Beethoven, Leonore
René
Jacobs
Petersen.
Schmitt. Ivanshchenko. Johannsen. Weisser. Naymi. Chum
Freiburger
Barockorchester
Zürcher
Sing-Akademie
harmonia
mundi HMM 902414 15 (2019)
Limited
Edition
Registrata
dal vivo alla Philarmonie di Parigi il 7 novembre 2017
2
cd
Ein
Stoß
– und er verstummt! Un
colpo – e lui ammutolisce. Sta qui il centro di tutta l’opera.
Rocco inorridisce. Ma china il capo, e si arrende agli ordini del
potente. C’è chi ha perfino scritto che il libretto del Fidelio di
Beethoven, scritto da
Joseph Sonnleithner, è
fiacco, irrilevante, in una parola: mediocre. Che la musica va per
conto suo. Una moglie, Leonore,
si traveste da uomo e si fa arruolare come guardia carceraria nella
prigione dov’è rinchiuso suo marito, Florestano,
per tentare di liberarlo.
Pizarro, il governatore della regione, ha imprigionato Florestano,
per impedirgli di denunciare il
suo coinvolgimento in un brutto affare di concussione. Deve perciò
eliminare l’unico testimone che lo accusa. Sembra una storia di
oggi. Si è scritto molto sull’anelito di libertà che ispirerebbe
tutto il Fidelio, già dalla sua prima versione, Leonore, nel 1805,
quella qui registrata da René Jacobs. Ed indubbiamente tutta la
vicenda e tutta la musica che la rappresenta sulla scena sono un
appassionato inno alla libertà. Ma c’è di più. Beethoven è
inorridito, più che sdegnato, da quanto nella società umana
prevalga l’ingiustizia, e quanto essa riesca con la corruzione o
con il terrore a legare le mani di chi potrebbe opporsi o
contrastarla.
Rocco è un bravo uomo, che ama la famiglia, la patria, Dio. Ma
ubbidisce al governatore, ne esegue gli ordini, che sa ingiusti. In
realtà lo capiamo subito, quanto
egli sia in fondo succube dei potenti, incapace di opporsi alla loro
prevaricazione, tutto sommato Rocco è un mediocre senza ideali, e lo
capiamo prima che
l’azione precipiti. Ubbidisce al potere perché il suo vero valore
di riferimento non sono la giustizia, Dio, la patria, la famiglia: ma
il denaro. Senza denaro non è possibile salvarsi nella macchina
sociale che stritola i deboli. Beethoven gli dedica una mirabile
aria, per esprimere questi concetti. E da vero drammaturgo non dà
giudizi morali sul personaggio: lo rappresenta in tutto il suo
egoismo terra terra di
piccolo borghese.
Strumento
dell’ingiustizia umana è il carcere, dove, più che i criminali,
sono incatenati gli sgraditi all’ordine sociale dominante. E
Beethoven rappresenta con un’efficacia insuperata l’orrore
dell’idea stessa di carcere, d’imprigionamento, di soppressione
della libertà. E’ contro tutto questo che lotta Leonore, la moglie
di Florestano, per amore del marito, certo, ma anche per un’intima
convinzione dell’inaccettabilità della condizione di prigioniero.
Non ha ancora
riconosciuto nel
prigioniero il marito,
ma è inorridita e profondamente indignata dalle condizioni nelle
quali è costretto. “Wer
du auch seist, ich will dich retten, / Bei Gott, du sollst kein Opfer
sein!” Chiunque tu sia, voglio salvarti, / per Dio, tu non dovrai
essere una vittima! Si è
detto, e si è scritto, che Leonore non commuove, che l’amore
coniugale non è un argomento efficacemente drammaturgico. E perché?
Fosse un’amante, un’adultera, sarebbe più commovente?
Wilhelmine Schröder-Devrient nella parte di Fidelio, quando punta la pistola al petto di Pizzarro
Pannain
scrive che nel Fidelio non ci sono personaggi, ma ideali, figure
simboliche. Non è vero: e ho cercato di dimostrarlo. Un Rocco lo
troviamo in ogni società, è anzi il tipo umano più comune, quello
che crede di non farsi complice del potente, solo perché sta zitto,
non compie lui stesso il delitto. Pizarro è il potente che abusa del
suo potere, che ne è avido, ne fa il principio fondante della
propria esistenza. Mancano esempi nel mondo di oggi?
Ci
si sofferma, infatti,
assai poco sull’intreccio
assai complesso di idee, sentimenti, emozioni che Beethoven mette in
scena nella sua opera. Ansia
di libertà, amore coniugale, pietà umana per le sofferenze (Leonore
e Florestano), smania di potere, cinismo, mancanza di principi morali
saldi, complicità con le abiezioni dei potenti, per pavidità, per
proprio tornaconto (Pizzarro e Rocco), visione ristretta della vita,
piccole ambizioni, mediocrità di sentimenti (Jachino, Marzelline).
