno dei bellissimi Duetti per tastiera di Bach, dal terzo libro della Klavierübung, dopo avere impostato la tonalità nella prima battuta, mi minore, attacca un soggetto di seconde e settime che procede fino alla risoluzione finale. La Grande Fuga op. 133 di Beethoven è una violentissima aggressione dissonante. Una volta feci l’esperimento di farla ascoltare a un amico che non la conosceva, senza dirgli che si trattava di Beethoven. Conoscevo la sua avversione per la musica del Novecento (chiamarla “contemporanea” è un paradosso: Webern compose le sue Bagatelle per quartetto d’archi più di un secolo fa). Dopo poche battute l’amico scattò furibondo: “Togli questa porcheria moderna dal piatto del giradischi!” (Quando feci l’esperimento i cd non esistevano ancora). Con calma osservai: “E’ Beethoven”. Rimase senza parole. Accennò qualche timida, balbettante spiegazione: “Uno studio, sembra, un abbozzo, non un’opera seria”. “Doveva essere il finale di un quartetto”, replicai: “l’op. 130, ma poi l’editore consigliò Beethoven di pubblicarlo separato”. Non disse niente, borbottò solo: “Resta una musica brutta, anzi non è musica”. Ecco la condanna secca di una musica che non accarezzi l’orecchio o che non corrisponda alle confortanti, perché abituali, attese melodiche e armoniche dell’ascoltatore. Il concerto stravinskiano fu definito dall’ascoltatore “fastidioso, insopportabile, a dispetto della fama del compositore”. Il sestettto schoenberghiano “urtante, inascoltabile”. Sarebbe facile confutare il giudizio dei due ascoltatori dimostrando che invece si tratta di due pagine straordinariamente riuscite. Ma non si capirebbe da dove nasca il rifiuto. Entrambi gli ascoltatori associano infatti all’idea di musica, l’idea di melodia accattivante, armonia gradevole, riposante. E’ la faccia musicale dell’idea che chiede all’arte di essere bella. Un’idea diffusa, dominante almeno dal tardo Settecento, e dalla concezione neoclassica dell’arte. Il Barocco la ignora, e così pure il Romanticismo. Ma resta nel sentire comune. Come l’idea che la musica esprima sentimenti, e in particolare i sentimenti del compositore. Nemmeno i compositori romantici lo pensano: pensano semmai che la pagina scritta li esprima, ma non necessariamente quelli del compositore. Non lo fa, per esempio, nel teatro, dove i sentimenti sono quelli dei personaggi. Schumann, il più romantico, forse, dei compositori, non afferma mai che la musica esprima i suoi sentimenti, ma s’inventa più personaggi, Florestano, Eusebio, Maestro Raro, che incarnino diversi aspetti del sentimento o del pensiero, e quando non ricorre ai personaggi insiste sulla oggettività della pagina, che non corrisponde al sentire del compositore, ma a quello che il compositore vuole far sentire all’ascoltatore come sentimento della pagina. Non è questo il luogo per discutere dell’estetica e della poetica di Schumann (sono due cose diverse), ma è solo un esempio, per dimostrare che anche il più romantico dei compositori non è così ingenuo da identificare il sentimento di un’opera con il sentimento dell’autore. Ma ritorniamo al punto di partenza. Non è dunque chiarificatore contrapporre a chi nega il valore di una musica il dato oggettivo che quella musica è scritta bene, è anzi magistrale. Perché l’ascoltatore non capisce, e giustamente non capisce, in quanto i suoi riferimenti musicali non sono quelli della musica che rifiuta. Sotto questo aspetto, negandone il valore, giudicandola “fastidiosa”, coglie perfettamente l’estraneità di quella musica ai modelli musicali ch’egli ritiene in assoluto i modelli ideali di ogni musica che possa essere chiamata musica. Credendo di esprime un giudizio che neghi la validità della musica che ascolta, l’ascoltatore, che chiameremo nostalgico, coglie bene il senso nuovo di quella musica, che gli appare giustamente “fastidiosa” perché appunto è una musica che non vuole accarezzare l’orecchio. E ne coglie così la natura assai meglio dell’entusiasta sostenitore della nuova musica che si limiti ad apprezzamenti interiettivi, bella! straordinaria! invece di riflettere sui fini che tale musica si propone, che non sono certo quelli di mandarlo in estasi per la bellezza melodica o la gradevolezza armonica, bensì di urtarlo, appunto, infastidirlo, con un’esperienza musicale insolita, che contrasti la sua idea di