giovedì 30 gennaio 2020

"80" Panni

UNIVERSITA’ DI ROMA TOR VERGATA
MACROAREA DI LETTERE E FILOSOFIA
Stagione dei concerti 2019-2020
Auditorium “Ennio Morricone”

Mercoledì 29 gennaio 2020

80” PANNI

festa per
MARCELLO PANNI

Mezzosoprano, Alda Caiello
Ensemble Roma Sinfonietta



Marcello Panni compie 80 anni. E i compositori gli fanno festa. Figlio di Adriana Panni, che fu per due decenni, dal 1973 al 1994, Presidente dell’Accademia Filarmonica Romana, ma da sempre animatrice dell’istituzione, Marcello, musicista, compositore, vive da protagonista l’intera stagione delle avanguardie musicali europee, ma senza trascurare il repertorio e anzi promuovendo la proposta di opere uscite dalla pratica teatrale. Come negli anni ‘80 la ripresa moderna del Flaminio di Pergolesi, con la regia di Roberto De Simone, allestito dal Teatro di San Carlo, inaugurato a Venezia e poi condotto in Tournée a Charleston, il coté americano del Festival dei Due Mondi di Spoleto, e a Versailles, per inaugurare il restaurato, e delizioso, Teatro di corte. Protagonista, en travesti, una affascinante e tenerissima Daniela Dessì.

Ma altri sono i modelli dominanti di Marcello Panni direttore e compositore. Per sua stessa confessione, il padre di tutti, Stravinskij. E accanto a lui, Luciano Berio. Non a caso: compositori che intendono l’avanguardia come uno spazio inesauribile di sperimentazioni; confinate in un angolo, o addirittura espulse, le rigidezze dogmatiche dei partiti presi. Il moderno, l’avanguardia, il contemporaneo, si configurava e si configura per Panni come lo spazio del “molteplice”, secondo la felice definizione che ne diede Armando Gentilucci, figura di musicista, e di compositore, di teorico, di divulgatore, troppo presto sottratta alla musica di oggi italiana. La “festa per Marcello Panni” organizzata dall’Ensemble Roma Sinfonietta, per l’Università di Tor Vergata, e alla quale ha partecipato il mezzosoprano Alda Caiello, è stata scandita dall’omaggio di sei compositori, di tendenze diversissime, a conferma dell’antidogmatismo del festeggiato.

Lorenzo Ferrero, Due minuti per Marcello, per flauto, clarinetto, arpa, viola e violoncello. Può ricordare Čajkovskij – un’allusione, una citazione, più che un’imitazione – o certi modi belliniani, arpeggio e melodia, e accarezza l’orecchio per due veri minuti.

Ludovico Einaudi si lancia per un suo viaggio nella dissoluzione del canto con My Journey per violino, viola, violoncello, contrabbasso, flauto, trombone, marimba e arpa.

Lucio Gregoretti sembra volersi collocare sotto l’ombrello di Stravinsky, anche per il gusto di giocare coi titoli, Hello, March! È inglese, ma all’orecchio suona come un: avanti, Marcello.

Carlo Boccadoro disegna un elegante Calligramme pour M.P., per clarinetto, arpa e percussioni.

Matteo D’Amico si diverte con un settimino in chiaroscuro, anche lui stravinskieggiando. Con molta delicatezza.

Infine, Fabio Maestri conclude il sestetto con una riscrittura raffinatissima e divertente di ‘O surdato ‘nnamurato per voce e 7 strumenti. La voce è quella di Alda Caiello, che si presta divertita al travestimento.

In mezzo un ricordo, un omaggio, un devoto atto di gratitudine, o che cosa? ci sono i Folk Song di Luciano Berio, che Alfa Caiello, espertissima, ha l’intelligenza d’interpretare da un suo personale intento esegetico, senza lasciarsi intimorire dal modello unico di Cathy Berberian. Ed è bravissima, accattivante, conquista subito tutti, i musicisti che la sostengono e il pubblico che l’ascolta. Panni, poi, decide di regalarsi da sé una musica per sé: e abbiamo così un grazioso, delicatissimo, raffinato Forellen Trio, trio della trota, dove naturalmente la citazione è da Schubert. Ma l’organico, un trio d’archi, può far pensare o a un divino Divertimento mozartiano, unica composizione di Mozart per questo organico, o ai bellissimi, straordinari Trii per archi di Beethoven, forse gli esempi perfetti del genere. Chi sa se a Beethoven non alludesse anche il Settimino di D’Amico. Il secondo brano che Panni si dedica sono quattro pezzi dai 16 Popsongs. Evidente l’allusione a Berio. Ma abbassata di tono. Pop, non folk, Taranta e Pizzica infuriano indiavolate. Più da febbre del sabato sera che da sagra paesana nell’aia di una fattoria. E anche in questo c’è insieme un gioco, un divertimento, e la malinconica consapevolezza che la festa è finita, insieme al paese delle aie e delle fattorie. La mirabile compagnia si scioglie che è ormai sera, si beve una coppa di spumante, e tutti a casa a ricordare la festa e a riandare con la memoria alle musiche ascoltate.

mercoledì 29 gennaio 2020

Canciones clásicas españolas




Fernando Jamandreu Obradors (1897-1945)
Canciones clásicas españolas
Complete art songs
Daniela Nuzzoli. mezzosoprano
Raúl Hernández, tenore
María Laura Martorana, soprano
Olaf John Laneri, pianoforte

Da Vinci Classics C00192
1 cd


Dame, amor, besos sin cuento,
Asido de mi cabellos,
Y mil y ciento tras ellos,e dopo quelli mille e cento,
Y tra ellos mil y ciento.
Y después …
De muchos millares, tres!
Y porque nadie lo sienta
Desbarateremos la cuenta
Y … contemos al revés.

Così canta il poeta rinascimentale spagnolo Cristóbal de Castillejo. Dammi, amore, baci senza numero, / afferrato per i capelli, / e mille e cento dopo quelli, / e dopo … / di molte migliaia, tre! / E perché nessuno se ne accorga / disfaremo la somma / e … conteremo al rovescio. La fonte è un carme di Catullo, il quinto: Vivamus, mea Lesbia. Ma semplificato, ristretto ai soli baci, senza le ironie sociali del poeta latino e, soprattutto, eliminando il riferimento, per uno spagnolo del Cinquecento – e in genere per un cristiano europeo, sia cattolico sia protestante, e in realtà anche per il miscredente – insopportabile, alla “perpetua notte” ch’è il regno della morte: bisognerà aspettare il Coro dei morti di Leopardi, e il Tristano di Wagner perché una simile idea si ripresenti come probabile e accettata dall’europeo. Ecco, comunque, il testo di Catullo (e la sua traduzione in italiano):

Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum seueriorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.



Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e i rimproveri dei vecchi criticoni
tutti insieme non consideriamoli un soldo.
I giorni tramontano e tornano;
ma per noi una volta che tramonta la breve luce,
dobbiamo dormire una sola perpetua notte.
Dammi mille baci, poi ancora cento,
poi altri mille, poi ancora altri cento,
poi di seguito mille, e poi di nuovo cento.
Quando infine ne avremo dati molte migliaia,
le confonderemo, per non sapere,
e perché nessun maligno ci invidi,
sapendo che così grande è il numero di baci.


