lunedì 27 gennaio 2020

Roma, Teatro dell'Opera: I Capuleti e i Montecchi







I Capuleti e i Montecchi

Musica di Vincenzo Bellini
Tragedia lirica in due atti
libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione assoluta, Teatro La Fenice di Venezia, 11 marzo 1830
Durata: 2h 40' circa - 78' prima parte - 30' intervallo - 52' seconda parte

Direttore

Daniele Gatti

Regia, scene, costumi, luci

Denis Krief



MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani



PRINCIPALI INTERPRETI
ROMEO Vasilisa Berzhanskaya
GIULIETTA Mariangela Sicilia/ Benedetta Torre 1, 6 febbraio
TEBALDO Iván Ayón Rivas / Giulio Pelligra 1, 6 febbraio
LORENZO Nicola Ulivieri
CAPELLIO Alessio Cacciamani



Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma



Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
con sopratitoli in italiano e inglese




I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini sono un’opera che sfida l’attuale concezione che si ha in genere, da parte di molti, del teatro, e in particolare del melodramma. L’azione è, infatti, ridotta all’osso. La musica, da parte sua, conosce pochissimi momenti di vera concitazione e invece si abbandona spesso e indugia su lunghissime arcate melodiche che si succedono le une alle altre e che sembrano non volere mai finire. Chi abbia per modello musicale e teatrale il melodramma verdiano o, anzi, addirittura l’aggiornamento veristico, in ogni caso naturalistico, che oggi il pubblico è abituato a pretendere anche da Verdi, resterà deluso. Non parliamo poi se nientemeno il modello è quello veristico vero e proprio. Di fatti, si è spesso letto e sentito dire che il libretto di Felice Romani è statico e che l’opera manca di azione.



Sono, in parte, gli stessi rimproveri che si muovono a molti drammi di Wagner: cantano cantano e non succede niente. Significativo del resto è che proprio Wagner, invece, nutrisse per Bellini una particolare predilezione. Se cambiamo genere, e parliamo, per esempio, di cinema, Gian Luigi Rondi, quando il film fu presentato alla Biennale di Venezia, stroncò Gertrud di Dreyer perché a suo dire c’è troppo dialogo senza che accada mai niente, e invece il cinema, sempre a suo dire, deve essere un’azione raccontata dalle immagini. Qualcosa di analogo aveva scritto Benedetto Croce del teatro di Pirandello: teatro di sofismi e non di personaggi, di azione drammatica. Tutte queste critiche, tutti questi rimproveri ragionano con un modello di melodramma, di dramma musicale, di cinema e di teatro che precede l’opera presa in esame. E non trovando corrispondenza tra il modello e l’opera, invece d’interrogarsi se magari il modello sia sbagliato, ne concludono che sbagliata è l’opera, perché non si adegua al modello. Aristotele li beccherebbe come cattivi ragionatori che sbagliano il sillogismo perché partono da una premessa sbagliata. Con quale certezza, infatti, costoro possono affermare che il loro modello di teatro, di melodramma, di dramma musicale, di cinema, sia l’unico possibile per tali generi di spettacolo? Se analizzassero con gli stessi criteri capolavori conclamati di teatro come, che so, I Persiani di Eschilo oppure Bérénice di Racine, o Long Day's Journey into Night (viaggio di un lungo giorno verso la notte) di Eugen O’Neill, si vedrebbero costretti ad affermare le stesse critiche, e qualcuno, a dire il vero, lo fa.



Ma – e se invece ciò che s’intende per teatro fosse qualcosa di molto più vario, di assai più complesso e molteplice, che non lo schema di un unico modello? Perché un dialogo (Gertrud) non dovrebbe essere cinema? Perché una lunga scena di due amanti che s’interrogano sul senso della vita, dell’amore, della morte (Tristano), non dovrebbe essere dramma musicale? Perché personaggi che dibattono sulle apparenze dei rapporti umani (Pirandello) non dovrebbero essere teatro? E perché un melodramma che costruisca le sue scene come un’interminata successione di melodie non sarebbe melodramma? Sta invece proprio qui il punto. L’ansia che percorre l’intera azione dei Persiani è l’attesa dell’esito della battaglia di Salamina. Un’attesa non ha azione, è essa stessa l’azione. E così, nella Bérénice i cinque atti preparano la separazione di Tito e Berenice, per quattro atti i due amanti, che presto si divideranno e diventeranno ex-amanti, non s’incontrano, Tito evita con cura un chiarimento, sfugge un a faccia a faccia, con Berenice, e quando l’incontro, l’a faccia a faccia finalmente si realizza, sancisce una definitiva separazione (eh bien, pour jamais!). I due amanti wagneriani verranno a sapere che l’unione anelata è irrealizzabile (Tristan und Isolde), il lungo colloquio notturno è la presa di coscienza di questa impossibilità. Bellini fa esattamente questo, anche lui. Porta sulla scena il canto di un’impossibilità, il graduale prendere atto di un destino di separazione, e quando i due amanti, Romeo e Giulietta, se ne rendono conto, capiscono anche che la condanna non riguarda solo loro due, ma tutta la società in cui vivono, il paese in cui sono nati, l’Italia, un paese di discordie insanabili, perenni. L’infelicità non è il caso singolo di Romeo e Giulietta, ma Romeo e Giulietta sono il caso esemplare che a chi nasce in un paese simile non è data altra condizione che l’infelicità. Il padre di Giulietta, davanti ai cadaveri dei due giovani, chiede: “Uccisi! … da chi?” Tutti gli accorsi, guelfi e ghibellini, rispondono in coro: “Da te, spietato!” E cala il sipario. 



