domenica 27 gennaio 2019

Un'incisione del Prometeo di Luigi Nono







Luigi Nono, Prometeo
Tragedia dell’ascolto
Ensemble Prometo
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Marco Angius, direttore

stradivarius STR 37096
2 cd


Luigi Nono si dedicò alla composizione del Prometeo dal 1981 al 1984, quando il 25 settembre l’opera debuttò a Venezia nella chiesa di San Lorenzo, diretta da Claudio Abbado, dentro una sorta di nave, o meglio una specie di arca lignea mitica, progettata da Renzo Piano, in cui i suoni erano emessi, accolti e diffusi dentro uno spazio quasi perfettamente sferico. La partitura fu ripresa e rimaneggiata poi per l’esecuzione milanese nello stabilimento dell’Ansaldo l’anno seguente. In qualche teatro tedesco fa ormai parte del repertorio. E in altri teatri d’Europa e del mondo è conosciuto ed eseguito: a Francoforte e Parigi nel 1987, a Berlino nel1988, ad Amsterdam nel1992, a Salisburgo nel 1993), a Lisbona nel 1995, a Bruxelles nel 1997, ad Akiyoshidai in Giappone nel 1998. Io, dopo la prima veneziana, lo riascoltai, profondamente commosso, a Salisburgo, nel 1993, diretto da Ingo Metzmacher, nella bellissima Collegienkirche, la chiesa dell’Università, costruita da Johann Bernhard Fischer von Erlach, il grande architetto austriaco che ha progettato, tra l’altro, la chiesa di San Carlo a Vienna e il castello di Schönbrunn. C’era gente fuori della chiesa che chiedeva un biglietto, perché si registrava il tutto esaurito. E Salisburgo non è un festival di scalmanati modernisti. In Italia fu ripreso nel 1991, alle Orestiadi di Gibellina. E di nuovo a Milano nel 2.000. Ora il Teatro Regio di Parma, nello straordinario spazio del Teatro Farnese, l’ha riproposto nel 2017 diretto da Marco Angius. Questa incisione stradivarius è la registrazione di quell’esecuzione effettuata nei giorni 26 e 28 maggio.

Le illustrazioni si riferisco alla copertina del cd, alla copertina del volume pubblicato dal Festival di Salisburgo per la settimana dedicata a Luigi Nono nell’ambito della rassegna Zeitluss (flusso del tempo), l’estate del 1993, Brennpunkt significa punto di accensione, di fuoco, e la copertina del volume dedicato a Nono dal Festival d’automne di Parigi nel 1987.



Il sottotitolo recita del Prometeo: Tragedia dell’ascolto. I testi, raccolti da Massimo Cacciari, sono tratti da Eschilo (Prometeo legato), Sofocle (Le Trachinie, Edipo a Colono), Euripide (Alcesti), Pindaro (Odi Pitiche), Esiodo (Teogonia), Goethe (Prometheus), Hölderlin (Hyperion), Nietzsche, Rilke e Benjamin. All’esecuzione partecipano i soprani Livia Rado e Alda Caiello, i contralti Katarzyna Otczyk, il tenore Marco Rencinai, gli attori Sergio Basile e Manuela Mandracchia, l’Ensemble Prometeo, la Filarmonica Arturo Toscanini, il Coro del Teatro Regio di Parma, Maurizio Faggiani il suo direttore, Caterina Centofante direttore assistente dell’immenso complesso, al live electronics presiedono Alvise Vidolin e Nicola Bernardini.