musica consolatrice, e gli proponga lacerazioni, inquietudini, catastrofi, o sarcasmi, deliri, fantasie distruttive. Insomma, come spesso accade, il rifiuto, certamente reazionario, e dunque sbagliato, coglie, però, la natura della cosa rifiutata assai più di un elogio incondizionato e poco riflessivo. Hai ragione, bisogna dire a quest’ascoltatore, questa è musica è fastidiosa, perché non vuole essere bella, ha messo in cantina il bello che ti sembra l’unico possibile d’ogni musica. Tu cerchi una melodia, un’armonia di un’epoca in cui il rumore quotidiano più sgradevole era lo zoccolo del cavallo che batteva sul selciato. Oggi ci sono i treni, le automobili, le motociclette. E sono questi i suoni con cui il musicista deve confrontarsi. Per rielaborarli o per opporvi qualcosa d’altro. Le cannonate napoleoniche su Vienna fecero perdere a Beethoven definitivamente il suo udito. L’esperienza è rivissuta nella Nona Sinfonia. L’inciso tematico dello scherzo è affidato ai soli timpani. Per l’ascoltatore dell’epoca, puro rumore. Ma già prima, cinque colpi di timpano introducono la musica del Concerto per violino. Il violino è forse lo strumento più melodico che ci sia. Ma Beethoven che fa? Costruisce il suo concerto per violino su una cellula ritmica: cinque colpi di timpano. Beethoven non nega il canto del violino, compone anzi melodie sublimi, su quei cinque colpi, e nell’adagio sembra aprire un paradiso di struggente dolcezza. Ma sempre sulla base di quei cinque colpi. Insomma, la musica dei grandi compositori, già prima di Stravinsky, già prima di Schoenberg, si confronta con il dolore, con l’inquietudine, la lacerazione della vita. Naturalmente, espressa attraverso l’irrequietezza, la lacerazione della forma musicale. Quanto al Concerto per violino di Stravinsky, pagina tra le sublimi del Novecento, e che io amo particolarmente, a chi sa percepirne gli echi profondi, lontani, sarebbe impensabile senza le inquietudini della scrittura bachiana, così come anche gli altri due straordinari concerti novecenteschi: quello di Bartók e quello di Berg. Non so quale sia il più grande, il più “bello”: sono tre straordinari ritratti della nostra fugacità terrena. Ci sono anche altri, bellissimi, concerti. Ma questi tre sono particolari. Hanno tutti e tre qualcosa di mistico. Ma non nel senso che fanno pensare a una realtà ultraterrena, bensì in quello che davvero traducono in musica la fugacità, l’inafferrabilità della vita, l’essere noi uomini, come dicevano gli antichi greci, creature di un giorno, effimeri. Ma proprio questa fugacità, questa inafferrabilità della vita, si fa perenne, immutabile, intramontabile, nella chiarezza di una forma. E’ la forma, la cosa che dura. Sia anche la forma del fugace, dell’inafferrabile. Per la memoria di un angelo, scrive Berg. E vengono in mente i versi, altissimi, con cui Petrarca attacca I Trionfi: Nel tempo che rinnova i miei sospiri / Per la dolce memoria di quel giorno ... L’amore, la castità, la morte, la fama, il tempo, l’eternità, si succedono per approdare a Dio, ma di fatto, e non sarebbe altrimenti poesia del Petrarca, per ribadire la caducità di tutte le cose. Il secondo verso, Per la dolce memoria di quel giorno, fu da Bejart posto a titolo di un suo bellissimo balletto che celebrava il sesto centenario della morte di Petrarca. E il discorso così si richiude. L’idea che l’arte sia la rappresentazione del bello fu una breve parentesi. Aristotele la vuole imitazione della realtà, nel Medio Evo la si crede imitazione dell’operare di Dio, Tasso la definisce maestra del vero, e al vero ritornano i romantici. L’arte è il nostro confrontarci con il mondo, con la nostra esperienza del mondo. Ma di questo rifletteremo un’altra volta. Qui, ci basta avere instillato il dubbio che il bello non sia, come troppi pensano, la vera sostanza dell’arte, la sua natura, il ritorno all’ordine, all’armonia. In un bellissimo aforisma dei Minima Moralia Adorno scrive: “L’arte ristabilisce ogni volta il caos”. Guardate Guernica, ascoltate Un sopravvissuto di Varsavia. Come dargli torto? O se quelle opere vi paiono troppo esplicite. Guardate una qualsiasi delle tele di Fautrier, ascoltate la Sagra della Primavera, o Pli selon pli. Quanto vi era parso inesplicabile del mondo non viene affatto spiegato, ma viene detto perché è inesplicabile.