 



Il libretto di Felice Romani non è brutto, né tanto meno poco teatrale. E’ un teatro di sentimenti e di idee, non un teatro di azione. Non è il Romeo e Giulietta di Shakespeare, e non vuole esserlo. E’, appunto, la narrazione di un’infelicità inevitabile, perché la società in cui nascono i due amanti li condanna a questa infelicità. Perfino il gesto precipitoso compiuto da Romeo di avvelenarsi, perché crede morta Giulietta, più che da impulso giovanile è causato dagli ostacoli che hanno impedito a Lorenzo d’informarlo, discordie, sospetti, che tolgono libertà di movimento. Probabile, tuttavia, che non solo le singole situazioni veronesi siano causa d’infelicità, ma che in qualunque angolo del mondo i due giovani sarebbero necessariamente stati infelici, perché questa è la condizione umana, e contrasti, inimicizie, ferocia si trovano dovunque. Quest’ineluttabilità del dolore fa scrivere a Romani versi che sembrano quasi leopardiani e a Bellini fa comporre musica che pare un interminabile lamento sul male di vivere, fa quasi pensare a Schubert, più che a Chopin.



La drammaturgia belliniana è costruita tutta sulla capacità gestuale della melodia, non diversamente da come la melodia schubertiana costruisce da sé, soprattutto nei Lieder, ma anche nella musica strumentale, un’atmosfera, una scena drammatica, una condizione umana. Ma non diversamente, in particolare, da come in Wagner la melodia designa un gesto, un’idea, e anche lì, una condizione. Dal bel canto Bellini sembra voler trarre solo la bellezza dell’onda melodica, ma per piegarla al gesto drammatico, per farle assumere tutte le possibili intenzioni del personaggio, le sue emozioni, e perfino i suoi pensieri. Una stessa melodia, passando da un personaggio all’altro, cambia senso, muta colore, si fa dialogo. E’ quasi una riscoperta o, meglio, una reinvenzione, del recitar cantando o, monteverdianamente, del parlar cantando. La fioritura, l’abbellimento cessa di essere il luogo del virtuosismo vocale per piegarsi a strumento espressivo, a gesto emotivo. Tra recitativo e aria la differenza tende ad attenuarsi, il recitativo si fa melodico, la melodia dell’aria assume toni parlanti, e finiscono quasi per assomigliarsi. Lo stesso avviene in orchestra. Lo strumento solista che se ne distacca – un clarinetto, un violoncello – non lo fa per esibire una melodia, ma per alludere, con la melodia, a un’intenzione emotiva, a un gesto drammatico, preparando la melodia del personaggio.





Riflessioni simili a queste devono avere occupato la mente sia di Daniele Gatti, il direttore e concertatore dell’opera, sia di Denis Krief, il regista che l’ha messa in scena. La scena è uno spazio unico, che si modella, scena per scena, attraverso il calare di un sipario costituito di sbarre di legno, a seconda delle esigenze della vicenda, a galleria di un palazzo, camera di Giulietta, sala di un banchetto, cimitero dove s’alza la tomba di Giulietta. Una fuga di archi che si aprono su pareti parallele e sul fondale fa subito pensare a uno spazio astratto, si direbbe metafisico, come quello di certe piazze di de Chirico. I personaggi indossano abiti odierni, a significare la permanenza di una condizione umana, comunque si evolvano i tempi e dovunque si agitino le passioni. Che un personaggio minacci, invocando un “ferro”, ma impugni di fatto una pistola, non è allora un’incongruenza, ma un segno preciso del valore simbolico del gesto, il “ferro” inteso genericamente come sinonimo di “arma”, e nel linguaggio altamente letterario dei libretti ottocenteschi, questo di fatti ne era il senso. Sobrie, ma teatralmente efficaci, e assai suggestive, le luci. Sobria anche la gestualità dei personaggi. Il poco che serve a fissare un’intenzone, un gesto.



Ma la recitazione sulla scena è solo la visualizzazione di ciò che già la musica racconta, del gesto che la musica suggerisce con il suo ampio arco melodico. Il che non significa, si badi, che la scena, la recitazione, siano un di più, un’aggiunta, di cui la musica possa fare a meno. La visualizzazione scenica del gesto musicale è complementare al gesto stesso, quella musica suscita quella possibile visualizzazione perché solo la visualizzazione rende manifesta la funzione del gesto musicale: introdurre il dramma. Già Rossini aveva precisato che la musica in sé non significa niente, e dunque non esprime niente, e quanto all’imitazione della natura, sono poche le azioni della natura che la musica sia in grado di imitare, il canto degli uccelli, il tuono. Ma la musica è in grado di suscitare impressioni, emozioni, sentimenti, e suscitandoli crea l’atmosfera, il campo, il clima in cui si svolge il dramma. A dimostrazione dell’asemanticità della musica Rossini compone sette arie che con le stesse parole (di Metastasio) possono atteggiarsi a rappresentare sia una situazione comica, sia una condizione tragica, e scrive così un’aria buffa, un’altra lacrimevole, una tragica, e così via, sempre con le stesse parole: Mi lagnerò tacendo.