La gigantesca macchina architettonica e musicale può far pensare al progetto solo apparentemente analogo del Licht di Karlheinz Stockhausen. Ma il compositore tedesco resta ancora vincolato all’idea di una rappresentazione visiva di ciò che accade nella musica. E in ciò sembra riproporre, anche se attualizzata, l’idea wagneriana di un teatro totale. Nono, invece, esclude drasticamente qualsiasi riferimento a una rappresentazione, anzi addirittura a qualsiasi effetto visivo, per concentrarsi su una percezione integralmente limitata al puro ascolto. Non c’è nemmeno una storia, una narrazione che tenga insieme il procedere dell’azione sonora. Lo stesso testo è frammentato all’emissione di sillabe, vocali, separate le une dalle altre. Intende in questo modo suggerire una complessità di percezione e d’intelligenza della percezione che l’idea comune di ascolto non prevede. Negli ultimi anni il compositore veneziano era andato, infatti, via via prosciugando la propria scrittura musicale – ma sempre di scrittura comunque si tratta, non si esce mai, anzi, dall’idea del comporre, etimologicamente mettere insieme, di modo che anche l’improvvisazione, il casuale, finiscono per farne parte. A molti potrà infastidire o destare comunque perplessità, ascoltando, l’incomprensione del testo, la sua apparente non decifrabilità, ridotto come appare spesso a puro fenomeno acustico – una vocale, una consonante, una sillaba. Ed emesso il suono della parola non solo dal canto, ma anche dalla voce che parla, o sussurra. Che senso ha tutto questo? si chiederà qualcuno, abituato alle parallela percezione di un testo e di una melodia. Qui si aprirebbe un lungo discorso che bisogna solo accennare. Il discorso non riguarda solo la musica, ma anche, e soprattutto, la poesia, e in genere tutte le arti. Un aereo libricino del latinista Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario. Catullo Virgilio Ovidio Lucano, Torino, Einaudi, 1974, lo spiega benissimo. L’esergo, da Seneca, è illuminante: “Ecco come deve operare il nostro spirito: tener nascosti tutti gli elementi di cui si è giovato, mostrare solo quel che ne ha fatto”. Non si potrebbe definire meglio l’essenza dell’arte. Si pensi che l’attacco di un sonetto famoso, e bellissimo, di Foscolo, “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente”, è il calco quasi perfetto dell’attacco di un carme di Catullo, “Multas per gentes et multa per aequora vectus” (carme 101), e lo stesso Catullo traduce Saffo quasi alla lettera in “Ille mi par esse deo videtur” (carme 51). Il lettore antico provava un’emozione più alta proprio nel riconoscere la fonte del testo che leggeva, la citazione erudita, l’allusione cifrata. E di citazioni e autocitazioni è piena la storia della poesia, come del resto anche quella della musica. Famosa l’autocitazione dell’aria “Non più andrai farfallone amoroso” dalle Nozze di Figaro nel Finale del Don Giovanni di Mozart. Che tra l’altro ha anche un significato drammaturgico, inserisce una sciabolata d’ironia tragica: Don Giovanni sarà trascinato all’inferno dal Commendatore e non potrà più dunque farfalleggiare in cerca di donne. Cacciari e Nono vanno, però, più in là. Non è vero che la sillaba isolata escluda ogni riferimento a un testo. Il solo sapere che quella sillaba fa parte di un testo la connota di significato aggiunto. Se io affido a un attore la dizione della sillaba “nel” e altri attori o cantanti vi sovrappongono altre sillabe, o altre parole, mezzo, vita, cammin, la mia memoria associa subito tutte quelle sillabe al primo verso della Commedia. Ed ecco che acquistano subito un significato denso di attese, penso a un viaggio, a un viaggio tra i morti, alla selva in cui mi sono smarrito, al fallimento fin a quel punto della mia vita e alla volontà di uscirne, e così via. L’arte, e dunque anche la poesia, anche la musica, non si racchiude mai nel singolo fenomeno percepito, ma rinvia sempre a un complesso insieme, per rubare il termine alla matematica - Nono e Cacciari direbbero arcipelago - di significati. In questo caso al mondo si può dire infinito e sempre nuovo del poema di Dante. Ma non è diverso con la figura, con il mito di Prometeo, il πυροφόρος , in latino lucifer, portatore di fuoco, di luce. E c’è Eschilo, Prometeo legato, c’è Goethe, Esiodo, Hölderlin. Ogni sillaba, ogni suono della loro poesia riverbera significati, emozioni molteplici, di cui la semplice dizione, anzi la pura fonazione, si fa supporto, strumento, figuriamoci poi l’espansione della musica, del canto, soprattutto se intrecciata ad altre dizioni, ad altre fonazioni, in una costruzione che può ricordare la polifonia fiamminga.

Ma c'è, in tutto questo, un punto fondamentale che sfugge a molti: che la scrittura, sia verbale sia musicale, fa compiere un salto qualitativo a tutto ciò di cui è scrittura, che diventa perciò altro. Ciò accade anche ai livelli più bassi della comunicazione umana. Quando Grillo inventa il Vaffaday (lo odierò in eterno solo per questo!) lo spontaneo improperio diventa in quel momento un'altra cosa, perché non è più spontaneo insulto, ma si carica di molteplici significati, in questo caso soprattutto politici. Ora, se questo accade con un tale esempio di volgare e ruffiana astuzia politica, che cosa accade quando invece è la scrittura stessa del poeta, dello scrittore ad assumere nella scrittura l'immediatezza del parlato? Che a quel punto non è più parlato, non è più immediatezza, ma irrompe un'assunzione dell'immediatezza, la sua finzione, la sua imitazione. E in questo scarto sta la differenza - abissale! - tra scrittura e realtà. Per esempio quando Giuseppe Gioacchino Belli attacca un suo sonetto con un urto semantico e stilistico estremo: “Tu m’adimanni a me si fu puttana / a li su tempi la casta Susanna … “ L’urto sta tra quel puttana iniziale, in fine di verso e la rievocazione della “casta Susanna” nel verso seguente. La lingua plebea è lasciata alle spalle. C’è il poeta colto che gioca con la plebe e il suo linguaggio, e che si diverte a scombinare le idee della borghesia e dell’aristocrazia colte di cui fa parte. Ma nel Prometeo di Nono la prospettiva è un’altra. Siamo agli ultimi, a una sorta di apocalisse della musica. Sì, quasi al tono di una profezia, sicuramente all’accento di un mistico. Non che si prefiguri un’esistenza trascendente, ma sì un tempo illimitato, senza conclusione. Il suono, nel momento in cui si emette, rompe il silenzio, e la parola, anche la nuda sillaba, colpendo impetuosa o flebile la mente la proietta verso paesaggi indeterminati di significati molteplici, e più significati a seconda della cultura di chi percepisce, di chi ascolta. Ecco il senso del sottotitolo: tragedia dell’ascolto. Il puro ascolto, l’immedesimazione della mente, e dunque del corpo, con il suono che si percepisce, fa compiere alla coscienza un salto mortale, un urto con il niente del silenzio, dentro cui a un tratto irrompe il tutto della parola, il tutto della musica, e vi si ammucchiano, accumulando i significati, infiniti, con i quali la parola, e la musica, si fanno un tutto. La morte? La vita? Il migliore commento, allora, forse, è rileggersi con calma, e assaporando le parole – e il loro eco nella musica di Nono – del Prometeo di Goethe. Soprattutto i versi finali, quelli che il titano rivolge a Zeus:

Qui me ne sto, plasmo uomini
a mia immagine,
una stirpe che mi somigli
nel soffrire, nel piangere,
che goda e si rallegri
e non si curi di te,
come me!
(traduzione di Mario Specchio, Goethe, Tutte le Poesie, I, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 1989)

L’incisione è, come si è detto, la registrazione dell’esecuzione avvenuta nel Teatro Farnese di Parma, diretta da Marco Angius. Va goduta attimo per attimo. Ogni attimo farà nascere dentro l’ascoltatore una miriadi di emozioni, di pensieri, di riflessioni, come se assistesse a una tragedi di Eschilo o di Shakespeare. L’azione, che apparentemente manca, sta tutta in quell’ascolto. Il dramma che accade, e questo vuol dire in greco la parola δρᾶμα, accade nella nostra mente, è il nostro ascolto. Cominciamo?

Sorgono molte riflessioni durante l’ascolto. La prima è proprio quanto coinvolgente sia questa musica. Angius è bravissimo a dosare volumi, piani, intersezioni, come farebbe un artista figurativo con i diversi livelli di un’installazione. Curioso che per entrambi i fenomeni artistici, quello figurativo e quello musicale, molti manifestino segni d’insofferenza, quando non addirittura di aperta intolleranza: ma questa non è musica, questa non è arte! Ciò che colpisce è la sicurezza, anzi direi la sicumera, con cui costoro sanciscono che cosa sia e che cosa non sia arte. Un campo in cui da Aristotele a San Tommaso (scrive cose modernissime sull’estetica, Umberto Eco gli dedicò la propria tesi di laurea, poi pubblicata), al nostro Tasso, a Vico, a Kant, a Hegel, a Benjamin, a Bense e a chi più ne ha ne metta, la discussione resta aperta alle più diverse e molteplici idee, e sempre allargandolo il campo, via via sempre più inclusivo di fenomeni nuovi, e soprattutto più interrogante, più irrequieto e inquietante, problematico, mai consolatorio, mentre i negazionisti vorrebbero restringerlo a un orticello grazioso e confortevole. Orchestra, coro e solisti, attori collaborano con penetrante forza espressiva, declinando tutte le possibili emissioni del suono, perché meglio il suo messaggio interiore possa essere assimilato dal cervello di chi ascolta. Ma basta con le parole. Almeno con le parole che cercano di spiegare che cosa significhi il suono che le supporta, e diamo spazio, invece, alla lettera, aprire lo spazio del nostro ascolto, proprio a questo suono. Lasciatevene avvolgere, lasciatevene penetrare.
Precise, esaurienti, oltre che necessarie, preziose, le note nel booklet di Giuseppe Martini. Decisive, per capire il senso dell’opera, le righe che vi dedica lo stesso direttore, Marco Angius, dal titolo illuminante di La partitura non è l’opera. Sembrerebbe un’ovvietà. Invece va spiegato, ogni volta. La partitura è solo la scrittura di che cosa si deve fare perché l’opera prenda vita. In musica, come anche nel teatro. Il testo di un dramma non è il dramma, ma il copione per la sua messa in scena. E il suo valore letterario? domanderà qualcuno. Resta intatto. Perché, un poema tramandato oralmente, non ha valore letterario? Una musica affidata all’improvvisazione non ha valore musicale? La scrittura permette un’elaborazione più capillare dell’opera. Ma l’opera è la sua realizzazione, non la sua scrittura. Ciò sembrerebbe contraddire quanto s’è scritto sopra, ma non è così. Perché scrittura non è solo l’atto materiale di segnare qualche segno su un foglio, ma anche, anzi soprattutto, la progettazione dell’opera, la sua invenzione, la sua costruzione, la sua scrittura, appunto. Quella segnata sulla carta è un appunto per la memoria. Perché l’invenzione di un’opera è diventata così complessa, articolata, che sarebbe ormai impossibile affidarla esclusivamente alla trasmissione mnemonica, alla tradizione orale, che non a caso si serve anche di formule, sigle che aiutano la memorizzazione. Con l’atto di segnare le linee della costruzione sulla carta non ho più bisogno di questi aiuti mnemonici e posso lanciarmi nelle più spericolate e imprevedibili invenzioni.


venerdì 25 gennaio 2019

Teatro Massimo di Palermo: Turandot




PALERMO. TEATRO MASSIMO. TURANDOT di Giacomo Puccini. Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni.