Castillejo si dimostra, dunque, un poeta aggiornato alle poetiche rinascimentali e, anche se probabilmente agnostico, ubbidisce al diffuso rispetto cristiano della morte. Tuttavia, più interessante è notare che il carme, scritto da Catullo in eleganti endecasillabi faleci, è invece da Castillejo riscritto in un metro popolare spagnolo, la redondilla, quartine di ottonari con rima abba, che sarà nel secolo seguente anche uno dei metri del teatro. E non solo per l’attento osservatore dei costumi del popolo, ch’è l’immenso drammaturgo Lope de Vega, ma anche per il più raffinato Calderón de la Barca, che riassume il metro popolare trasformando in strumento di visionarie combinazioni fantastiche barocche. A dimostrazione del legame permanente della cultura spagnola con la cultura popolare, anche quando si innalza nelle sfere di una poesia quasi metafisica e astratta. Si pensi solo alle vertigini immaginifiche di un Góngora. Come nella pittura, del resto, dove convivono Velázquez e Murillo, Ribera e Zurbarán, o El Greco (che è in realtà è cretese – ma la cultura greca conosce misture simili a quelle della cultura spagnola). Ora, questo riferimento continuo, sia diretto sia filtrato da una prospettiva colta, alla cultura popolare distingue da subito la poesia, e la letteratura, spagnola da quella italiana coeva. Anche il riferimento colto è, infatti, inserito in un contesto leggibile, popolare, che rifiuta la separazione dotta, il livello letterario alto esibito come esclusivo, separato. La cultura spagnola, anche la più colta, è invece sempre inclusiva. Ciò potrebbe spiegare anche certe evoluzioni della società spagnola contemporanea, per esempio, nel cinema. Ma questo è un altro discorso. Non che nella poesia spagnola manchi comunque un livello alto, anzi è spesso ricorre a un livello più elaborato, più artificioso, di quello italiano. Ma, ciononostante, la lingua adottata non è mai una lingua separata dalla lingua parlata.

In Italia questa mescolanza di livelli la troviamo solo nella commedia e nella poesia satirica. Ancora più interessante è il fatto che questa poesia diventi una canzone popolare (le proteste studentesche nella Spagna di Franco facevano uso di canzoni i cui versi erano poesie dei due fratelli Machado, Antonio e Manuel, di Lorca, di Jiménez, nessuna censura avrebbe potuto proibirle) e ancora più significativo è il fatto che la canzone popolare sia in seguito rielaborata, quattro secoli dopo, nel primo novecento, tra gli altri, da Fernando Jamandreu Obradors, un compositore catalano che ne fa una pagina di musica “colta”.

Non ci si meravigli, però, che sia un musicista spagnolo a farlo. La cultura spagnola, a differenza di quella italiana, conserva sempre, come si è visto fino ai giorni nostri, contatti indissolubili con la cultura popolare. Questa cultura, però, non è mai guardata come fenomeno esotico, come corpo estraneo al livello alto della società, come cosa da ridere, e goduta dall’alto di una cultura superiore, come invece, che so, da noi si osserva nella Nencia di Barberino di Lorenzo de’ Medizi, o in Ruzante, bensì con è assunta con una completa condivisione di stile e di sentimenti, di cui per esempio il teatro di Lope de Vega costituisce uno dei vertici. Ma anche la narrativa, la pittura, la musica hanno lquest stesso carattere. Cervantes, Ribera e Velázquez. Domenico Scarlatti è un musicista italiano, ma trapiantato a Madrid si adegua mirabilmente a questo clima culturale, la sua musica accoglie ritmi, melodie, modi della musica popolare spagnola.

Obradors, in qualche modo, fa un’operazione simile: traslata a un livello colto la musica popolare che ascoltava cantare per le strade. Ma a differenza dei suoi contemporanei Falla e Granados, per i quali è il lato popolare il centro dell’interesse e ciò che deve essere messo in evidenza, per Obradors, il musicista del salotto borghese, è il pubblico borghese dei salotti il pubblico delle sue canzoni. Tant’è che queste canzoni girano il mondo, ancora, oggi, nelle sale da concerto.

L’operazione di Obradors, se ci si riflette, ha qualche punto di affinità con i Folk Songs di Luciano Berio: ci troviamo mezzo secolo dopo, ma Berio, che ha, tra l’altro, anche splendidamente strumentato per orchestra la parte pianistica delle canzoni popolari di Falla, anche lui trasferisce a un livello alto, “colto”, la fonte popolare. Non sono passate invano i decenni di ricerche sul canto popolare di Bartók, tra gli altri (e anche a Bartók alludono i suoi duetti per due violini), e gli studi di un De Martino, che proprio in quegli anni trovarono finalmente spazio anche nelle aule universitarie. Obradors è amico di Felipe Pedrell (1841-1922), colui che avvia il confronto della musica spagnola con la musica europea, soprattutto francese, dell’epoca, ma che invita anche al confronto con la secolare tradizione popolare spagnola.

Queste canciones clásicas españolas sono una delizia. Raffinatissima la scrittura pianistica, che richiama chitarre, castañuelas (nacchere), violini gitanos. Del canto gitano sono assunte anche le fioriture. Ma non tutto il canto popolare spagnolo è gitano. Ammirevole è anzi la varietà di fonti e di stili. Gli interpreti di questo cd vi aderiscono con intelligenza e penetrazione, tenendosi ugualmente lontani dal conferire alle loro interpretazioni un carattere troppo popolare o troppo colto. La piacevolezza, comunque, è l’aspetto che subito conquista l’ascoltatore, che non vorrebbe mai smettere di ascoltare. Tanto più che sono incisi tutti e quattro i volumi delle canciones, più due canciones non comprese nei quattro volumi. In totale 25 canciones. Qualche acuto sopranile non proprio preciso è l’unica ombra che si può rimproverare a un’interpretazione per il resto sempre luminosa. E avrebbe aiutato il piacere dell’ascolto avere inserito nel booklet i testi delle canciones. Ma è già un regalo che finalmente ci si offra un’esecuzione integrale delle canzoni di Obradors. E’ un pezzo della storia culturale della Spagna, e dunque dell’Europa, moderna, che nessun europeo che voglia considerarsi colto, informato, può permettersi d’ignorare. La storia culturale del Continente passa anche attraverso queste opere così cariche di memoria e insieme così aperte a futuri sviluppi.


martedì 28 gennaio 2020

Il senso della poesia




Ieri, giorno della memoria, ho postato su Facebook una poesia di Umberto Saba, La capra.

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Qualcuno ha sentito quel “varia” in fine di verso come un inciampo. E per rispondergli ho sviluppato un’analisi della poesia congiunta a una riflessione. Ecco il testo. Ma qui voglio svilupparlo.

Varia” fa rima con “solitaria”. I poeti che usano la rima comunicano significati ed emozioni anche con la rima. La voce "non varia", resta sempre uguale, resta sempre la stessa, ed è per questo che è "solitaria", non assomiglia a nessun'altra voce. Tutto questo Saba non lo spiega. Lo comunica semplicemente accostando l'espressione "non varia" all'attributo "solitaria". Crea un corto circuito, un'associazione, che dovrebbe fulminare il lettore o l'ascoltatore. Si pensi anche a quanti pensieri, quante emozioni, si condensino nella rima “semita” / “vita”.

La poesia, tutta, sempre, di ogni tempo, ha molti livelli di lettura: quello metrico, troppo spesso trascurato, dovrebbe invece costituire il punto di partenza. Anche perché lo è, una partenza, per il poeta, partenza e punto di arrivo: nel tragitto si brucia tutto il senso della poesia.

Prendiamo la famosa terzina che attacca il racconto di Francesca nell'Inferno:

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria, e ciò sa il tuo dottore.

Dolore” fa rima con “dottore”. Non si tratta di un dolore qualunque, di un sentimento, di un'emozione, ma di una condizione permanente dell'anima esclusa dalla salvezza. Il dolore è appunto quello dell'esclusione. Francesca da dannata, Virgilio da pagano. La felicità allora è la vita vissuta, che ricordarla, ora, nell'esclusione da qualsiasi felicità, è dolore inconfrontabile di cui non ce n'è nessuno "maggiore", il troncamento di “maggiore” rende nascosta la rima con “dolore” e “dottore”. Il poeta non è uno che sente, ma uno che scrive il proprio sentire. Ed è la scrittura il suo interesse principale, perché solo la scrittura gli permette di comunicare il sentire. Ma il discorso è lungo e complesso. Un giorno ci tornerò sopra. Qui stendo solo qualche riflessione. Però insisto sul fatto che la poesia ha vari livelli di lettura, tutti indispensabili, nessuno escluso, per comprenderne appieno il senso.