Fiano Romano, 9 novembre 2017

martedì 17 ottobre 2017

Teatro Olimpico di Vicenza, Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach

TEATRO OLIMPICO DI VICENZA. CONVERSAZIONI 2017. 70° Ciclo di Spettacoli Classici.

Hamletmaschine di Heiner Müller messo in scena da Robert Wilson. Medea, tra Euripide e Seneca, allestito da Walter Pagliaro. Il Malato immaginario di Molière riscritto da Marco Zoppello, come emblema dell’ultimo viaggio. Ad aprire uno spettacolo di Teatro Nô, Okina di Kazufusa Hôshô e Hagaromo di Tatsunori Kongô. A specchio la Biennale Musica di Venezia apre con Inori di Karlheinz Stockhausen, la mistica zen ripensata e rivissuta da un compositore tedesco. Il Teatro Olimpico di Vicenza sembra volerci far riflettere in quanti modi e in quali forme si possa declinare il teatro. Ma l’appuntamento di cui qui voglio scrivere è un altro tipo di teatro e un altro approccio al misticismo, singolarissimo, direi unico, anche nell’ambito cristiano: la Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach. Un “teatro della mente” si sarebbe detto da Orazio Vecchi e Adriano Banchieri, inventori, alla fine del Cinquecento, della commedia “harmonica”, o madrigalesca, a cui si rifà anche nel nome Il Teatro Armonico vicentino. Il teatro si celebra, cioè, nella mente dello spettatore. La musica si limita e prefigurargli, senza l’aiuto di attori, i personaggi e le vicende. Bach, ancora più audace, il teatro se lo figura tutto nella musica, l’azione si fa corpo e forma della costruzione musicale. Margherita Dalla Vecchia, a capo dell’Ensemble Il Teatro Armonico, si occupa sia dell’interpretazione musicale che dei movimenti scenici dei personaggi, in realtà limitati all’uscire dal Coro e presentarsi sul proscenio. Marcus Elsässer è il bravissimo, intenso Evangelista. Christian Palm impersona solennemente e con passione, alla lettera, il Cristo. I ruoli solistici dei due cori interpretano gli altri personaggi: Vittoria Giacobazzi, soprano, è la moglie di Pilato, il tenore Enrico Imbalzano un testimone, i bassi Guglielmo Buonasanti Pilato, Giovanni Florian Giuda, Yiannis Vassilakis Pietro, per il primo coro. Nel secondo coro, i soprani Caterina Chiarcos è la Serva I, Naoka Obbayashi la Serva II, il contralto Alberto Miguélez Ruoco un secondo testimone, i bassi Giovanni Bertoldi e Alberto Spadarotto il Sommo Sacerdote. Che i solisti del coro impersonino anche i personaggi dell’Oratorio riprende una pratica corrente del tempo di Bach. Non diversamente doveva apparire ai fedeli di San Tommaso a Lipsia l’esecuzione guidata da Bach. Ma il punto centrale di questa interpretazione non sta tanto nella teatralizzazione dell’oratorio, quanto nel fatto che il complesso chiamato a eseguirlo sia una formazione italiana, e italiana anche l’interprete che tiene l’insieme. Tra le voci del coro e gli strumenti dell’orchestra non mancano, tuttavia, nomi stranieri. La prova era ardua. Ma superata con dignità, anzi con rara pertinenza interpretativa, a cominciare dalla dizione del testo tedesco. La partitura è immensa, fa tremare le vene e i polsi a qualsiasi interprete. Ciò che colpisce e conquista subito l’ascoltatore è una specie di rappresentazione in diretta della passione di Cristo: Bach la racconta come una cronaca contemporanea, e interviene a commentarla sempre tenendo presente la reazione dell’uomo di oggi. Comincia con il cammino verso la collina del supplizio. I due cori s’incontrano, come in un’antica tragedia di Eschilo, per esempio Le Coefore. Oreste, Pilade sono sulla scena, e dai due lati dell’orchestra entra il coro, in testa a una parte di esso Elettra. Si pensa proprio a questo, ascoltando questo Bach sulla scena del Teatro Olimpico. Elettra e Oreste sono i figli di Agamennone, che la loro madre Clitennestra ha scannato nel bagno. Non si sono ancora riconosciuti. Si riconosceranno. E chiederanno – agli dei, al Destino - il senso di ciò che è loro accaduto, di ciò che sta accadendo. Lo spettatore antico ha ancora nelle orecchie le parole del coro, nella tragedia precedente, l’Agamennone: il coro invoca Zeus, ma Pasolini, nella sua straordinaria traduzione, giustamente sostituì Zeus con Dio. O Dio, Dio, all’uomo unica via di conoscenza desti l’attraversamento del dolore. Bach fa lo stesso. L’incarnazione