Turandot Tatiana Melnychenko
Altoum e Principe di Persia Antonello Ceron
Timur Simon Orfila
Calaf Brian Jadge
Liù Valerie Sepe
Ping Vincenzo Taormina
Pang Francesco Marsiglia
Pong Manuel Pierattelli
Mandarino Luciano Roberti

Direttore Gabriele Ferro
Concept Fabio Cherstich e AES+F
Regia Fabio Cherstich
Video, scene e costumi AES+F
Luci Marco Giusti
Videomaker Georgy Arzamasov
Coach movimenti Alessio maria Romano
Assistente alla regia Fabio Condemi
Assistente alle scene e ai costumi Marina Bursigina

Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Maestro del Coro Piero Monti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo

Nuovo allestimento del Teatro Massimo
In coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna e il Badisches Staatstheater Karlsruhe
In partnership con Lakhta Center – San Pietroburgo
Partner tecnico per i costumi, Alcantara

Due teatri italiani, Il Teatro Massimo di Palermo e il Teatro Comunale di Bologna; un teatro tedesco, il Badisches Staatstheater di Karlsruhe; il Lakhta Centr di San Pietroburgo, un grattacielo alto 486 m, e di 86 piani, per questa Turandot che inaugura il 2019 a Palermo. Alla guida dei complessi teatrali e artistici un giovane regista triestino, Fabio Chestich, e il collettivo artistico di San Pietroburgo, AES+F, composto dagli architetti concettuali Tatiana Arzamasova e Lev Evzovich, il grafico editoriale e pubblicitario Evgeny Svyatsky e il fotografo di moda Vladimir Fridkes. Tutti insieme concepiscono uno spettacolo d’interazione continua tra azione scenica e narrazione visiva, che si realizza con un video proiettato sul fondo, il quale integra e completa l’azione sulla scena, e a ben pensare le dà anzi il suo vero senso. Il punto di partenza è di uscire dall’idea di una Cina mitica, esotica, come se l’immagina un occhio eurocentrico. Già nel 1997, a Firenze, per il Maggio Musicale, il grande regista cinese Zhang Yimou aveva figurato una Cina fiabesca assai diversa dall’idea mitica di un europeo. Non già la Cina dei Tang o dei Ming, o quella più arcai del primo Imperatore, o quella del Kublai Kan visitata da Marco Polo, e riraccontata da Calvino, da un regista colto come lui era questo infatti che ci si poteva aspettare. Ma Ahang Yimou è regista di un genere fantastico assai di moda in Cina, rievoca tempi mitici con la leggerezza della fiaba e dei racconti aerei come una danza di arti marziali. In ogni caso la Cina portata sulla scena del Comunale di Firenze non era la Cina reale. Né di ieri, né quella del suo grande millenario passato, né quella di oggi. Ma una Cina di fantasia, tutta drappi svolazzanti e guerrieri che disegnano danzando coreografie marziali. Era un piacere degli occhi, come nei suoi film. La Cina di Cherstich suscita un piacere diverso, più complesso, fa pensare a noi, e al nostro futuro, mettendo sulla scena il futuro di una Cuina immaginaria, distopica, multietnica, che domina il vasto impero delle galassie. Città con grattacieli erbiformi, polpi femminei sospesi nel cielo. Tappetti scorrevoli che accolgono corpi nudi di giovani preparati per la decapitazione, teste mozze che galleggiano sui petali di fiori giganteschi. Robot femminei dalle molte braccia che agguantano i malcapitati giovani, li torturano, li consegnano al nastro che scivola verso la “cote”. Gira gira la cote, canta, infatti, il coro. Dove regna Turandot il lavoro mai non manca. 



Autobus che sembrano navette aeroportuali, taxi da Guerre Stellari, navicelle che navigano nell’aria, aeroplani spaziali che volano tra i grattacieli. E una nave spaziale a forma di drago è di fatti il palazzo imperiale di Turandot.





Forme meccaniche, animali, umane, vegetali, architettoniche sono tutte una sorta di cellulose mollicce, giocattoli molli, mobili, mutevoli. Potrebbe essere una delle città invisibili di Calvino dal nome di donna. E predominante, del resto, è l’incombenza di figure femminili, dalle teste che si assemblano nella testa del polpo gigantesco ai robot con facce femminili che con le braccia molteplici a forma di tentacoli avvolgono, agguantano le proprie vittime. In questo futuro senza tempo, in questo paesaggio proteiforme, la vicenda della principessa che sottopone alla prova di tre enigmi il principe che dovrà sposarla, vicenda immaginata all’origine da un poeta persiano, Turandot significa in iranico figlia di Turan, trasformata in fiaba cinese da Carlo Gozzi (ma prima dai francesi dai quali l’attinse), e messa in musica, oltre che da Puccini, anche da Busoni, più che l’utopia di un futuro terribile, un incubo, ci si presenta come il sogno attualissimo di libidini represse, di fantasie scatenate alle quali non si era avuto il coraggio di dare forma. Una sorta di Bosch del XXI secolo. 



