sabato 21 dicembre 2019

Marco Fumo: Reflections









Dal Barocco al choro1 brasiliano, dal ragtime allo stride piano2, dal neoclassicismo al tango, dall’impressionismo al jazz: `possibile mettere allo specchio musiche di stili, generi ed epoche diversi?” si chiede il pianista Marco Fumo, presentando questa sua incisione.

Ed ecco, attacca con una sonata di Scarlatti (K. 382) il cui attacco (ripetizione a allusione sono volute) assomiglia a quello di un’invenzione a due voci di Bach, proprio per stabilire subito uno specchio, un fondale di riflessione. Scarlatti, infatti, assimila e trasforma in maniera geniale ritmi e melodie della musica popolare spagnola che ascoltava per le strade di Toledo e di Madrid. E allora, sospendendo per un attimo il tempo (anche qui lo scontro, l’ossimoro di un attimo senza tempo è voluto), subito dopo ecco Odeón di Ernesto Nazareth (1863-1934), compositore brasiliano, anzi dell’Impero Brasiliano, che rielabora ritmi e melodie del subcontinente americano, in questo caso un tango, Odeón. E gli accostamenti continuano, curiosi, divertenti, ma soprattutto musicalmente rivelatori. Come il Tango di Stravinskij associato al Café de Barracas di Eduardo Arolas, argentino (1892 – 1924). Abilissimo Stravinskij a catturare il ritmo del tango, ma inflessibile anche nel circoscriverlo dentro un ambito invalicabile di compostezza classica.

Viejo café de Barracas,
turbios recuerdos de entonces,
que allá por el año once
tenía entreveros de facas…
Hoy has cambiado tu pinta,
todo es nostalgia y neblina,
ya no es muchachos de esquina
la del Café El Pasatiempo,
cuando tocaba en sus tiempos
el Tigre del Bandoneón.

(Vecchio caffè di Barracas,
torbidi ricordi di allora,
che là per l’anno undici
c’erano risse di pugnali …
Oggi hai cambiato il tuo colore,
tutto è nostalgia e foschia,
ormai non c’è ragazzi d’angolo
quello del caffè Il Passatempo,
quando suonava ai suoi tempi
la Tigre del Bandoneón).

Qui, per Arolas, nessuna compostezza, ma una libertà musicale che insegue la libertà dei versi. Si badi: non si sta ponendo differenze di qualità tra un genere e l’altro, ma di stile. Ciascun brano, a suo modo, nel proprio ambito, è un capolavoro. E non mancano riflessi dall’uno all’altro. Questo vuole dirci Marco Fumo. In un paese di guelfi e ghibellini, nel quale la differenza di genere è una differenza di valore, questa libertà è una specie di controveleno. Perché anche Stravinskij, nel suo amibto, è libero: di trattare ritmi e motivi popolari, o d’intrattenimento, come una materia classica da sottoporre a elaborazione contrappuntistica. Tutto ciò risulta ancora più chiaro con un’altra coppia. Un valzer di Joplin, anzi, forse, un valzerino, già di per sé di carattere popolare, ma imbrigliato in una logica da pièce de salon tardottocentesca, accostata a un valzer di Aníbal Troilo, Romance de barrio. Ecco qui il link per ascoltarlo, questo bellissimo e tristissimo romance:


Già Joplin rielabora a suo modo il ritmo del valzer, sembra quasi di vederli danzare i giovani palestrati americani, sgambettanti e saltellanti con forza. Troilo ci conduce, invece, nella tragedia dei distacchi. Romance è un parola che ha un lunghissimo passato in spagnolo. All’inizio indicava le gesta di eroi cavallereschi. Raccontava le prodezze del Cid Campeador. Poi finì col raccontare storie più private. E nel secolo XVII è spesso all’origine di molti drammi, soprattutto di Lope de Vega, per esempio del bellissimo Caballero de Olmedo. Ha una struttura metrica che si trasmette di secolo in secolo, ottonari con assonanze nei versi pari. Il testo moderno di questo romance mescola invece rime vere e proprie e assonanze. E il romance è una storia privata di quartiere. Un amore che senza colpa di nessuno finisce.

Primero la cita lejana de Abril,
tu oscuro
balcón, tu antiguo jardín,
más tarde las cartas de pulso febril
mintiendo que no, jurando que s
í.

Romance de barrio, tu amor y mi amor,
primero un querer, después un dolor,
por culpas que nunca tuvimos,
por culpas que debimos sufrir los dos.

(Dapprima l’appuntamento lontano di Aprile,
il tuo oscuro balcone, il tuo antico giardino,
più tardi le lettere di polso febbrile
mentendo che no, giurando che sì.

Romance di quartiere, il tuo amore e il mio amore,
dapprima un amarsi, dopo un dolore,
per colpe che mai non avemmo,
per colpe che dovemmo soffrire tutti e due).