Il problema della ricezione della poesia è, come ho detto, intricato e complesso. In genere oggi dai più si tende a privilegiare l’emozione personale che si ha leggendola o sentendola leggere. E’ un costume assai diffuso, condiviso, si crede che sia il modo più facile per accostarsi alla poesia e per farvi accostare chi non la conosce ancora. Pochi si fermano a riflettere sulla violenza che invece questo atteggiamento esercita sul poeta. Non parliamo poi se si tratta di poesia difficile: Arnaut Daniel, Dante, Donne, Eliot, Mallarmé, poeti che richiedono un immenso bagaglio culturale per essere non già compresi, ma anche solo decifrati. Ci si giustifica per lo più affermando che per un primo accostamento alla poesia semplificarne il “contenuto”, spesso invece complesso, è il modo migliore per farla apprezzare. Non si riflette, però, che in questo modo se ne può distorcere il senso che il poeta vorrebbe comunicarci. Alla base, al solito, in un’epoca di narcisi come la nostra, c’è la convinzione che l’esigenza dell’io che legge debba essere prevalente, debba anzi vincere su qualsiasi altra considerazione: l’emozione è la chiave interpretativa giusta, la mia emozione coglie sempre ciò che il poeta vuole dirmi e se io non provo emozione allora forse non è poesia. Ma le cose stanno veramente così? Non viene il sospetto che la mia emozione, da sé sola, non sia lo strumento adeguato per giudicare la qualità di una poesia? Chi sono io, quale orgoglio il mio, per sovrappormi alla voce del poeta?

Già la breve osservazione sopra esposta sul senso della rima tra “non varia” e “solitaria” dovrebbe instillare qualche dubbio. Ma si obietta: “Troppo complicato fornire tutte queste analisi, tutte queste spiegazioni! Se il lettore si commuove alla lettura perché cercare altro?” Ma quella commozione, chiedo, corrisponde alla commozione che vuole suscitare il poeta? Non è un atto di violenza sul poeta imporgli questa mia emozione, prima ancora che io mi sia chiarito che cosa il poeta vuole davvero dirmi?

L’immediata emozione suscitata da una poesia, e perfino la sua immediata comprensione possono essere spesso un inganno. Il famosissimo sonetto di Dante “Tanto gentile e tanto onesta pare”, osserva Auerbach, in Mimesis, è scritto in una lingua che non è più l’italiano di oggi, anche se tutte le parole del sonetto si usano ancora oggi. Ma hanno cambiato di significato. Quasi nessuna, infatti, significa per Dante ciò che significa oggi. “Gentile” significa “nobile”, non amabile, cortese (altra parola che allora significava altro). “Pare”, dal verbo parere, non significa sembra, ma appare, viene alla vista. “Salutare” (mi saluta) allude al sostantivo salute, che non signica lo stato fisico del corpo, ma significa per Dante la salvezza dell’anima, e sottintende un dono della Grazia. E così via.

L’analisi lessicografica, metrica, dottrinale di una poesia non è dunque qualcosa di accessorio, come troppi credono, ma lo strumento più pertinente per entrare nel suo mondo. E non raffredda affatto l’emozione, ma anzi se mai l’accresce, perché approfondisce il rapporto del mio io con l’io del poeta che mi parla in quella poesia, non sovrappone la mia prevaricante emozione alla emozione che realmente il poeta vuole comunicarmi con quella poesia. E conoscendo di più io mi commuovo anche di più.

Qui viene fuori un’altra lezione, che si può apprendere proprio affrontando la lettura, la conoscenza, l’approfondimento di una poesia: s’impara ad ascoltare l’altro, si mette da parte il proprio prevaricante io per lasciare posto all’io di chi mi parla. Viviamo in un epoca di parlanti, di blateratori, di perenni sillabanti. Impariamo a diventare ascoltatori, a dare peso alle parole degli altri, a chiederci che cosa ci vogliano dire. Un mondo in cui tutti parlano e nessuno ascolta è un mondo di monadi isolate, che non comunicano tra di loro. La poesia può esserci di grande aiuto, può insegnarci ad ascoltare. Naturalmente ciò richiede da parte di tutti noi una grande umiltà, un metterci da parte, ci dispone a non chiedere niente, a non imporre nostri bisogni, nostre esigenze al messaggio dell’altro, perché questi bisogni, queste esigenze riguardano solo noi, non hanno niente a che vedere con chi ci parla. L’esigenza, il bisogno di dire, sta tutto dalla sua parte, da parte nostra il nostro dovere deve limitarsi ad ascoltare. Solo quando chi ci parla avrà esaurito il suo messaggio, e noi lo avremo compreso, solo allora potremo dire anche noi ciò che pensiamo, ciò che vogliamo. E starà a lui allora di ascoltarci. In questo scambio ciascuno contribuirà ad arricchire l’altro.

Tornando alla poesia, non si dimentichi mai che la voce del poeta è una voce molto particolare, una voce per la quale le parole hanno più importanza delle cose che le parole dicono. Perché quelle cose sono dette come sono dette proprio perché il poeta ha reinventato le parole che usa, le ha, per così dire, pronunciate come se fosse la prima volta che le pronuncia. Il linguaggio della poesia non è la lingua di tutti i giorni. Non lo è nemmeno quando il poeta usa la lingua di tutti i giorni. Perché la lingua del poeta è una lingua che viene rifondata da capo ogni volta che il poeta la pronuncia. Emily Dickinson lo dice in maniera mirabile:

A word is dead, when it is said
Some say -
I say it just begins to live
That day

Una parola è morta, una volta detta
Dicono alcuni -
Io dico che proprio comincia a vivere
Quel giorno

(traduzione di Andrea Sirotti, alla quale mi sono permesso di aggiungere un “proprio” per rendere il “just” del terzo verso e di sostituire “inizia” con “comincia”).

lunedì 27 gennaio 2020

Roma, Teatro dell'Opera: I Capuleti e i Montecchi







I Capuleti e i Montecchi

Musica di Vincenzo Bellini
Tragedia lirica in due atti
libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione assoluta, Teatro La Fenice di Venezia, 11 marzo 1830
Durata: 2h 40' circa - 78' prima parte - 30' intervallo - 52' seconda parte

Direttore

Daniele Gatti

Regia, scene, costumi, luci

Denis Krief



MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani



PRINCIPALI INTERPRETI
ROMEO Vasilisa Berzhanskaya
GIULIETTA Mariangela Sicilia/ Benedetta Torre 1, 6 febbraio
TEBALDO Iván Ayón Rivas / Giulio Pelligra 1, 6 febbraio
LORENZO Nicola Ulivieri
CAPELLIO Alessio Cacciamani



Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma



Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
con sopratitoli in italiano e inglese




I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini sono un’opera che sfida l’attuale concezione che si ha in genere, da parte di molti, del teatro, e in particolare del melodramma. L’azione è, infatti, ridotta all’osso. La musica, da parte sua, conosce pochissimi momenti di vera concitazione e invece si abbandona spesso e indugia su lunghissime arcate melodiche che si succedono le une alle altre e che sembrano non volere mai finire. Chi abbia per modello musicale e teatrale il melodramma verdiano o, anzi, addirittura l’aggiornamento veristico, in ogni caso naturalistico, che oggi il pubblico è abituato a pretendere anche da Verdi, resterà deluso. Non parliamo poi se nientemeno il modello è quello veristico vero e proprio. Di fatti, si è spesso letto e sentito dire che il libretto di Felice Romani è statico e che l’opera manca di azione.