Lo spettacolo visionario si combina perfettamente con la musica ugualmente visionaria. Gabriele Ferro libera, infattui, la partitura dalle tante pastoie sentimentali e tardoromantiche che hanno finito per sfigurarla, e l’accostarla se mai alle più estraniate ed estranianti armonie di un Debussy, alle rarefatte, ma spesso taglienti melodie di un Ravel. La musica acquista così uno spessore inusitato, un’intensità che tocca nervi profondi, immette l’ascoltatore in un universo sonoro ugualmente inquitante del proteiforme mondo visivo che gli offre la scena. Il cast risponde splendidamente alle richieste del regista e del direttore, evita pertanto qualsiasi accenno a una recitazione realistica. 



Voce tagliente, magnifica quella della Turandot diTatiana Melnychenko. Le si confronta con uguale squillo il Calaf di Brian Jagde. Entrambi piegano lo squillo a un fraseggiare flessuoso, variabile. Patetica, dolce la Liù-infermiera di Valeria Sepe. Giusti ciascuno nel proprio ruolo il Timur di Simon Orfila, le tre maschere di Vincenzo Taormina, Francrsco Marsiglia e Manuel Pieratteli. L’imponente Mandarino di Luciano Roberti e il solenne Altoum di Antonello Ceron completano magnificamente il cast. E Orchestra, Coro, Coro di voci bianche, hanno splendidamente contribuito al successo dello spettacolo. Qualche isolato dissenso è stato presto sommerso dal fragore degli applausi. Com’era giusto.

Palermo, 19 gennaio 2019



lunedì 21 gennaio 2019

Ricordo di Mario Bertoncini


Lo ricordo, tanti anni fa, all’Auditorium della RAI di Napoli, per Nuova Musica e Oltre, il festival di musica contemporanea diretto da Mario Bortolotto. Credo che fosse il 1978. Mario Bertoncini, alto, elegantissimo, tutto vestito di nero, maglione a girocollo, si siede al pianoforte e suona, impassibile, In C, di Terry Riley. Un’ovazione fragorosa esplode alla fine dell’esecuzione e lo costringe a ripetere il brano. Erano i segni dei tempi, ai quali restarono sordi solo i più ottusi epigoni di avanguardie agonizzanti. Non i grandi musicisti delle stesse avanguardie. Nel pomeriggio prima del concerto, accompagnai Aldo Clementi tra vari negozi di ferramenta del Lungomare di Chiaia a cercare viti e bulloni, per “preparare” il pianoforte. Marc Monnet era stato fermato alla frontiera di Ventimiglia perché in possesso di una rivoltella. “E questa che cos’è?” domanda un doganiere. “Uno strumento musicale”, risponde Monnet, imperturbabile. Ed era vero: avrebbe sparato in un suo pezzo. Mario Bertoncini, allora, non viveva più in Italia, ma a Berlino. Fu salutato con entusiasmo, e abbracciato, da Aldo Clementi, e da Francesco Pennisi. Mi accorgo, scrivendo, che sto facendo un elenco di scomparsi. Come anche Luciano berio, Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen. Se qualcosa ci avevano insegnato era la libertà di essere sé stessi. Altro che dogmatici! Dogmatici, se mai, come sempre, gli epigoni, ma non tutti. Non certo Armando Gentilucci, anche lui scomparso. O Paolo Renosto, anche lui insieme agli altri, fuggito dove nessuno sa se da là c’è ritorno. O Franco Evangelisti, romano purosangue. Come Bertoncini. La memoria è spesso un registro di amori interrotti. Francesco Petrarca li scriveva a mano a mano che lasciavano la terra sul manoscritto della sua amata Eneide. E noi, su quale registro li scriveremo? Mario Bertoncini era stato tra i fondatori di Nuova Consonanza. Il moderno non è mai stato la negazione dell’antico o l’esclusione del diverso. Clementi adorava Schubert, Evangelisti Beethoven. Berio, Monteverdi. Mi accorgo, ricordandoli, che un’epoca si è chiusa. L’altra, che ora viviamo, non so, come Socrate, se sia più tollerante o più dogmatica, più aperta o più chiusa, migliore o peggiore. So che il giudizio è sospeso, e come Socrate, rievocato da Platone, posso solo affermare che la verità su quale sia il mondo migliore la sa solo il dio o chi ne fa le veci. Arrivederci – forse! -, Mario. Ma dalla nostra Memoria senz’altro non sei mai andato via.

Fiano Romano, 21 gennaio 2019
Dante, nostro contemporaneo?