è per Dio l’impatto con ciò che c’è di più umano: la sofferenza. L’uomo non sa riconoscerla, questa conoscenza che si tocca nel dolore. Ecco allora che il viaggio al Golgotha è un viaggio della conoscenza. Dell’infelicità e della miseria dell’uomo, ma anche della profonda verità di commiserazione nel fatto che Dio stesso, fattosi Uomo, attraversi questo inferno, conosca questo dolore, e si confronti, lui Eterno, con il Nulla della Morte. Nietzsche scrive che l’Inferno di Dio sono gli uomini. E’ un’idea che può germogliare solo in un tedesco, ultimo, disperato erede del pietismo, ma ormai privato di Dio. Un tale abisso era stato intravisto da Goethe, educato anche lui da pietisti, negli ultimi istanti di Faust. Ma torniamo a Bach: il Kantor di Lipsia ignora l’orrore della morte. Anzi l’invoca: Komm, du, süsser Tod, Vieni, tu, o dolce Morte (morte in tedesco è maschile, come in greco: Thanatos). E’ il primo verso di una bellissima cantata. Non è diversa la concezione della Passione. E di fatti il Coro, morto Gesù, lo culla dolcemente in una ninna nanna sublime. Gli dice: Buona notte! mio dolce Gesù. L’inizio e la fine chiudono il cerchio: il cammino sul Golgotha si conclude con la morte del Redentore. Ma, appunto, morendo, Gesù ci ha redenti, e il Coro, gli uomini, noi, lo ringrazia, gli dà la buona notte. C’è tuttavia un momento, anzi ci sono due momenti, in cui la contemporaneità della Passione si fa processo all’uomo di oggi. E sono due momenti sconvolgenti, più ancora che se fosse vero teatro, Wagner, Il Crepuscolo degli dei, la morte di Sigfrido, Verdi, La forza del Destino, pace, pace, o mio Dio! Il primo momento è la folla che chiede la morte di Gesù in cambio della vita di un assassino, Barabba. Non so che cosa pensasse il pubblico dell’Olimpico. A me sono venute in mente scene raccapriccianti di oggi, le stragi dell’ISIS, le decapitazioni nella piazza di Accra, il popolo fanatizzato che esulta per ogni “infedele” innocente ucciso. Pilato chiede: volete che uccida un innocente? Il popolo grida: che sia crocifisso! Viene in mente una scena ugualmente terribile del Giulio Cesare di Shakespeare: quando la folla osanna Bruto per avere ucciso un tiranno e poco dopo, ascoltato il discorso di Antonio, impreca esagitato contro i congiurati. Viene in mente Piazzale Loreto, o Piazza Venezia quando Mussolini dichiarò guerra all’Inghilterra. Il popolo esultò, urlò, gridò estasiato: Duce, Duce, Duce! O più vicini a noi, quando l’onda delle folle insegue ora questo ora quell’altro demagogo. E ne abbiamo tanti, oggi, in Italia! Ecco: la contemporaneità della Passione secondo San Matteo sta anche in questo: che la condanna di un innocente ci ricorda la condanna che ogni giorno le folle di ogni parte del mondo chiedono al potere che le asservisce, e quelle folle credono di attuare così la giustizia finale degli eletti. Ma c’è poi un altro momento, se possibile ancora più tremendo, e che ancora più violentemente ci coinvolge tutti. E’ il rinnegamento di Pietro. In quel momento Bach fa qualcosa d’impensabile: Pietro in quel momento siamo tutti noi. E tutti noi stiamo tradendo il Cristo, la Verità. Non per niente segue subito una delle arie più belle, più amare e insieme più dolci mai scritte dalla mano di un compositore. La redenzione sta tutta qui. Che noi tutti ci riconosciamo colpevoli della morte di un innocente. Aristotele l’avrebbe chiamata catarsi. La Passione secondo San Matteo è la tragedia dell’uomo moderno, come l’Edipo Re – con cui s’inaugurò il Teatro Olimpico – è la tragedia dell’uomo antico. Ma sia l’antico che il moderno vengono denudati davanti all’inevitabilità del dolore. Conoscere è soffrire, dice Eschilo. La mia sofferenza si fa troppo grave, tu stesso mi aiuti a sopportarla, dice Bach, alla fine del viaggio del Coro. Serata di profonda commozione, proprio per l’intensità e insieme la semplicità con cui, sotto la guida di Margherita Dalla Vecchia, il Teatro Armonico ci ha fatto rivivere la Passione secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach. Scrivo queste riflessioni a qualche settimana di distanza. Ma la distanza, invece di diminuirlo, accresce, nel ricordo, il pathos di quell’ascolto indimenticabile. E Nietzsche mi perdoni la deformazione del suo pensiero.

