martedì 23 febbraio 2021

Ricordo di Paolo Castaldi


 


Paolo Castaldi ci ha lasciati. Ecco una conversazione in cui divaga su sé stesso, la musica e gli altri. Qui sotto il link. Ma prima, qualche riflessione sui commenti che leggono sotto il video.

Segno dei tempi che i commenti di chi ha visto la divagazione quasi mai centrino l'oggetto della discussione. E che reagiscano, scandalizzati, ai paradossi di Castaldi. Segno dei tempi: nessun filtro culturale che decritti il vero senso dei messaggi. Inoltre, Paolo Castaldi è un compositore, non uno storico della musica né tanto meno (per sua fortuna) un critico musicale. Non è tenuto pertanto a una supposta oggettività del giudizio (ammesso che possa esistere un'oggettivita del giudizio: esiste la sua motivazione, non la sua oggettività): Castaldi espone le proprie preferenze e le proprie idiosincrasie. Avete mai letto che cosa Schumann scrive dei suoi contemporanei? O Stravinskij non solo dei contemporanei? Castaldi lamenta che la musica non sia più "linguistica", non sappia più significare qualcosa. Facile coglierlo in castagna e opporgli che la musica non è né è mai stata un linguaggio. Il che non significa che la musica non comunichi niente. Ma comunicazione e linguaggio non sono la stessa cosa, come lui crede. Il linguaggio è certo comunicazione, ma non ogni comunicazione è linguaggio. Tutto ciò, comunque, non riguarda Castaldi. Ma noi che lo ascoltiamo. Allora, che cosa veramente significherà ciò che ci sta dicendo, al di là dei paradossi su Mozart e Nono – Stravinskij non era meno paradossale quando affermava che Vivaldi ha scritto 600 volte lo stesso concerto - ? Significa che mette il dito sul nodo principale che ha stretto le avanguardie del '900: la nostalgia di una musica che s'illudeva di poter cantare l'amore. Quell'illusione – all'apparir del vero – non c'è più. E allora ci si gira intorno: o si compone una musica che ignori qualunque suggestione di significato o ci s'illude di potere con la musica ancora significare qualcosa, se non altro la sua fine. Castaldi ci sta dicendo, semplicemente, che le due alternative sono la stessa cosa. E tutti noi siamo mosche impigliate nella rete di un ragno; la nostra illusione di crederci interpreti del mondo. Ma il mondo non ha senso: c'è e basta. E abbiamo paura di doverci arrendere all'evidenza che dovremmo dire la stessa cosa di noi: di esserci e basta. Il migliore commento è una quartina di Arsenij Tarkovskij:


Finché non mi capitò di calpestare

l'erba della steppa e la verzura,

e venni a sapere che l'asse terrestre

mi trafiggeva da parte a parte.

(traduzione di Gario Zappi)


Ecco, quell'asse è la poesia, la musica, l'arte: l'interpretazione del reale, l'interpretazione, anche, di non essere capaci d'interpretare il reale. Ci mancherà, ci mancherà moltissimo la capacità che aveva Paolo Castaldi d'interpretare tutt'e due le attitudini. Ci mancherà, ci mancherà molto la sua voce. Ci mancherà Paolo Castaldi.


https://www.youtube.com/watch?v=QGk4trTDkTY


domenica 21 febbraio 2021

Teatro alla Scala, Salome


 

Ecco che cosa scrivevo l’anno scorso di un’edizione olandese (Dutch National Theatre) della Salome di Strauss diretta da Daniele Gatti, regia di Ivo van Hove, nel giugno del 2017, ne esiste un bel dvd di cui allego la copertina:


Richard Strauus, Salome

Royal Concertgebouw Orchestra

Daniele Gatti, conductor

Ivo van Hove, stage director

François Roussilon, film director


RCO 1 DVD




Teatro, teatro, teatro! Un accordo perfetto tra musica e scena. Una Salome contemporanea mozzafiato. Ivo van Hove fa recitare gli attori cantanti seguendo la musica nota per nota. E sono tutti bravissimi, a cominciare dalla straordinaria Malin Byoström, nel ruolo di Salome. E Daniele Gatti rende la tensione musicale, la violenza, ma anche l’estenuata dolcezza in maniera magnifica. Un’edizione di riferimento, imperdibile.