Impressionante non è solo la cattiveria dei potenti, sembra
dirci Beethoven, ma anche
il silenzio,
l’accondiscendenza, la cecità degli umili. Rocco, Jachino,
Marzelline vivono in un carcere dove accadono fatti orribili, e non
se ne scandalizzano, lo assumono come quotidianità inevitabile, come
normale situazione di
convivenza sociale. Gli
unici a comprendere la realtà della situazione sono non a caso i
prigionieri. Il coro dei prigionieri che anelano a respirare l’aria
della libertà è un momento teatrale d’intensità quasi
insopportabile, perché vi sembra rappresentata in una sola scena, di
una meravigliosa individuazione musicale, la condizione perenne
d’ingiustizia che regola da sempre la storia umana. Lo
squillo di trombe che scioglie l’azione e libera Florestano è un
gesto teatrale, è anzi
l’utopia teatrale di come dovrebbero accadere gli avvenimenti nella
storia e come invece non accadono. Il coro finale, nel momento in cui
Leonore scioglie le catene del marito non a caso evoca la
Marsigliese. Beethoven ci aveva sperato, si era illuso. Il Fidelio è
l’opera di questa speranza, di questa illusione. La libertà di
ciascuno non può essere vera libertà se non è la libertà di
tutti. L’inno della Nona suggellerà con un immenso abbraccio
questa utopia.
Ma
René Jacobs non ha inciso il Fidelio del 1814, bensì la Leonore di
nove anni prima. Perché,
sostiene, è la versione più riuscita dell’opera. Non sono
d’accordo. Il Fidelio delle versioni successive, e soprattutto
l’ultima, del 1814, ci guadagna in concisione e drammaticità. Ma
la scelta di Jacobs ha un senso, vuole evitare proprio l’estrema
concisione della versione definitiva. Questa
incisione dell’Harmonia Mundi è stata registrata alla
Philarmonie di Parigi. La
registrazione non è impeccabile. Il suono appare un po’
schiacciato. E si avverta
talora un certo squilibrio tra i timbri strumentali dell’orchestra.
Ma l’interpretazione è
intensa. Alcune scelte sono indicative dell’idea insieme intima e
piena di sfumature con cui è letta la partitura. Per esempio, il
terzo atto della Leonore si apre con la scena della cisterna in cui è
tenuto prigioniero Florestano. Nel Fidelio, che è in due atti invece
che in tre, la stessa scena apre il secondo atto. Siamo abituati a
sentire Fliorestano che all’inizio grida “Gott!”, Dio, come un
urlo violento di ribellione. E
poi, piano, commenta:
“Welch Dunkel hier!” Che buio qui. Maximilian Schmitt, il
Florestano di questa incisione attacca invece
subito piano. Abituato al
grido della tradizione, che assimila il ruolo di Florestano a quello
di un Heldentenor, si
potrebbe pensare a una
scelta interpretativa controcorrente, e forse arbitraria. Ma
si controlli
che cosa scrive Beethoven nella partitura. La
tradizione può averci
convinto che il grido sia
la scelta giusta. Jon Vickers, diretto
da Klemperer,
grida. René Kollo, da
Solti, grida. Peter Hofmann, diretto da Bernstein, attacca prima
piano e poi gradualmente
alza la voce fino al grido. Ma Beethoven, in partitura, segna: p.
Tutta l’interpretazione
di Jacobs è giocata su questo piano d’intimità e di discrezione.
Anche la Leonore di Marlis Petersen sembra rifuggire da accenti
eroici per ripiegarsi in una dolente consapevolezza della propria
fragilità. Tanto più eroica allora ci appare la sua dedizione non
solo all’amore del marito, ma all’amore dell’umanità, in
nome della quale ella è disposta a rischiare la propria vita. Così,
la malvagità di Pizzarro, Johannes
Weisser, non è solo la
manifestazione truce di un “vilain”, figura
quasi archetipica nel teatro, ma
ci mostra
la terribile quotidianità del sopruso da
parte di chi può
esercitarlo
sugli altri. L’ambiguità, la mediocrità di un Rocco, Dimitry
Ivashchenko, semopre
sotto le righe, sono
l’ambiguità e la mediocrità dell’uomo comune che non vuole
fastidi, che pensa solo a sé stesso. Affettuoso, e perfino volitivo,
con chi non può contrastarlo o ferirlo, ma servile con il potente.
Si perde qualcosa del senso eroico dell’opera con
questo tono quasi sempre sotto le righe?
Forse. Ma si guadagna in umanità dei personaggi. E, soprattutto, ne
risulta smentita la supposta poca teatralità dell’opera,
l’estraneità di Beethoven ai meccanismi della drammaturgia. E’
invece un’opera
teatralissima, avvincente, multiforme, ricca di contrasti e di
sfumature, anche psicologiche. E non è vero che Beethoven insegua un
suo disegno musicale indifferente alle esigenze della scena. E’
vero tutto il contrario, che Beethoven inventa via via le forme
musicali che si adeguino alla situazione drammatica. Ma non nel senso
di un continuo drammaturgico – allora avremmo Wagner - , bensì nel
fissare di volta in volta, con un’aria, un terzetto, un quartetto,
il nodo drammatico della situazione teatrale. Tant’è vero che sarà
proprio questa invenzione di
una musica che piega le
forme strumentali a farsi carico dell’azione drammatica che
fornirà il modello del
sistema musicale con cui
è strutturato
il Wozzeck di Berg. La forma musicale non è uno schema imposto alla
scena, ma è
la sintesi di musica e dramma, della
forma musicale che si fa dramma, nel
senso che il dramma è raccontato per intero dalla musica, e
non è quindi possibile distinguere il valore musicale dal valore
drammatico, perché sono la stessa cosa.
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