Fiano Romano, 17 ottobre 2017

lunedì 18 settembre 2017

Ricordo di Maria Callas

Non sono intervenuto con nessuna riflessione sulla Callas nell’anniversario della sua morte. Di proposito. Quel giorno di 40 anni fa ero seduto sulle scale del Provveditorato di Roma, e aspettavo la nomina definitiva per un incarico d’insegnamento di italiano e latino nei licei. Mi ero portato una radiolina, perché volevo ascoltare un mio intervento registrato per un programma radiofonico. L’intervento fu interrotto dalla voce di Fedele D’Amico che annunciò la morte del soprano. Riecheggiando il poeta di Recanati: Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Da allora, la sua morte, nel ricordo, è sempre associata a quel tuffo al cuore sulle scale del Provveditorato di Roma. Anche allora sentii dire e scrivere tante sciocchezze. Come quelle ascoltate e lette l’altro ieri. Fedele D’Amico aveva invece già allora ribadito in che cosa consistesse la vera rivoluzione operata dalla Callas nella rappresentazione di un melodramma: non già il recupero del “bel canto”, né tanto meno l’esibizione del miracolo di una voce “straordinaria”, che anzi la voce della Callas era sì estesa ma disuguale. La vera rivoluzione stava, invece, nell’avere ristabilito il primato dell’attrice, della drammaturgia, sull’edonismo vocale, ma differentemente dall’allora trionfante pratica veristica, riconduncendo la recitazione alla corretta espressione del canto. Non nel senso, dunque, di accentuare i gesti realistici, di obbligare la voce a trucidi effetti di parlato, come faceva il verismo, bensì in quello d’impostare drammaturgicamente proprio l’intera scrittura vocale, anche l’abbellimento, sentito come parte integrante della recitazione. Un esempio illuminante di questa impostazione del canto piegato alla recitazione sta nella scena di Leonora sotto la torre dove si trova rinchiuso Manrico, all’inizio del quarto atto del Trovatore. A un certo punto Leonora dice: sento mancarmi. E la voce davvero si affievolisce. O nel brano che l’ha resa famosa: Casta diva. Bisogna ascoltare, però, tutta la scena, non la sola cavatina di Norma. Prima di attaccare l’aria ascoltate allora come la Callas intona la frase “il sacro mirto io mieto”. E poi ascoltate la successiva, virtuosistica cabaletta. Le fioriture si fanno espressione dell’eccitazione di Norma al ricordo dei primi tempi del suo amore con Pollione. Ecco, qui sta il punto: la recitazione consiste non già nel dare rilievo all’effetto realistico delle parole pronunciate, bensì nell’espressione drammatica del canto, la voce dice qualcosa, ma la sua espressione dice altro. Mi sono già dilungato altre volte su questo aspetto dell’interpretazione drammaturgica di Maria Callas. Un giorno, se ne avrò tempo e coraggio, raccoglierò insieme quelle riflessioni. Non mi dilungo oltre. Ricordo solo che i grandi soprani del primo Ottocento erano ammirati proprio anche, o soprattutto, per le loro capacità drammaturgiche, alla lettera, capacità di costruire il dramma, di riscriverlo con l’interpretazione. E’ ciò che i tedeschi chiamano, giustamente, Drammaturgie, e hanno in proposito inventato la figura del Drammaturg, chi riscrive le azioni sceniche del dramma che si deve rappresentare. Che non è il regista, anche se può coincidere con la figura del regista. Ma proprio chi riscrive la drammaturgia pensata da Shakespeare, da Verdi, da Wagner. Nel teatro tedesco fu Goethe a impostare in questo modo la rappresentazione teatrale. Parallelamente al lavoro di Lessing e dei fratelli Schlegel. Fece storia la sua messa in scena dell’Amleto a Weimar, in abiti moderni, e con alcune scene riscritte dallo stesso Goethe, che comunque ricopriva il ruolo del principe danese, e sembra che fosse affascinante. Non si stenta a crederlo. La Callas faceva, ai giorni di oggi, qualcosa di molto simile. Riscriveva, cioè, la drammaturgia del personaggio. Adelaide Ristori, la più grande attrice italiana dell’Ottocento, racconta nelle sue memorie che quando cominciò a recitare Shakespeare, Racine, Alfieri (sembra che fosse sublime la sua Mirra), il suo modello fu Isabella Colbran, che interpretava l’Ermione e la Semiramide rossiniane. Rossini, tra parentesi, era il modello musicale e drammaturgico perfetto anche per Schopenhauer. Ma in realtà per tutta l’Europa, musicale e no, di allora. E questo vale per chi ancora si ostina a sostenere il valore puramente esornativo dei virtuosismi vocali rossiniani. Ecco, volevo ribadire solo questo. Come quarant’anni fa aveva fatto Fedele D’Amico: che la rivoluzione della Callas fu, prima di tutto e soprattutto, teatrale, e non solo musicale, o meglio, che restituì il suo senso drammatico al canto, dimostrò che si poteva, anzi si doveva, recitare sempre, quando si canta un melodramma. Ma non già scimmiottando il realismo di certi attori, o, peggio, di certi cantanti, bensì appunto che bisogna recitare con il canto. La Callas è stata quanto di più vicino io abbia mai ascoltato all’idea sublime del recitar cantando. I tempi in quegli anni non erano maturi. Ma sono sicuro che sarebbe potuta arrivare a darci un insuperabile Monteverdi. Ma perché sognare e desiderare ciò che non è stato? Riascoltiamo il finale della Gioconda – una musica mediocre che la Callas rende intensissima – e si capisce d’un botto che cosa sia recitare cantando. Si pensa quasi a Greta Garbo. Il confronto non sembri blasfemo. Ma una commedia tutto sommato mediocre come La Dama delle Camelie nell’interpretazione di Greta Garbo diventa sublime. In margine, vorrei dire a chi ha curato il doppiaggio italiano del commento originale francese alla Nuit de l’Opéra, trasmesso da RAI 5, che in italiano il termine soprano è sempre maschile, come maschili sono mezzosoprano e contralto. Il termine non si riferisce, infatti, al genere di chi canta, ma al rigo della polifonia, e nasce nel Quattrocento. In francese, e in spagnolo, è sentito come femminile, solo perché in queste lingue è stato introdotto dalla diffusione europea del melodramma italiano, a Settecento ormai inoltrato. Dava perciò immenso fastidio sentire dire, alla televisione italiana, “la soprano Maria Callas”, “la grande soprano”. Ma mi chiedo: a un orecchio italiano non stride l’articolo femminile accostato a un nome maschile?