Sono, in parte, gli stessi rimproveri che si muovono a molti drammi di Wagner: cantano cantano e non succede niente. Significativo del resto è che proprio Wagner, invece, nutrisse per Bellini una particolare predilezione. Se cambiamo genere, e parliamo, per esempio, di cinema, Gian Luigi Rondi, quando il film fu presentato alla Biennale di Venezia, stroncò Gertrud di Dreyer perché a suo dire c’è troppo dialogo senza che accada mai niente, e invece il cinema, sempre a suo dire, deve essere un’azione raccontata dalle immagini. Qualcosa di analogo aveva scritto Benedetto Croce del teatro di Pirandello: teatro di sofismi e non di personaggi, di azione drammatica. Tutte queste critiche, tutti questi rimproveri ragionano con un modello di melodramma, di dramma musicale, di cinema e di teatro che precede l’opera presa in esame. E non trovando corrispondenza tra il modello e l’opera, invece d’interrogarsi se magari il modello sia sbagliato, ne concludono che sbagliata è l’opera, perché non si adegua al modello. Aristotele li beccherebbe come cattivi ragionatori che sbagliano il sillogismo perché partono da una premessa sbagliata. Con quale certezza, infatti, costoro possono affermare che il loro modello di teatro, di melodramma, di dramma musicale, di cinema, sia l’unico possibile per tali generi di spettacolo? Se analizzassero con gli stessi criteri capolavori conclamati di teatro come, che so, I Persiani di Eschilo oppure Bérénice di Racine, o Long Day's Journey into Night (viaggio di un lungo giorno verso la notte) di Eugen O’Neill, si vedrebbero costretti ad affermare le stesse critiche, e qualcuno, a dire il vero, lo fa.



Ma – e se invece ciò che s’intende per teatro fosse qualcosa di molto più vario, di assai più complesso e molteplice, che non lo schema di un unico modello? Perché un dialogo (Gertrud) non dovrebbe essere cinema? Perché una lunga scena di due amanti che s’interrogano sul senso della vita, dell’amore, della morte (Tristano), non dovrebbe essere dramma musicale? Perché personaggi che dibattono sulle apparenze dei rapporti umani (Pirandello) non dovrebbero essere teatro? E perché un melodramma che costruisca le sue scene come un’interminata successione di melodie non sarebbe melodramma? Sta invece proprio qui il punto. L’ansia che percorre l’intera azione dei Persiani è l’attesa dell’esito della battaglia di Salamina. Un’attesa non ha azione, è essa stessa l’azione. E così, nella Bérénice i cinque atti preparano la separazione di Tito e Berenice, per quattro atti i due amanti, che presto si divideranno e diventeranno ex-amanti, non s’incontrano, Tito evita con cura un chiarimento, sfugge un a faccia a faccia, con Berenice, e quando l’incontro, l’a faccia a faccia finalmente si realizza, sancisce una definitiva separazione (eh bien, pour jamais!). I due amanti wagneriani verranno a sapere che l’unione anelata è irrealizzabile (Tristan und Isolde), il lungo colloquio notturno è la presa di coscienza di questa impossibilità. Bellini fa esattamente questo, anche lui. Porta sulla scena il canto di un’impossibilità, il graduale prendere atto di un destino di separazione, e quando i due amanti, Romeo e Giulietta, se ne rendono conto, capiscono anche che la condanna non riguarda solo loro due, ma tutta la società in cui vivono, il paese in cui sono nati, l’Italia, un paese di discordie insanabili, perenni. L’infelicità non è il caso singolo di Romeo e Giulietta, ma Romeo e Giulietta sono il caso esemplare che a chi nasce in un paese simile non è data altra condizione che l’infelicità. Il padre di Giulietta, davanti ai cadaveri dei due giovani, chiede: “Uccisi! … da chi?” Tutti gli accorsi, guelfi e ghibellini, rispondono in coro: “Da te, spietato!” E cala il sipario. 



 



Il libretto di Felice Romani non è brutto, né tanto meno poco teatrale. E’ un teatro di sentimenti e di idee, non un teatro di azione. Non è il Romeo e Giulietta di Shakespeare, e non vuole esserlo. E’, appunto, la narrazione di un’infelicità inevitabile, perché la società in cui nascono i due amanti li condanna a questa infelicità. Perfino il gesto precipitoso compiuto da Romeo di avvelenarsi, perché crede morta Giulietta, più che da impulso giovanile è causato dagli ostacoli che hanno impedito a Lorenzo d’informarlo, discordie, sospetti, che tolgono libertà di movimento. Probabile, tuttavia, che non solo le singole situazioni veronesi siano causa d’infelicità, ma che in qualunque angolo del mondo i due giovani sarebbero necessariamente stati infelici, perché questa è la condizione umana, e contrasti, inimicizie, ferocia si trovano dovunque. Quest’ineluttabilità del dolore fa scrivere a Romani versi che sembrano quasi leopardiani e a Bellini fa comporre musica che pare un interminabile lamento sul male di vivere, fa quasi pensare a Schubert, più che a Chopin.



La drammaturgia belliniana è costruita tutta sulla capacità gestuale della melodia, non diversamente da come la melodia schubertiana costruisce da sé, soprattutto nei Lieder, ma anche nella musica strumentale, un’atmosfera, una scena drammatica, una condizione umana. Ma non diversamente, in particolare, da come in Wagner la melodia designa un gesto, un’idea, e anche lì, una condizione. Dal bel canto Bellini sembra voler trarre solo la bellezza dell’onda melodica, ma per piegarla al gesto drammatico, per farle assumere tutte le possibili intenzioni del personaggio, le sue emozioni, e perfino i suoi pensieri. Una stessa melodia, passando da un personaggio all’altro, cambia senso, muta colore, si fa dialogo. E’ quasi una riscoperta o, meglio, una reinvenzione, del recitar cantando o, monteverdianamente, del parlar cantando. La fioritura, l’abbellimento cessa di essere il luogo del virtuosismo vocale per piegarsi a strumento espressivo, a gesto emotivo. Tra recitativo e aria la differenza tende ad attenuarsi, il recitativo si fa melodico, la melodia dell’aria assume toni parlanti, e finiscono quasi per assomigliarsi. Lo stesso avviene in orchestra. Lo strumento solista che se ne distacca – un clarinetto, un violoncello – non lo fa per esibire una melodia, ma per alludere, con la melodia, a un’intenzione emotiva, a un gesto drammatico, preparando la melodia del personaggio.





Riflessioni simili a queste devono avere occupato la mente sia di Daniele Gatti, il direttore e concertatore dell’opera, sia di Denis Krief, il regista che l’ha messa in scena. La scena è uno spazio unico, che si modella, scena per scena, attraverso il calare di un sipario costituito di sbarre di legno, a seconda delle esigenze della vicenda, a galleria di un palazzo, camera di Giulietta, sala di un banchetto, cimitero dove s’alza la tomba di Giulietta. Una fuga di archi che si aprono su pareti parallele e sul fondale fa subito pensare a uno spazio astratto, si direbbe metafisico, come quello di certe piazze di de Chirico. I personaggi indossano abiti odierni, a significare la permanenza di una condizione umana, comunque si evolvano i tempi e dovunque si agitino le passioni. Che un personaggio minacci, invocando un “ferro”, ma impugni di fatto una pistola, non è allora un’incongruenza, ma un segno preciso del valore simbolico del gesto, il “ferro” inteso genericamente come sinonimo di “arma”, e nel linguaggio altamente letterario dei libretti ottocenteschi, questo di fatti ne era il senso. Sobrie, ma teatralmente efficaci, e assai suggestive, le luci. Sobria anche la gestualità dei personaggi. Il poco che serve a fissare un’intenzone, un gesto.