Marco Grimaldi ha scritto un breve, e intenso, saggio su Dante e l’ha intitolato “Dante, nostro contemporanero. Perché leggere ancora la Commedia” (Roma, Castelvecchi, “irruzioni”, pagg. 45, € 5.00). Ha il taglio, quasi, di un pamphlet, più che di un saggio letterario, e si legge d’un fiato. La contemporaneità additata è, tuttavia, quella di qualunque classico, anzi direi di qualunque scrittore che sia davvero scrittore, ma Grimaldi mette invece giustamente in guardia ogni lettore dall’apparente attualità delle sbalorditive e appariscenti attualizzazioni. La concezione della vita e dell’arte che aveva Dante non è la nostra, ma quella di un intellettuale fiorentino tra XIII e XIV secolo. E’ nostro il suo mettersi in discussione, e dalle fondamenta, e scrivere un poema proprio su questa integrale ridiscussione della propria vita e dei propri convincimenti. Persuade meno il confronto con Kant e l’idea che Dante prefiguri la libertà dell’atto morale così come la concepisce Kant e dopo Kant la modernità. Se non ho frainteso quanto scrive Grimaldi nelle pagine finali. In realtà il libero arbitrio di cui parla Dante è quello di Agostino, fortemente condizionato, per non dire limitato, dalla predestinazione divina: che a Dante genera però dubbi, angoscia, e ne incarna bene la profonda tristezza il personaggio di Virgilio. Soprattutto nell’incontro con il “redento” Stazio. Ma il disagio intellettuale, prima che emotivo, di Dante si rivela drammaticamente nel problema dei bambini irredenti. E che Dante sia toccato, e dolorosamente, dal problema ce lo fa sentire contemporaneo. Il resto no, rientra nella vicenda intellettuale di un poeta certamente innovatore, ma legato a doppio filo ai trovatori, ai trovieri, allo Stil Novo. Proprio all’inizio del viaggio, infatti, l’incontro con Francesca, con la dannazione di Francesca, gli fa crollare un mondo di certezze addosso. Il viaggio è la ricostruzione di un convincimento riguardo alla vita assai più complesso di quello di un Arnaut Daniel, di un Guinizelli, di un Cavalcanti. L’amore può – può! - essere dannazione. Il canto centrale del poema, il XVII del Purgatorio, spiega perché. La visione finale di Dio glielo ripropone il problema, ma il viator non riceve tuttavia da Dio nessuna risposta, il Motore Immobile lo assorbe nella propria identità di Causa delle cose, il poeta è per un attimo senza tempo assorbito dall’Essere, ma può raccontarlo solo dopo ch’è ritornato nel divenire, con una grande dose di oblio. E non sa trovare altra spiegazione che quella causa è Amore, l’amor che muove il sole e l’altre stelle. Il problema di Francesca all’inizio dell’inferno, di Guinizelli alla fine del Purgatorio, e di Beatrice nel congedo del Paradiso, trova una soluzione tipicamente dantesca: linguisitica. Il Motore, la Causa, l’Essere è Amore. Ma non quello disordinato dei sensi, bensì quello che trascende i sensi, ed è l’Ordine supremo delle cose. Nell’ultima tappa del viaggio, all’inizio dell’ultima tappa, lo spiega bene Beatrice:

Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

Di quest’ordine, di questa calma, che per gli uomini s’incarnerebbe, dovrebbe anzi incarnarsi nella Giustizia, in terra non c’è traccia, l’aiuola che ci fa tanto feroci è il regno del disordine, della violenza, degli appetiti, del Caos. Accidenti se Dante non è nostro contemporaneo! In margine: la concezione agostiniana, e quindi dantesca, del libero arbitrio, mi appare oggi assai più moderna della libertà assoluta pensata da Kant. E non solo perché già Nietzsche ne aveva messo in evidenza i limiti, ma soprattutto perché Darwin prima e oggi le neuroscienze hanno profondamente ridimensionato l’autonomia delle decisioni umane. Tutto ciò ci dovrebbe, tra l’altro, far ripensare i nostri attuali sistemi legislativi in fatto di responsabilità morale dell’individuo e di comminazione di pene da parte della società. Ma questo è un altro discorso. Sul quale anche l’inflessibile Dante non ha certezze assolute. E se non le aveva un credente del XIV secolo, ciò dovrebbe farci riflettere.

Fiano Romano, 21 gennaio 2019

domenica 20 gennaio 2019

Luca Lione a Roma Tre


YOUNG ARTISTS PIANO SOLO SERIES
GIOVANI PIANISTI IN AULA MAGNA
Diversi modi di essere classico
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE
STAGIONE DI CONCERTI 2018-2019 di romatreorchestra