Bellini va oltre, e caratterizza la melodia in modo da rappresentare musicalmente una situazione drammatica. E’ qui che Daniele Gatti interviene con mirabile intelligenza. La precisione con cui sono modellate le frasi è pari solo alla duttilità con cui ciascuna frase rappresenta le più diverse situazioni. Raramente si è sentita un’orchestra belliniana così pulita, così respirante, così flessibile, tanto nel piegarsi ad accarezzare la tenerezza quanto a suscitare la più indiavolata concitazione. Chi ha detto che l’orchestra di Bellini è fragile, povera d’invenzioni strumentali, convenzionale? Guarda caso, si è scritta la stessa cosa dell’orchestra di Chopin. L’orchestra di Bellini, certo, non è quella di un Berlioz, ma nemmeno quella di un Rossini, per restare in Italia. Non vuole, cioè, sbalordire, né tanto meno commentare con ironia o con distacco una situazione drammatica. Vuole solo suggerire ciò che la voce del personaggio rivelerà esplicitamente. E in questo suggerire, in questo alludere, più che significare, è perfetta. Naturalmente l’interprete, è cioè il direttore, deve mettere in risalto ciò che va messo in risalto, farne uscire ciò che in partitura non è scritto: l’andamento del fraseggio, la dosatura dei timbri, la dosatura e l’equilibrio delle sezioni strumentali, il respiro del fraseggio. Una delle più grandi sciocchezze che si sentono dire da certi interpreti è quando affermano di suonare, di far sentire ciò ch’è scritto in partitura. Ma ciò ch’è scritto è solo l’’appunto per l’esecuzione, il canovaccio per l’interpretazione. L’interpretazione poi nasce proprio da tutto ciò che non è scritto, ma che tuttavia è insito in ciò ch’è scritto. E Gatti è un maestro nel tirare fuori appunto tutto ciò che non è scritto, le intenzioni che sono implicite, ma non espresse graficamente, in ciò ch’è scritto. Di momento in momento, a mano a mano che procedeva l’opera si restava conquistati dalla libertà dei respiri melodici, dalla dolcezza di certi timbri, dalla leggerezza e dalla trasparenza dell’orchestra, come se il bel canto che si udiva dalle voci dei personaggi germinasse dal suono stesso degli strumenti dell’orchestra. Altro che edonismo belcantistico! Piacere epidermico della bella meldoia dolcemente intonata! Qui la melodia, il canto – e sia! il bel canto - si fanno spazio di un mondo interiore vibratile, respirano un’intensità emotiva inaudita. Che sulla scena prendono corpo in figure umane di una dolente verità. 

 



Compagnia di canto eccellente: a cominciare dall’intensissimo Romeo del mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya, capace di comunicare allo spettatore stati d’animo diversi, dalla tenerezza all’ira, dalla gioia d’amore alla disperazione della morte. Le si confronta con pari duttilità la Giulietta di Mariangela Sicilia. I loro duetti si godono da capo a fondo per la continua sorpresa della varietà di atteggiamenti emotivi, musica e canto che si fanno teatro puro. Il peruviano Iván Ayón Rivas incarna perfettamente il ruolo del tenore eroico che Bellini pretende da lui (ma mi raccomando, niente a che vedere con quello che poi, nel secondo ottocento, sarà il tenore eroico, soprattutto in Wagner), un’anima generosa che risolve in vocalità generosa il suo slancio sentimentale. Il Loenzo du Nicola Ulivieri e il Capellio di Alessio Cacciamani completano con sintonia musicale e teatrale la tenuta interpretativa di questo mirabile cast. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera in serata di grazia. E giustamente il pubblico decreta un generale trionfo (ho assistito alla replica del 26 gennaio).



Penso che questa rappresentazione de I Capuleti e i Montecchi costituiscano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque vorrà in seguito affrontare l’interpretazione non solo di questa partitura, ma di tutto il teatro belliniano. Un modello di lettura critica e d’interpretazione viva, complessa, incredibilmente moderna. Ascoltare, e vedere, un Bellini così profondamente capito e rappresentato, fa cadere tanti luoghi comuni sulla scrittura belliniana che per pigrizia o per abitudine si continuano a condurre avanti. Da non perdere. E, magari, da registrare, per andare incontro a chi non possa venire a vederlo e ascoltarlo qui a Roma, al Teatro dell’Opera. Una festa, immagino, anche nella riproduzione di un video, per la mente e per gli occhi, per la sensibilità di ciascuno a godere di quella irripetibile felicità che è la perfetta fusione di poesia, musica e teatro.

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