Ma la recitazione sulla scena è solo la visualizzazione di ciò che già la musica racconta, del gesto che la musica suggerisce con il suo ampio arco melodico. Il che non significa, si badi, che la scena, la recitazione, siano un di più, un’aggiunta, di cui la musica possa fare a meno. La visualizzazione scenica del gesto musicale è complementare al gesto stesso, quella musica suscita quella possibile visualizzazione perché solo la visualizzazione rende manifesta la funzione del gesto musicale: introdurre il dramma. Già Rossini aveva precisato che la musica in sé non significa niente, e dunque non esprime niente, e quanto all’imitazione della natura, sono poche le azioni della natura che la musica sia in grado di imitare, il canto degli uccelli, il tuono. Ma la musica è in grado di suscitare impressioni, emozioni, sentimenti, e suscitandoli crea l’atmosfera, il campo, il clima in cui si svolge il dramma. A dimostrazione dell’asemanticità della musica Rossini compone sette arie che con le stesse parole (di Metastasio) possono atteggiarsi a rappresentare sia una situazione comica, sia una condizione tragica, e scrive così un’aria buffa, un’altra lacrimevole, una tragica, e così via, sempre con le stesse parole: Mi lagnerò tacendo.



Bellini va oltre, e caratterizza la melodia in modo da rappresentare musicalmente una situazione drammatica. E’ qui che Daniele Gatti interviene con mirabile intelligenza. La precisione con cui sono modellate le frasi è pari solo alla duttilità con cui ciascuna frase rappresenta le più diverse situazioni. Raramente si è sentita un’orchestra belliniana così pulita, così respirante, così flessibile, tanto nel piegarsi ad accarezzare la tenerezza quanto a suscitare la più indiavolata concitazione. Chi ha detto che l’orchestra di Bellini è fragile, povera d’invenzioni strumentali, convenzionale? Guarda caso, si è scritta la stessa cosa dell’orchestra di Chopin. L’orchestra di Bellini, certo, non è quella di un Berlioz, ma nemmeno quella di un Rossini, per restare in Italia. Non vuole, cioè, sbalordire, né tanto meno commentare con ironia o con distacco una situazione drammatica. Vuole solo suggerire ciò che la voce del personaggio rivelerà esplicitamente. E in questo suggerire, in questo alludere, più che significare, è perfetta. Naturalmente l’interprete, è cioè il direttore, deve mettere in risalto ciò che va messo in risalto, farne uscire ciò che in partitura non è scritto: l’andamento del fraseggio, la dosatura dei timbri, la dosatura e l’equilibrio delle sezioni strumentali, il respiro del fraseggio. Una delle più grandi sciocchezze che si sentono dire da certi interpreti è quando affermano di suonare, di far sentire ciò ch’è scritto in partitura. Ma ciò ch’è scritto è solo l’’appunto per l’esecuzione, il canovaccio per l’interpretazione. L’interpretazione poi nasce proprio da tutto ciò che non è scritto, ma che tuttavia è insito in ciò ch’è scritto. E Gatti è un maestro nel tirare fuori appunto tutto ciò che non è scritto, le intenzioni che sono implicite, ma non espresse graficamente, in ciò ch’è scritto. Di momento in momento, a mano a mano che procedeva l’opera si restava conquistati dalla libertà dei respiri melodici, dalla dolcezza di certi timbri, dalla leggerezza e dalla trasparenza dell’orchestra, come se il bel canto che si udiva dalle voci dei personaggi germinasse dal suono stesso degli strumenti dell’orchestra. Altro che edonismo belcantistico! Piacere epidermico della bella meldoia dolcemente intonata! Qui la melodia, il canto – e sia! il bel canto - si fanno spazio di un mondo interiore vibratile, respirano un’intensità emotiva inaudita. Che sulla scena prendono corpo in figure umane di una dolente verità. 

 



Compagnia di canto eccellente: a cominciare dall’intensissimo Romeo del mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya, capace di comunicare allo spettatore stati d’animo diversi, dalla tenerezza all’ira, dalla gioia d’amore alla disperazione della morte. Le si confronta con pari duttilità la Giulietta di Mariangela Sicilia. I loro duetti si godono da capo a fondo per la continua sorpresa della varietà di atteggiamenti emotivi, musica e canto che si fanno teatro puro. Il peruviano Iván Ayón Rivas incarna perfettamente il ruolo del tenore eroico che Bellini pretende da lui (ma mi raccomando, niente a che vedere con quello che poi, nel secondo ottocento, sarà il tenore eroico, soprattutto in Wagner), un’anima generosa che risolve in vocalità generosa il suo slancio sentimentale. Il Loenzo du Nicola Ulivieri e il Capellio di Alessio Cacciamani completano con sintonia musicale e teatrale la tenuta interpretativa di questo mirabile cast. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera in serata di grazia. E giustamente il pubblico decreta un generale trionfo (ho assistito alla replica del 26 gennaio).



Penso che questa rappresentazione de I Capuleti e i Montecchi costituiscano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque vorrà in seguito affrontare l’interpretazione non solo di questa partitura, ma di tutto il teatro belliniano. Un modello di lettura critica e d’interpretazione viva, complessa, incredibilmente moderna. Ascoltare, e vedere, un Bellini così profondamente capito e rappresentato, fa cadere tanti luoghi comuni sulla scrittura belliniana che per pigrizia o per abitudine si continuano a condurre avanti. Da non perdere. E, magari, da registrare, per andare incontro a chi non possa venire a vederlo e ascoltarlo qui a Roma, al Teatro dell’Opera. Una festa, immagino, anche nella riproduzione di un video, per la mente e per gli occhi, per la sensibilità di ciascuno a godere di quella irripetibile felicità che è la perfetta fusione di poesia, musica e teatro.

sabato 25 gennaio 2020

Giulio Cesare, un eroe barocco







GIULIO CESARE
UN EROE BAROCCO
Raffaele Pe, controtenore
Raffaella Lupinacci, mezzosoprano (nel duetto handeliano da Giulio Cesare)
La lira di Orfeo

il cd
Glossa Music
GCD923516

Il concerto dell’altra sera al Teatro Argentina di Roma, per l'Accademia Filarmonica Romana: Giulio Cesare, un eroe barocco, che però Raffaele Pe conduce in tournée per l’Italia, è un esempio istruttivo di come spesso si abbiano idee ristrette su che cosa sia il teatro. Non esiste, infatti, un solo modello di teatro – quello in base al quale molti affermano che ciò che non vi si adegua non è teatro – ma ne esistono molti, e cambiano di paese in paese, di epoca in epoca, e convivono, anche se diversi, nella stessa epoca. Brecht, Pirandello, Hofmansthal, O’ Neill, Pinter, Beckett, Puccini, Britten, Janáček, Berg, Poulenc, Bernstein, Barber, non scrivono lo stesso tipo di teatro, eppure ogni loro opera è a pieno titolo teatro. Il punto sta nel non porsi idee pre-concette quando si entra in un teatro, per assistere a uno spettacolo. Perfino lo stesso modello di teatro può conoscere declinazioni diverse e addirittura inconfrontabili. Nel barocco, dal seicento a tutto il settecento, convivono forme diversissime di teatro. Si pensi solo a quanto sono diversi Shakespeare, Racine e Lope de Vega. O nella stessa Francia, Corneille, Racine, Crébillon. Raffaele Pe ci conduce, pentagramma per pentagramma, nell’evoluzione del melodramma serio settecentesco, disegnando la figura emblematica di un solo eroe: Giulio Cesare. Da George Frideric Handel (1685-1759) a Francesco Bianchi (1752-1810) passano meno di 70 anni, ma il panorama teatrale, il gusto del pubblico, cambiano radicalmente. Vivo Handel nessun drammaturgo avrebbe osato ciò che un secolo prima aveva osato Shakespeare: fare vedere sulla scena l’assassinio di Cesare. L’assassinio doveva avvenire fuori scena, e c’era poi sempre qualcuno a raccontarlo. Nella ripresa successiva alla creazione veneziana del melodramma La morte di Giulio Cesare, che Bianchi aveva portato sulle scene nel 1788, e dunque un anno prima della presa della Bastiglia, il pubblico vide assassinare Cesare sulla scena. Ma perché a Parigi si erano visti decapitare un re e una regina, dal vero, non sulla scena.