Ma se ne legga la recensione di Guy Cerqui, qui sotto:


https://wanderersite.com/it/2017/07/daniele-gatti-trasfigura-salome-e-porta-in-paradiso/


Ora, in Italia sembra che non si possa eludere o l’inno o l’insulto. Michieletto, anni fa, era oggetto di insulti, e io fui tra i primi a riconoscerne invece l’intelligenza teatrale (un bellissimo Romeo e Giulietta di Gounod alla Fenice di Venezia nel 2009). Ed è indubbio che anche nello spettacolo scaligero, Michieletto mostri più di un segno di questa intelligenza. Ma sembra solo sfiorare il dramma, non coglierne la concezione dirompente, che non è tanto il dramma di famiglia – anche! e Amleto, mi dispiace, c’entra ben poco - ma l’assenza di un confine nell’amore tra immaginazione e realtà, sadismo e sensualità, brama di possesso e tenerezza, perversione e quotidianità. Sono gli anni in cui esplode l’avventura della psicoanalisi, ed è lo stesso Strauss a dichiararsene attratto. Come farà per Elektra – la definisce “un caso di isterismo!” - appoggiandosi al testo di Hofmasthal in cui ciò era già evidente. Per Salome il testo è di Oscar Wilde, scritto in francese per Sarah Bernhardt. Ma c’è un particolare non trascurabile: Salome non è “perversa” o, se mai, la sua perversione sta nel fatto di non credere perverso nessun desiderio, nemmeno quello di possedere una testa come fosse una caramella golosamente desiderata. Strauss penetra con grande finezza questo aspetto del personaggio. Un drammaturgo e un musicista meno grande di lui avrebbe scritto musica bombastica, terrificante, catastrofica per la scena del bacio sulla bocca della testa mozzata. Strauss invece compone una musica dolcissimo, un inno d’amore più dolce, invadente, sensuale del dialogo notturno di Tristano e Isotta composto da Wagner. Il sublime, sublime tragico, della scena sta proprio in questo: che l’orrore è che l’orrore possa essere cantato con la musica di un bacio di due ragazzi innamorati. Potrebbero essere Romeo e Giulietta. E Salome è una ragazza innamorata. Wilde direbbe che l’amore uccide sempre chi ama. Se non si entra in questa sottile distinzione tra ciò che è esplicito e ciò che è implicito si perde il senso della scena, ma soprattutto si perde il senso di ciò che arte, che non è mai l’esplicito, ma sempre l’implicito. Ciò che non si dice è sempre più terribile di ciò che si dice, l’allusione è più devastante della scoperta della verità. Ammesso poi che questa verità debba essere quella di un interno borghese. Allora Ingmar Bergman lo sa fare meglio di chi ritiene che si debba esplicitare sempre la quotidianità del pubblico. Perché Bergman è allusivo, simbolico (senza citazioni estetizzanti), implicito, anche quando inscena drammi borghesi. Il testo di Wilde fu tradotto in tedesco da Hedwig Lachmann. Michieletto a tutto ciò sembra girarci intorno, perfino con gusto prezioso, come la citazione dell’Apparition di Gustave Moreau. Bellissima la processione di angeli con le ali nere, allusioni forse a una perduta innocenza, e più diabolicamente, all’attrazione fatale di un oggetto quasi asessuato, ma in realtà un buco nero di esplosiva sensualità. La colata di sangue dalla testa aureolata, come può essere un bambino, una bambina, un adolescente, i fili sanguigni che pendono dalla candida veste tirata in alto. Ma è nella recitazione e nel canto dei personaggi che tutta questa sensualità non salta fuori, vuol dire che la reprimono, che l’incoscio la proietta fuori? Lo spettacolo pone molte domande, e questo è senza dubbio un merito, la prova che è teatro pensato, che c’è un’idea e non una trovata, alla base. Ma si ha l’impressione di uno scollamento tra ciò che i personaggi dicono e soprattutto cantano, e ciò che fanno. Gli interpreti, del resto, pur bravi, e tutti,Elena Stikhina (Salome) al debutto scaligero, Wolfgang Koch come Jochanaan, Gerhard Siegel come Herodes e Linda Watson come Herodias, non dimostrano, nessuno, però, una particolare incisività, una compiuta appropriazione del personaggio. E quanto all’orchestra, e all’interpretazione di Riccardo Chailly, è forse il punto più debole dello spettacolo, e forse, chi sa, anche la causa per la quale la messa in scena non convince del tutto. Sembra quasi, infatti, che Chailly non voglia oltrepassare le soglie di una corretta lettura. Ma per una partitura incendiaria come questa ci vuole ben altro. Ci saranno stati certo anche i problemi dei distanziamenti, ma l’impressione, anche qui, è piuttosto di una lettura esteriore, distaccata, del testo musicale. Insomma, Chailly non ne appare coinvolto e non coinvolge. Chi sa se una rappresentazione, una vera rappresentazione, a teatro pieno, con il pubblico, avrebbe modificato l’assetto, e suscitato, negli interpreti e nel pubblico (ora distanziato davanti a uno schermo) maggiore partecipazione sia intellettuale sia emotiva. 





sabato 13 febbraio 2021

Una traduzione imperfetta


                                             Durs Grünbein

Una traduzione imperfetta


Interierieur mit Eule I


Mond scheint ins Zimmer. Nichts ist real.