Fiano Romano, 18 settembre 2017

lunedì 4 settembre 2017

Mario Quattrucci, due libri

Mario Quattrucci, Ogni giorno è quel giorno, Torino, Robin Edizioni, 2015, pagg. 184
Un delitto del ‘43 e altri racconti, Torino, Robin Edizionim 2016, pagg. 288

me lo portavo dentro il fare e l’essere
tutto ciò che fummo
ma adesso m’accorgo che ho perduto
anche ciò che non è e non ci attende:
ciò che avremmo dovuto e che non siamo

(Ogni giorno, pag. 33)

Più che una poesia, potrebbe anche essere un’epigrafe, un manifesto, un esergo. O un bellissimo epigramma alessandrino, se non addirittura bizantino, che so, Paolo Silenziario. Ma il termine greco, italianizzato, esergo, affascina di più: ἐξ ἔργον, fuori opera. E’ fuori della pagina, infatti, spesso, il suo senso. O, come vuole una poetica indiana del settimo secolo, lo dhvanya, ciò che nel testo non è detto, ma è l’assunto fondamentale. Vengono a mente i versi di Montale:

codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Era appena cominciato il ventennio fascista. Oggi, quel ventennio è, sembra alle spalle. Altri ventenni sono venuti. E altri ne sono minacciati. Perciò in Quattrucci quell’impotenza si fa doloroso rimpianto. Come dagli torto?