Ora, il melodramma barocco è un teatro di passioni, non di azioni. Si chiamavano affetti. L’ultimo Bianchi assiste alla trasformazione di un teatro di affetti in teatro d’azione (a dire il vero c’era stato anche Gluck! ma in Italia non aveva avuto grande esito). Nel teatro barocco tutto è simbolico, anche la voce. E un eroe, figura fuori dell’ordinario, non può cantare con voce ordinaria. Così vediamo e ascoltiamo una figura virile che canta con voce acuta di soprano o di contralto. La stessa straordinarietà della visione e dell’ascolto si fa simbolo della straordinarietà della figura. Il sistema che permetteva la realizzazione di questa figura era crudele, anzi feroce, addirittura, per qualche singolo che diventava famoso e acquistava ricchezze, si rovinava la vita di moltissime persone. I castrati che raggiungevano il successo erano pochissimi, agli altri toccava una vita di solitudine, di stenti e d’infelicità. E’ stato giusto dunque proibirne la pratica. Già Parini scriveva parole dure contro l’evirazione. Per ricuperare dunque l’esecuzione del melodramma barocco negli stessi registri vocali, si sono a lungo usate le voci femminili.

Donne, del resto, che interpretano nel melodramma ruoli maschili non mancano fino ai giorni nostri, o quasi. In genere si affidano loro figure di adolescenti o di giovani: Cherubino, nelle Nozze di Figaro di Mozart, il figlio di Guglielmo Tell nell’opera omonima di Rossini, Tancredi nell’altra opera omonima di Rossini (ma anche altre opere rossiniane prevedono donne che vestono ruoli maschili), Oscar nel Ballo in maschera di Verdi, Octavian nel Rosenkavalier di Richard Strauss. Da qualche decennio, però, si ricorre alla figura del controtenore, una voce maschile che canta in un registro acuto, ricorrendo al falsetto. In genere la voce più adatta è quella baritonale, perché più ricca di armonici. La caratteristica dei castrati era di cantare in un registro acuto con la forza e il fiato pieni di un uomo. Il controtenore non può in genere sfoggiare un volume così pieno, un fiato così forte. E questo ha fatto a lungo mettere in evidenza una certa difformità dalla voce del castrato. Ma Raffaele Pe sembra smentire queste impressioni, perché la sua voce s’impone con forza e volumi potenti. Bisognerà chiedere a lui il segreto. Soprattutto, e qui allora entriamo nella padronanza di una tecnica, sorprende e colpisce con meraviglia la fluidità, la scorrevolezza del canto. Come se non gli costasse fatica. Capiamo allora l’entusiasmo che tali voci suscitavano nel passato. Perché veramente l’atto simbolico del canto teatrale qui si fa sostanza stessa del gesto teatrale, della rappresentazione. Quasi un miracolo. Come la musica di un verso raciniano – que le jour recommence et que le jour finisse / sans que jamais Titus puisse voir Bérénice – che qui si fa totalmente, esclusivamente musica, per sortilegio dello stesso registro vocale, un canto d’angelo si direbbe che però ci raffigura il dolore dell’uomo, la sua gioia, il suo entusiasmo. 

 

Sta in questo corto circuito tra la voce irreale e la concretezza umana della sofferenza o della felicità il contatto con un impossibile che si fa possibile, vale a dire che a raccontarci il nostro stesso dolore o la nostra gioia sia una voce che non è nostra, ma è sovra-umana, irreale. Ma proprio in ciò sta la sua immensa forza teatrale: perché il dolore, la gioia, non sono espressi, come pretenderà dopo la musica romantica, non sono realisticamente impersonati da chi canta, non sono cioè la traduzione musicale del dolore o della gioia – illusione in cui cade il romanticismo, che vorrebbe far coincidere rappresentazione e realtà – ma sono la rappresentazione simbolica del dolore o della gioia, sono – soprattutto – rappresentazione, non immedesimazione, di qualcosa che non c’è, ma cui si allude simbolicamente. Il cantante, insomma, rappresenta il personaggio, non è il personaggio. In questo, il teatro barocco ha molti punti di contatto con il teatro moderno, con Pirandello, con Brecht. Non a caso, del resto, i musicisti che interpretano musica e teatro barocchi si trovano a proprio agio anche nella musica e nel teatro di oggi.

Il programma della serata, e del cd (Giulio Cesare a baroque hero, Glossa Music GCD923516) di cui la serata ripropone gli stessi brani, ci conduce da pagine sublimi di Handel a quelle di Geminiano Giacomelli (1692-17409, di Carlo Francesco Pollarolo (1653-1723), di Niccolò Piccinni (1728-1800) e di Francesco Bianchi (1752-1810). Raffaele Pe ci regala anche due splendidi bis, entrambi handeliani: ripropone il duetto “Son nato a lagrimar” dal Giulio Cesare, insieme al mezzosoprano Raffaella Lupinacci, e il sublime (se fosse possibile si dovrebbe dire sublimillimo) Largo, che è l’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo (la melodia viene in realtà dall’aria del Piacere nell’oratorio Il Trionfo del Tempo e del Disinganno). Strumentalmente sostiene tutto il concerto La Lira di Orfeo, gruppo strumentale fondato dallo stesso Pe, violino concertatore Luca Giardini, al clavicembalo Davide Pozzi, arpa Chiara Granata. Il teatro Argentina di Roma, pieno, ha decretato per tutti un vero e proprio trionfo. Ma chi sa quanti si saranno accorti, applaudendo, che applaudivano una musica che già da sé stessa è rappresentazione, teatro. Soprattutto quando la sua forza simbolica è realizzata con l’intelligenza, la sensibilità, e soprattutto con la pertinenza di un interprete che tocca così spesso quel sublime che questa musica pretende di rappresentare.


martedì 14 gennaio 2020

Ripeness is all







Al Teatro Eduardo dell’Officina Pasolini di Roma, Andrea Bosca. diretto da Paolo Briguglia (ma era una prova, la regia si potrà meglio considerare quando lo spettacolo andrà in scena ad Asti) ha tenuto una prova aperta del suo monologo tratto dalla Luna e i falò di Cesare Pavese. Una bella sfida. E per me una grande emozione: ho letto il bellissimo romanzo di Pavese, il suo ultimo, che avevo 18 anni, comprato di notte alla stazione di Padova (eh sì, allora giornalai e librerie delle stazioni erano aperti anche di notte) nel viaggio di ritorno a Roma da Cortina D’Ampezzo: non riuscivo a dormire, stipato nello scompartimento di prima classe, invece che su una cuccetta, e il treno rimase fermo per un po’ nella stazione di Padova. Lo cominciai subito a leggere e lo lessi quasi d’un fiato, perché due giorni dopo, tornato a casa, l’avevo già finito e cominciai a leggere tutti gli altri, e i racconti, dei quali mi colpì, mi confuse, prima di intenderne il senso, Nudismo. Era, invece, come poi capii, una chiara confessione di complicato panteismo.