Luca Lione interpreta Haydn, Liszt e Skrjabin

Il percorso che dall’ultimo Haydn conduce a Liszt e alla densissima quinta sonata op. 53 di Skrjabin è tutt’altro che strampalato, e a seguirlo con occhio attento alla costruzione delle pagine più che all’efficacia emotiva con cui colpiscono l’ascoltatore si possono impostare interessanti e non marginali riflessioni. Alla fine, l’emozione arriva lo stesso, è anzi accresciuta dalla consapevolezza di come sia stata provocata. Intanto, accomuna i tre compositori il coraggio della sperimentazione: sono tutti e tre, fin dalla giovinezza musicisti non solo informati su quanto di nuovo accade nel proprio tempo, ma che anche a loro volta si mettono continuamente anch’essi alla ricerca dell’inedito, dell’invenzione spericolata, curiosi come sono dell’insolito, e sempre sul filo di un salto nel buio, vogliono cioè affrontare il rischio dell’ignoto, addentrarsi dove prima non s’era inoltrato nessuno. Oggi lo chiameremmo atteggiamento avanguardistico. Dei tre forse il solo Liszt accetterebbe di essere definito artista d’avanguardia, ma anche lui con riserva, rispettoso e amante com’era della tradizione, che in particolare si riassumeva per lui in due nomi: Bach e Beethoven. Ma cominciamo con Haydn. Luca Lione ha interpretato la sonata più famosa e più frequentata dai pianisti, la 52a in mi bemolle maggiore. Beethoven impara molto da questa sonata. A cominciare dalle insolite relazioni armoniche. Il primo tempo è in mi bemolle maggiore, e una spesso osservata tradizione vorrebbe che il tempo centrale, lento, della sonata, sia nella tonalità della sottodominante, in questo caso la bemolle maggiore, o eventualmente il suo relativo minore, fa minore, tonalità tra l’altro assai cara a Haydn, come lo sarà per Schubert (ma sono moli i legami e le affinità tra Haydn e Schubert, compresa la frequente alternanza maggiore minore sulla stessa tonica). Invece l’adagio di questa sonata è in mi maggiore. Tonalità apparentemente lontanissima. Ma diventa immediatamente comprensibile con l’intervento della sesta napoletana. Beethoven lo seguirà spesso, in questo. Tipicamente haydniana è poi la frenesia ritmica del Finale, un Presto, con il tema di note ribattute. L’analisi in realtà scopre che il tema del finale è imparentato con il tema che attacca il primo tempo. Non è questo lo spazio per proseguire oltre nell’analisi della sonata. Basti, però, osservare che la logica di ricavare da pochi elementi tutti i temi di una composizione fa parte del sistema costruttivo di Haydn, che anche in questo offre un modello a Beethoven. Nella seconda Ballata di Liszt, in si minore, la derivazione da un’unica idea di tutta la costruzione musicale si fa addirittura esibita, ed è perfettamente percepita dall’ascoltatore. Anche Skrjabin infine tende a condensare l’idea di una sonata nell’elaborazione intricata, quasi contorta, armonicamente irrequieta, di un’unica idea di partenza. Luca Lione questa comune ricerca di unità, di elaborazione coerente delle idee musicali, la fa sentire attraverso una magistrale indipendenza della mani e delle dita, in modo da ottenere la pulizia delle voci che entrano in gioco, e questo forse spiega anche l’aggiunta, nel programma del concerto, del decimo preludio, in mi minore, del Clavicembalo ben temperato di Bach. Anche qui un’unica idea sulla quale è costruito un monumentale edificio contrappuntistico che però non rinuncia al piacere del canto. Ma allora tanto valeva eseguire il preludio come lo ha scritto Bach, e non già nella riscrittura alquanto mielosa di Aleksandr Ziloti, che oltretutto decurta il brano della stretta finale. Bach è in fondo il padre di tutto questo sperimentalismo armonico e contrappuntistico. Sentiremo comunque parlare del giovane pianista calabrese, perché le sue interpretazioni mostrano già una maturità notevole nella comprensione della struttura delle pagine interpretate e una sottile sensibilità armonica nel tocco, che segue e mette in rilievo con intelligenza proprio lo sviluppo dell’armonia che innerva ogni brano. Se a ciò si aggiunge l’eleganza e la libertà del fraseggiare, l’intensità espressiva con cui sono esaltate le volute del canto, si può comprendere da che complesso studio nascano le letture musicali di Lione. La serata faceva parte di un ciclo dedicato a giovani pianisti, come l’ha lodevolmente immaginata e programmata Valerio Vicari, per l’Università Roma Tre, nell’ambito della stagione concertistica di Romatreorchestra, di cui è il direttore artistico. Nell’Aula Magna dell’Università, sulla Via Ostiense, il non folto pubblico (una sessantina di persone) ha seguito con attenzione le esecuzioni, e ha applaudito con calore il pianista, chiedendo e ottenendo un bis: un preludio di Nino Rota, accolto con un grido di entusiasmo. Quando intelligenza e sensibilità si uniscono in uno stesso interprete con tanta naturalezza non può non risultarne anche nell’ascoltatore l’eccitazione di una naturale e consapevole partecipazione che è insieme un’intuizione intellettuale ed una compartecipazione emotiva.