E tutto è: come non sia mai stato
e invece fu
e non è stato invano

Queste righe non sono una recensione, ma una riflessione in divenire, tutta ancora per frammenti, principiante, su un poeta e un narratore di cui si dovrebbe conoscere di più, saperlo nelle vetrine di tutte le librerie d’Italia. Ma questa è, appunto, oggi, la situazione italiana, anche, o soprattutto, della letteratura: diffuso e dibattuto il banale, il superfluo, l’inutile, la bazzecola di propaganda, il calembour pubblicitario, il cincischiamento del selfie. Mai l’occhio che fissa un oggetto, una realtà. Il verso che canti l’oggi (ma lo canti, perdinci! e non sia prosa sminuzzata). Il racconto che denudi la maschera sociale e faccia gridare che il re è nudo. Ecco, Quattrucci fa questo. Per cominciare, lo fa con la lingua. Un italiano scarno, scolpito nel lessico colto e parlato, dal poeta; e dal narratore, un intruglio o, piuttosto, un filtro alchemico, di prosa letteraria e di parlato romano, laziale, umbro, ma che non scade mai nel vezzeggiamento del particolare pittoresco, nel compiacimento del caratteristico, del dialettale. Ma il parlato narrativo non distingue tra lingua letteraria e lingua parlata, le mescola, e fa una lingua letteraria di questo mescolamento. Alle spalle c’è una lunga tradizione. Il primo nome che viene alla mente è certo Gadda, tra l’altro citato attraverso alcuni suoi neologismi, qualcuno famoso, già diventato tradizione. Ma si può andare indietro a Verga, al suo italiano intriso di sintassi siciliana. O perfino a Fogazzaro, scrittore oggi ingiustamente trascurato. E poi ci sono i triestini, Svevo, Slataper. Ma non si tratta di imitazione, quanto piuttosto di rinsaldare una tradizione parallela, antiretorica, della narrativa italiana, si potrebbe perfino fare il nome di Fenoglio. Ma c’è, naturalmente, anche il grande Belli. Soprattutto come inventore di vocaboli che nascono dalla storpiatura di vocaboli colti malcompresi dal parlante. Ma poi c’è anche l’altro livello, quello colto, anzi coltissimo, di cui si compiace l’ispettore Marè. Sarebbe difficile districare la matassa. La raccolta di questi racconti è, più che mirabile (anche!), una continua scoperta di nuovi piani psicologici del personaggio narrato, di nuove derive e invenzioni linguistiche. Ma c’è un racconto che, più di ogni altro, resta impresso nella memoria del lettore. E’ Nico er madonnaro. Il suo senso profondo si chiarisce con la lettura del racconto seguente: Hanno ammazzato Montalbano. Qui i personaggi dei racconti polizieschi si fanno persone, agiscono nella vita reale, si mescolano a persone reali. Viene in mente un film, bellissimo, di anni fa, in cui personaggi dell’animazione si mescolano a personaggi interpretati da attori in carne ed ossa: Chi ha incastrato Roger Rabbit? Reale e fantastico si mescolano, anzi si mescolano i generi, animazione e poliziesco. Quattrucci mescola i piani dell’invenzione narrativa di Camilleri e la propria. Anzi, tratta il personaggio di Camilleri non come un personaggio, ma come una persona reale. Entra ed esce dalla pagina, entra ed esce dal racconto, mescola invenzione e realtà, quest’ultima alla fine più irreale della finzione. Il grande nome è taciuto, ma subito evocato: Borges. Tra l’altro, non so quanti sappiano che il titolo italiano di una sua raccolta famosa di racconti è fuorviante: Finzioni. E’ la traduzione corretta del titolo spagnolo, ma la