Bravissimo Bosca a sintetizzare il romanzo in un’ora e mezzo. Che libro disperato, La luna e i falò! Una bella sfida, dunque, questa di Andrea Bosca. Vinta. Pavese è il solo scrittore italiano, insieme a Calvino, che abbia visto, al di là delle proprie convinzioni ideologiche, e capito, senza scappatoie, la spaccatura, non solo politica, ma culturale, che divide gli italiani e la sua insanabilità. A raccontarla, questa spaccatura, Pavese adotta una lingua apparentemente fredda, obbiettiva, distaccata, sembrerebbe un’applicazione della ricetta neorealistica, in realtà è una prosa lacerata da interne crepe musicali, da pensieri spiazzanti, da immagini improvvise di un’evidenza feroce, proprio quando si tratta di raccontare una lacerazione. La sua poesia - pochi romanzieri sono come lui poeti - è di un'attualità che ancora oggi fa male. E se si pensa a quanto dolore, fin dalle origini, abbiano suscitato negli scrittori italiani le divisioni degli italiani, da Dante a Petrarca, da Machiavelli a Leopardi, temo che anche questo dolore di Pavese accompagnerà la coscienza di molti italiani per molto tempo ancora, forse per secoli, almeno fino a quando una fantasmagorica comunità che si autoproclama Italia esisterà ancora.

"Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero". Così si chiude La casa in collina, del 1948. E nel 1949 La luna e i falò si apre con una confessione disarmante: "Qui non ci sono nato ...non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire: 'Ecco cos'ero prima di nascere' ". Nostalgia del borgo natio e insieme estraneità a qualunque angolo della terra coincidono in un unico sentimento di estraneità dal mondo. Unico legame, unica uguaglianza, tra gli uomini, il dolore. E viene da pensare al primo coro dell’Agamennone di Eschilo, sul quale certamente Pavese, che amava così profondamente la poesia greca, avrà più volte riflettuto (guarda caso, lo stesso testo sul quale dolorosamente riflette Pasolini, e lo traduce). Veramente non solo il mare tra Cipro e la Grecia, come è scritto nei Dialoghi con Leucò, è tutto "intriso di lacrime e di sperma", ma anche la terra, qualunque terra è solo il sostegno di una disperazione senza uscita, una lacerazione individuale, culturale, sociale e politica. Il contrasto tra l’oppressione fascista e l’ansia di libertà degli antifascisti appare inconciliabile, perché al di sotto del contrasto politico, c’è un’incompatibilità umana tra l’io che s’impone, senza nessuna consapevolezza del male di esistere, e che anzi crede di vincerlo, soffocarlo, con il sopruso sugli altri, con l’affliggerlo agli altri quel male che o non vede o vuole evitare, e l’io che, consapevole invece del dolore dell’essere (di questo si tratta: Pavese è molto più metafisico di quanto appare), non ha armi per opporsi alla prevaricazione di quell’io violento che lo schiaccia.

Questo groviglio, questo groppo è la materia della narrazione di Pavese. Nelle novelle, nei romanzi, nelle poesie, nel diario. Bosca ce lo restituisce, ce lo fa sentire con commosso distacco, come un dolore sordo che sta là sotto, come una malattia, da cui non si guarisce. La sua voce è un sussurro più che una voglia di conversazione, una confessione davanti allo specchio di sé stesso. L’ascoltatore immaginario – il pubblico – sta là forse, da parte dell’attore, più come voglia di una somiglianza che come ricerca di una mente che capisca, più come un altro sé stesso a cui confessare la propria sofferenza di esistente che non esiste che come pubblico al quale mostrare la propria bravura. 

 

Finalmente, mi dico, trovo un attore che non recita, ma che parla, che dice, senza enfasi, senza urlarlo, il dolore immedicabile di vivere. Ma, naturalmente, è invece la forma più alta possibile di recitazione: quella che imita la vita, ma non riproducendola realisticamente, questo lo sanno fare in molti, e appaiono tutti uguali, bensì con la grazia di un ritmo musicale interiore, per la quale il linguaggio si fa musica, e la musica ti penetra nel cervello, lo occupa, e raccontandoti il proprio disagio ti fa conoscere il tuo. Probabile che Pavese parlasse così. Perfino con la stessa cadenza, e non perché Bosca sia nato nella sua stessa valle del Belbo in cui è nato Pavese. Ma, chi sa, forse anche per questo.

Grazie, Andrea! Indimenticabile la tua voce che si sostituisce a quella di Pavese. Diventa la voce di un Andrea/Cesare che, credimi, mi sta ancora dentro. Mi starà, credo, per molto. Forse solo perché Pavese è una voce di me che mi porto dentro da quando avevo 18 anni. Lo hanno spesso, proprio per questo tono adolescenziale, accusato di essere solo la voce di un adolescente. Ma quanti hanno detto lo stesso di Tasso, di Leopardi! Benedetto Croce pensava anzi, con quest’accusa, di svuotarlo, demolirlo, il pensiero leopardiano. Era tuttavia adolescente anche Rimbaud. Ma ha visto più lontano di tanti adulti. E qui, scrivendo queste parole, lo riconosce uno che da quei 18 anni in cui ha letto per la prima volta Pavese, ne ha vissuti altri 60. Ma quella voce, e quello sguardo, non li ha più dimenticati.

Di nuovo: grazie Andrea! Mi hai fatto scavalcare più di mezzo secolo: e non so se quest’oggi è peggiore di quell’ieri o migliore. Ma ritornando a quella notte, capisco che già allora sentivo ciò che sento adesso e che Pavese sa raccontare con una voce inconfondibile. E questa voce inconfondibile, tu, Andrea, hai saputo indossarla come fosse la tua. Davvero “ripeness is all”. Non perché si diventa adulti. Ma perché adulta diventa la sofferenza, non più soltanto sofferta, vissuta, ma pensata, consapevole, e dunque ormai insopprimibile.

OFFICINA DELLE ARTI
Pier Paolo Pasolini
Teatro Eduardo De Filippo
Ripeness is all, appunti per una Luna e i falò
Prova aperta con Andrea Bosca
Regia di Paolo Briguglia

Roma, 13 gennaio 2020

venerdì 10 gennaio 2020

Beethoven, Leonore: un'interpretazione intimistica







Beethoven, Leonore
René Jacobs
Petersen. Schmitt. Ivanshchenko. Johannsen. Weisser. Naymi. Chum
Freiburger Barockorchester
rcher Sing-Akademie

harmonia mundi HMM 902414 15 (2019)
Limited Edition
Registrata dal vivo alla Philarmonie di Parigi il 7 novembre 2017

2 cd

Ein Stoß – und er verstummt! Un colpo – e lui ammutolisce. Sta qui il centro di tutta l’opera. Rocco inorridisce. Ma china il capo, e si arrende agli ordini del potente. C’è chi ha perfino scritto che il libretto del Fidelio di Beethoven, scritto da Joseph Sonnleithner, è fiacco, irrilevante, in una parola: mediocre. Che la musica va per conto suo. Una moglie, Leonore, si traveste da uomo e si fa arruolare come guardia carceraria nella prigione dov’è rinchiuso suo marito, Florestano, per tentare di liberarlo. Pizarro, il governatore della regione, ha imprigionato Florestano, per impedirgli di denunciare il suo coinvolgimento in un brutto affare di concussione. Deve perciò eliminare l’unico testimone che lo accusa. Sembra una storia di oggi. Si è scritto molto sull’anelito di libertà che ispirerebbe tutto il Fidelio, già dalla sua prima versione, Leonore, nel 1805, quella qui registrata da René Jacobs. Ed indubbiamente tutta la vicenda e tutta la musica che la rappresenta sulla scena sono un appassionato inno alla libertà. Ma c’è di più. Beethoven è inorridito, più che sdegnato, da quanto nella società umana prevalga l’ingiustizia, e quanto essa riesca con la corruzione o con il terrore a legare le mani di chi potrebbe opporsi o contrastarla. Rocco è un bravo uomo, che ama la famiglia, la patria, Dio. Ma ubbidisce al governatore, ne esegue gli ordini, che sa ingiusti. In realtà lo capiamo subito, quanto egli sia in fondo succube dei potenti, incapace di opporsi alla loro prevaricazione, tutto sommato Rocco è un mediocre senza ideali, e lo capiamo prima che l’azione precipiti. Ubbidisce al potere perché il suo vero valore di riferimento non sono la giustizia, Dio, la patria, la famiglia: ma il denaro. Senza denaro non è possibile salvarsi nella macchina sociale che stritola i deboli. Beethoven gli dedica una mirabile aria, per esprimere questi concetti. E da vero drammaturgo non dà giudizi morali sul personaggio: lo rappresenta in tutto il suo egoismo terra terra di piccolo borghese.