L’ultimo “riflesso” è tra Debussy (Claire de lune, dalla Suite Bergamasque) e Duke Ellington, con un brano che dà il titolo a tutto il cd: Reflections (in D), riflessi (in re maggiore) – tra parentesi le parole che dal titolo sono state espunte.

Un viaggio, un’avventura, che libera il cervello da griglie, caselle, etichette. Il filo rosso ce lo regala, splendido, luminoso, Marco Fumo. Una lezione d’interpretazione, di che cosa sia un’interpretazione, e come, anzi, qualunque esecuzione non può essere altro che un’interpretazione: anche l’esecuzone cattiva, sbagliata, asettica, menzogneramente oggettiva (suono ciò ch’è scritto, dicono molti; ma è una cosa che non è possibile: quale piano rispetto a quale forte?), anche l’esecuzione furba, cialtronesca, resta sempre un interpretazione, un’interpretazione appunto cattiva, sbagliata, asettica, menzogneramente oggettiva, furba, cialtronesca.

Marco Fumo abolisce i confini di genere. Non è che un tango, perché è un ballabile, si debba suonare con minore accuratezza di un valzer di Chopin. L’accuratezza deve essere la stessa. La differenza sta altrove. Ed è una differenza d’interpretazione, l’interpretazione che coglie le differenze di genere. Mi sono trovato molto spesso a disagio quando, per esempio, grandi soprani, senza fare nomi, affrontano il repertorio afroamericano, spirituals, jazz vero e proprio. Lo stesso disagio che provo quando sento un tenore sparare le canzoni napoletane. Si sente che, tanto i soprani che i tenori, agiscono in un campo che non è il proprio. Per esempio, dimenticano, diciamo così, di lasciare perdere l’impostazione melodrammatica della voce, l’impostazione vocale alla quale sono abituati e che devono impostare per cantare Verdi o Wagner. Devono cantare a voce nuda, che sia uno spiritual o una canzone napoletana, e non sanno o non vogliono farlo. Anche i pianisti incorrono nello stesso sbaglio quando escono dal repertorio “classico”. Oddio! Spesso i pianisti, a dire il vero, vanno fuori strada anche solo se, invece di suonare Rachmaninov, devono suonare Haydn. O Bach. Ecco, Marco Fumo, invece, ci fa percepire la differenza dei generi – il suo Clair de lune è mirabile per discrezione di fraseggio e delicatezza di tocco, il suo Scarlatti da manuale – ma in Joplin, Troilo, Arolas e, naturalmente, Duke Ellington, c’è un altro clima. Ecco: si tratta proprio di questo, di atmosfere diverse, ciascuna, in sé, con il suo fascino, la sua bellezza. E soprattutto: che grande esercizio di libertà, anche mentale, passare da un genere all’altro! Quando ascoltate questo cd non state a impazzire per capire che cosa è che cosa, chi è il compositore, che genere di musica ascoltate. Abbandonatevi, con la testa e con il corpo, completamente, semplicemente, all’ascolto, e godete. Sarà una liberazione anche per voi. Come se spezzaste le catene di una schiavitù. Che non sono solo catene musicali, ma catene mentali secolari che noi italiani ci teniamo strette addosso: che non conta la cosa, ma di chi è, da che parte sta; non conta la verità di un’affermazione, la bellezza di un’idea, ma chi la dice, chi la propone. Guelfi e ghibellini. Giusti e sbagliati. Furbi e sfigati. Personaggio che conta, tipo che non è Nessuno. Ma vogliamo smetterla, una buona volta? Ascoltiamo Marco Fumo. Abbiamo molto da imparare da lui.

REFLECTIONS
marco fumo
ODRADEK ODRCD 524




1termine portoghese che significa lamento o pianto .
2loc. angloamericana (stride, camminare a grandi falcate+piano, pianoforte) usata in italiano come sm. Stile pianistico jazz sorto a Harlem verso il 1920. Eredita dal ragtime la struttura e i ruoli delle due mani (la sinistra fornisce bassi, spinta ritmica e armonie con un continuo “um-pa um-pa”; la destra ricama melodie e abbellimenti), cui aggiunge l' improvvisazione e la pronuncia ritmica swing. Ne fu caposcuola J.P. Johnson, seguito da T. “Fats” Waller e Willie “the Lion” Smith. Ebbe schiere di praticanti negli anni Venti, quando risuonava nelle case di Harlem dove si tenevano feste private. Sebbene fosse usato per il ballo e l'intrattenimento, lo stile stride piano è musica d'arte, non folk, eseguita da veri virtuosi, dotati di grande preparazione tecnica e teorica. Esso ha influenzato anche molti pianisti dei decenni successivi (Duke Ellington, Earl Hines, , T. Wilson, A. Tatum)

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