parola spagnola ficción ha un campo semantico più esteso di quella della parola italiana finzione. Significa soprattutto invenzione, e invenzione narrativa, solo in subordine finzione. Lo traduce meglio la parola inglese fiction. Quattrucci sembra assimilare il significato spagnolo, eludere quello italiano, se non per il fatto che comunque l’invenzione è a sua volta una finzione. E qui soccorre Pirandello. Ricordate come si chiude Sei personaggi in cerca d’autore? Verità? Finzione! No! Verità, Verità! Che finzione! Credo che una delle cifre che individuino la scrittura di Quattrucci sia proprio la densità di riferimenti culturali e letterari impliciti nella sua prosa, ma quasi mai dichiarati. E veniamo al racconto in cui Quattrucci sembra scoperchiare le sue carte. Nico, “cioè Nicola”, è un madonnaro, un pittore di strada. Ma a un certo punto si convince di non essere l’artista effimero di pitture che scompaiono con una spazzatura o che a tutti sembrano copie di immagini più elevate, pur essendo invece invenzioni originali. E così comincia a dipingere vere tele, e trova il modo di venderle, di camparci. Un mercante d’arte scopre la sua bravura e gli chiede di dipingergli copie di quadri moderni di pittori illustri. Nico scopre che il mercante lo frega. Gliele paga poche migliaia di euro quei falsi, ma li vende a fior di milioni. Lo scopre per caso, alla televisione, vedendo un compratore che si vanta dell’acquisto, lo crede un originale e non sa che invece è una copia. Nico allora monta su una tragica sceneggiata. Ricopia il quadro di cui si è vantato alla televisione il compratore. E ci scrive sopra: questo l’ho fatto io. E si spara. Proprio nell’indagare i modi di quel suicidio, Marè scopre come sono andate le cose. Il messaggio è terribile: la vera arte non è riconosciuta più da nessuno, ci si deve eliminare, si deve inscenare un delitto, perché finalmente gli occhi ipnotizzati del compratore, e del lettore, di oggi, distingua il vero dal falso, la verità dalla finzione. O piuttosto: la finzione vulgata, quella della pubblicità, del commercio, dell’inebetimento sociale di oggi, del declino delle competenze, della truffa dei nomi bombardati dal consumo, e dalla macchina pubblicitaria, tutto questo, questa finzione ch’è falsa, che non inventa, distinguerla, invece, dalla finzione che inventa un mondo, dall’immaginazione che inventa l’arte. E non è un caso che un messaggio così dolente sulla barbarie dell’incultura dominante sia espresso da un narratore di genere, dallo scrittore di racconti polizieschi. Perché il genere, cacciato dalla porta dell’estetica crociana, rientra, e di prepotenza, nell’immaginario della scrittura, dalla finestra dello sguardo sulla realtà. Il selfie, l’ombelico avidamente contemplato di tanti scribacchini di oggi, è qui sostituito dall’io consapevole di uno scrittore che sa benissimo come in ogni rigo della sua scrittura si materializzi l’orrore dell’oggi, anzi l’interminata fuga con cui l’oggi pensa di eludere sé stesso, e non sa invece, che alla fine di quella fuga non potrà incontrare che il proprio irrilevante non senso, la propria effimera insignificanza. Lo scrittore, chi è veramente scrittore, gli mette perciò lo specchio della propria scrittura davanti alla faccia: guardati, è questo che non vuoi vedere. Ma solo guardando ciò che non vuoi vedere, riuscirai, forse, a vedere te stesso.

Fiano Romano, 4 settembre 2017