Strumento dell’ingiustizia umana è il carcere, dove, più che i criminali, sono incatenati gli sgraditi all’ordine sociale dominante. E Beethoven rappresenta con un’efficacia insuperata l’orrore dell’idea stessa di carcere, d’imprigionamento, di soppressione della libertà. E’ contro tutto questo che lotta Leonore, la moglie di Florestano, per amore del marito, certo, ma anche per un’intima convinzione dell’inaccettabilità della condizione di prigioniero. Non ha ancora riconosciuto nel prigioniero il marito, ma è inorridita e profondamente indignata dalle condizioni nelle quali è costretto. Wer du auch seist, ich will dich retten, / Bei Gott, du sollst kein Opfer sein!” Chiunque tu sia, voglio salvarti, / per Dio, tu non dovrai essere una vittima! Si è detto, e si è scritto, che Leonore non commuove, che l’amore coniugale non è un argomento efficacemente drammaturgico. E perché? Fosse un’amante, un’adultera, sarebbe più commovente? 

Wilhelmine Schröder-Devrient nella parte di Fidelio, quando punta la pistola al petto di Pizzarro

Pannain scrive che nel Fidelio non ci sono personaggi, ma ideali, figure simboliche. Non è vero: e ho cercato di dimostrarlo. Un Rocco lo troviamo in ogni società, è anzi il tipo umano più comune, quello che crede di non farsi complice del potente, solo perché sta zitto, non compie lui stesso il delitto. Pizarro è il potente che abusa del suo potere, che ne è avido, ne fa il principio fondante della propria esistenza. Mancano esempi nel mondo di oggi?

Ci si sofferma, infatti, assai poco sull’intreccio assai complesso di idee, sentimenti, emozioni che Beethoven mette in scena nella sua opera. Ansia di libertà, amore coniugale, pietà umana per le sofferenze (Leonore e Florestano), smania di potere, cinismo, mancanza di principi morali saldi, complicità con le abiezioni dei potenti, per pavidità, per proprio tornaconto (Pizzarro e Rocco), visione ristretta della vita, piccole ambizioni, mediocrità di sentimenti (Jachino, Marzelline). Impressionante non è solo la cattiveria dei potenti, sembra dirci Beethoven, ma anche il silenzio, l’accondiscendenza, la cecità degli umili. Rocco, Jachino, Marzelline vivono in un carcere dove accadono fatti orribili, e non se ne scandalizzano, lo assumono come quotidianità inevitabile, come normale situazione di convivenza sociale. Gli unici a comprendere la realtà della situazione sono non a caso i prigionieri. Il coro dei prigionieri che anelano a respirare l’aria della libertà è un momento teatrale d’intensità quasi insopportabile, perché vi sembra rappresentata in una sola scena, di una meravigliosa individuazione musicale, la condizione perenne d’ingiustizia che regola da sempre la storia umana. Lo squillo di trombe che scioglie l’azione e libera Florestano è un gesto teatrale, è anzi l’utopia teatrale di come dovrebbero accadere gli avvenimenti nella storia e come invece non accadono. Il coro finale, nel momento in cui Leonore scioglie le catene del marito non a caso evoca la Marsigliese. Beethoven ci aveva sperato, si era illuso. Il Fidelio è l’opera di questa speranza, di questa illusione. La libertà di ciascuno non può essere vera libertà se non è la libertà di tutti. L’inno della Nona suggellerà con un immenso abbraccio questa utopia.

Ma René Jacobs non ha inciso il Fidelio del 1814, bensì la Leonore di nove anni prima. Perché, sostiene, è la versione più riuscita dell’opera. Non sono d’accordo. Il Fidelio delle versioni successive, e soprattutto l’ultima, del 1814, ci guadagna in concisione e drammaticità. Ma la scelta di Jacobs ha un senso, vuole evitare proprio l’estrema concisione della versione definitiva. Questa incisione dell’Harmonia Mundi è stata registrata alla Philarmonie di Parigi. La registrazione non è impeccabile. Il suono appare un po’ schiacciato. E si avverta talora un certo squilibrio tra i timbri strumentali dell’orchestra. Ma l’interpretazione è intensa. Alcune scelte sono indicative dell’idea insieme intima e piena di sfumature con cui è letta la partitura. Per esempio, il terzo atto della Leonore si apre con la scena della cisterna in cui è tenuto prigioniero Florestano. Nel Fidelio, che è in due atti invece che in tre, la stessa scena apre il secondo atto. Siamo abituati a sentire Fliorestano che all’inizio grida “Gott!”, Dio, come un urlo violento di ribellione. E poi, piano, commenta: “Welch Dunkel hier!” Che buio qui. Maximilian Schmitt, il Florestano di questa incisione attacca invece subito piano. Abituato al grido della tradizione, che assimila il ruolo di Florestano a quello di un Heldentenor, si potrebbe pensare a una scelta interpretativa controcorrente, e forse arbitraria. Ma si controlli che cosa scrive Beethoven nella partitura. La tradizione può averci convinto che il grido sia la scelta giusta. Jon Vickers, diretto da Klemperer, grida. René Kollo, da Solti, grida. Peter Hofmann, diretto da Bernstein, attacca prima piano e poi gradualmente alza la voce fino al grido. Ma Beethoven, in partitura, segna: p.  

Tutta l’interpretazione di Jacobs è giocata su questo piano d’intimità e di discrezione. Anche la Leonore di Marlis Petersen sembra rifuggire da accenti eroici per ripiegarsi in una dolente consapevolezza della propria fragilità. Tanto più eroica allora ci appare la sua dedizione non solo all’amore del marito, ma all’amore dell’umanità, in nome della quale ella è disposta a rischiare la propria vita. Così, la malvagità di Pizzarro, Johannes Weisser, non è solo la manifestazione truce di un “vilain”, figura quasi archetipica nel teatro, ma ci mostra la terribile quotidianità del sopruso da parte di chi può esercitarlo sugli altri. L’ambiguità, la mediocrità di un Rocco, Dimitry Ivashchenko, semopre sotto le righe, sono l’ambiguità e la mediocrità dell’uomo comune che non vuole fastidi, che pensa solo a sé stesso. Affettuoso, e perfino volitivo, con chi non può contrastarlo o ferirlo, ma servile con il potente. Si perde qualcosa del senso eroico dell’opera con questo tono quasi sempre sotto le righe? Forse. Ma si guadagna in umanità dei personaggi. E, soprattutto, ne risulta smentita la supposta poca teatralità dell’opera, l’estraneità di Beethoven ai meccanismi della drammaturgia. E’ invece un’opera teatralissima, avvincente, multiforme, ricca di contrasti e di sfumature, anche psicologiche. E non è vero che Beethoven insegua un suo disegno musicale indifferente alle esigenze della scena. E’ vero tutto il contrario, che Beethoven inventa via via le forme musicali che si adeguino alla situazione drammatica. Ma non nel senso di un continuo drammaturgico – allora avremmo Wagner - , bensì nel fissare di volta in volta, con un’aria, un terzetto, un quartetto, il nodo drammatico della situazione teatrale. Tant’è vero che sarà proprio questa invenzione di una musica che piega le forme strumentali a farsi carico dell’azione drammatica che fornirà il modello del sistema musicale con cui è strutturato il Wozzeck di Berg. La forma musicale non è uno schema imposto alla scena, ma è la sintesi di musica e dramma, della forma musicale che si fa dramma, nel senso che il dramma è raccontato per intero dalla musica, e non è quindi possibile distinguere il valore musicale dal valore drammatico, perché sono la stessa cosa.