Roma, 20 gennaio 2019

domenica 6 gennaio 2019

Poesia cifrata

Oggi è il giorno dell’epifania, dell’ἐπιφάνεια, apparizione, di Dio sotto le vesti di un bambino. Si dimentica o si trascura troppo spesso l’origine greca di molti dei concetti fondamentali del cristianesimo. I vangeli e tutto il Nuovo Testamento, sono scritti in greco. Matteo, scritto prima in aramaico, si è diffuso subito tradotto in greco, la lingua del Mediterraneo orientale. I primi cristiani percepivano un’intima affinità tra il Cristo e Dioniso. Nelle Baccanti di Euripide l’epifania del dio avviene dopo la comparsa di Agave con la testa mozzata del figlio su un tirso. In greco la verità è il non nascosto: ἀλήθεια. Ma proprio per questo, poi, la mistica cercherà nell’occultamento simbolico dei significati il senso profondo della Verità che si s-vela, alla lettera: si toglie il velo che la nasconde. Per tutto il medioevo, sia latino che greco, periodo tutt’altro che oscuro, ma ricchissimo di pensiero, la mistica numerica costituisce una lunga e ininterrotta riflessione sul rapporto tra i numeri e la realtà, tra i numeri e la storia. Dante, di questa tradizione, tocca il vertice, e ne esaspera l’intricatissima rete di relazioni tra realtà e numero, storia della redenzione e numero. A cominciare dalla struttura più appariscente (epifanica!) della Commedia che ruota intorno al numero tre: tre cantiche di 33 canti ciascuna, più un canto introduttivo a costituire il numero perfetto di 100. Manfred Hardt (I numeri nella Divina Commedia) ipotizza addirittura che il poeta abbia pianificato, prima di scrivere il poema, tutta la sua struttura canto per canto e previsto i luoghi dove inserire numeri e parole chiave. Non sarebbe un procedimento estraneo alla pratica degli scrittori medievali. Si pensi solo alla capillare misurazione delle quantità sillabiche a chiusura dei periodi, nella prosa, il cursus, che Ponzio il Provenzale, il primo a scriverne, a nostra conoscenza, così lo descrive: cursus est matrimonium spondeorum cum dactilis prolatione debita celebratum. Il libro di Hardt è una miniera d’informazioni e di sollecitazioni. Si affianca, per importanza esegetica, al saggio Figura di Erich Auerbach. Prendiamo l’esempio del cielo del Sole, nel Paradiso. E’ il quarto cielo, dunque il cielo centrale dei sette delle sfere dei pianeti, “stelle”, talora, anche, nel linguaggio di Dante: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. Va dal primo verso del canto X al verso 69 del XIV, per un totale di 643 versi. Il centro del cielo corrisponde al verso 322° che è il verso 35 del canto XII, verso mediano della 12a terzina del XII canto. Il numero 12 è altamente simbolico: i 12 apostoli, i 12 sapienti, Cristo dodicenne al tempio, ecc. il verso 35 dà, come somma, il numero 8, che è il numero della redenzione, significata dal battesimo, i battisteri hanno in genere pianta ottagonale. Ma il 12 è anche multiplo di 3, risultato del prodotto tra 3 e 4: 3 è la Trinità, 4 la croce del Cristo, i punti cardinali, le virtù cardinali, i fiumi edenici, le parti del mondo. Quanto al cielo del Sole, adombra la figura di Cristo, centro della Storia, e nei canti centrali, XI e XII, sono delineate le figure di santi che realizzano in terra la figurazione del Cristo come Sapienza , San Domenico, e come Redentore crocifisso, San Francesco. Nella terzina centrale di questo centro del cielo del Sole, 12a del XII canto, i due santi sono accomunati, e nel verso centrale della terzina, che è il vero centro del cielo, sono “unificati”, a realizzare anche nella struttura dei versi il rapporto trinitario di un Dio in tre persone:

Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca:
sí che, com’elli ad una militaro,
cosí la gloria loro insieme luca.

Ma questo è solo un esempio, il più facilmente riassumibile. Assai più numerose e intricate sono le simbologie numeriche di tutto il poema. Evidente la programmazione dell’intera intelaiatura simbolica. Il poema è stato progettato a pezzo a pezzo, con scrupolosa e capillare strutturazione, misurando la collocazione della parole e delle “figure” con precisione matematica. Impossibile non pensare a tutte le svariate accuse di intellettualismo, sterile formalismo, con cui da più parti è stata aggredita e si continua ad aggredire in ogni tempo l’arte non immediatamente comprensibile, e in particole le furibonde critiche lanciate da più parti contro certa avanguardia. Aggrediranno costoro anche la Commedia? Ma – a parte la condivisione o l’ostilità per le poetiche particolari - sfugge a costoro che uno scrittore, un musicista, un artista che voglia assumere nel proprio lavoro un metodo cifrato di scrittura, ubbidire a pianificazioni particolareggiatissime dell’opera, non impone a nessuno se non a sé stesso quel particolare metodo, quel particolare lavoro. Se qualcuno eleva poi la formula a metodo universale non ne intende la natura. Il che è tipico degli epigoni e degli imitatori, in parole povere dei mediocri, che non hanno sufficiente fantasia né adeguata intelligenza per crearsene uno proprio, di metodo, e inventarsene la regola.
Dante è stato un mio punto di riferimento costante fin da quando avevo 7 anni (non si cerchi nessun significato simbolico in questo numero!) e quando scoprii nella biblioteca di mio padre l’edizione delle opere di Dante pubblicata dalla Società Dantesca Italiana. A 7 anni quel libro mi parve un codice cifrato, impenetrabile. Ma venerato come una reliquia. Anche per il ritratto del poeta proprio ad apertura di pagina: una riproduzione color seppia del ritratto di Giotto nel Palazzo del Podestà a Firenze. Qualche anno dopo si aggiunse Leopardi, che mi parve già più comprensibile (ma era un’illusione giovanile). Ancora più anni dopo Baudelaire. Restano, a tutt’oggi i miei tre poeti principali di riferimento. Né dovrò spiegare, qui, la sotterranea affinità che lega le Fleurs du mal alla Commedia.
Corollario alla riflessione precedente la lettura dell’attacco, sublime, della Vita Nuova. Che è a tutti gli effetti la prima autofiction della nostra letteratura. Del resto una sorta di autofiction è la stessa Commedia, altro che moda di oggi, come leggo sull’ “Espresso”! Si noti la scorrevolezza dell’attacco e l’insistenza sul numero nove nel secondo capitolo. 


 

Fiano Romano, 6 gennaio 2018