Jeder Augenblick unergründlich, die Welt

Kolossales Echo im Labyrinth der Sinne.

In der Hand eine Münze - mein Talisman.

Siebzehn Gramm Silber, reines Symbol.

Eule, erleuchte mich, öffne die Augen.

Tier auf der Tetradrachme aus Attika, hilf.


Interno con civetta I


La luna splende nella stanza. Niente è reale.

Ogni istante insondabile, il mondo

un'eco colossale nel labirinto dei sensi.

Nella mano una moneta - il mio talismano.

Diciassette grammi d'argento, puro simbolo.

Civetta, illuminami, apri gli occhi.

Bestia sulla tetradracma dell'Attica, aiutami.


Durs Grünbein, da Koloss in Nebel, Colosso nella nebbia, 2012

 


 


La traduzione è mia. L'edizione Einaudi, appena pubblicata, con il titolo Schiuma di quanti, ha molte sviste e molti errori, per esempio, Münze, moneta, è tradotto da Anna Maria Carpi "berretto", forse perché scambiata con la parola Mütze, che significa, appunto, berretto. Ma non si capirebbe poi perché il poeta parli di un berretto, quando sta invece riferendosi a una moneta ateniese, la dracma, sulla quale è incisa la figura della civetta, rapace caro ad Atena, ma che Grünbein trasforma in gufo, per serbargli la figura di uccello scaramantico, tipica del gufo, ma non della civetta. I due uccelli si assomigliano e il poeta gioca su questa somiglianza.

 

                                               

                                                 Durs Grünbein
 


Più grave mi pare che talora la traduttrice ometta di tradurre alcune parole. Ciò accade nella seconda poesia della raccolta, Austronaut in Oktober, Austronauta in ottobre. A pag. 7 scrive "Un'immane discarica per ogni forma di sapere,”: il testo tedesco, a pag. 6, dice: “Ein Riesenabflußloch für jede Form von Wissen, Güte,”: perché saltare Güte? e Riesenabflussloch non è semplicemente una "immane discarica", si può scaricare anche sul terreno, senza scavare la terra, invece qui si parla di un Loch, un buco, una fossa, una voragine, discarica è troppo generico, io tradurrei tutto il verso: "Una gigantesca voragine di deflusso per ogni forma di Sapere, bellezza". Per la precisione l’Abflußloch può indicare lo scarico della piattaforma di una doccia. Manca, in ogni caso, nella traduzione il senso del buco e del deflusso, oltre che l'ironico vocativo Güte, alla fine del verso, come a dire: è la vita, bellezza! (alla lettera sarebbe più fedele tradurre Güte con un "caro", ma come frase idiomatica "bellezza" ci sta a pennello, e si avvicina al "buono" letterale della parola). Più sopra, al verso 5, la traduttrice scrive: "Ora rientra nel mondo così com'è. Vissuto, / e in niente meglio di quando l'ha lasciato". Il testo tedesco ha: "Nun kehrt er wieder in die Welt, so wie sie ist. Verlebt, / Und kein Stück besser als die Welt, die er verließ". Perché omettere la ripetizione di Welt, mondo? Forma oltretutto una parola-rima interna, e nel punto di cesura del verso. "kein Stück besser" non è "in niente meglio", ma "non un briciolo migliore" o qualcosa di simile. Io tradurrei: “Adesso ritorna nel mondo, così com'è. Vissuto, / e non un briciolo migliore del mondo, che ha lasciato". Infine: perché tradurre, al v. 10, "nel cranio ancora il vuoto di questi freddi spazi" quando il testo dice: "Im Nacken sitzt ihm noch die Leere dieser kalten Räume -"? Io tradurrei: "Sul collo gli sta seduto ancora il vuoto di questi freddi spazi". Diciamo anche in italiano: gli sta sul collo. Che c'entra il cranio? Nacken è il collo.

 


                                     Durs Grünbein
 

Non mi piace infierire sul lavoro di una scrittrice nota per la sua professionalità. Succede a tutti di prendere sottogamba talora un lavoro. Ma sul serio le consiglierei di rivedere tutta la traduzione e di mettere riparo a sviste ed errori. Grünbein è poeta da non prendersi sottogamba.

Una precisazione terminologica.

In tedesco “Eule” indica il gufo, ma si usa anche per designare la civetta, che in realtà si chiamerebbe “Kauz” o, meglio, “Steinkauz”. L’ambiguità del termine “Eule” è assoluta in inglese, che chiama “owl” (la stessa radice di “Eule”) sia il gufo sia la civetta. Tale ambiguità ha tratto in inganno anche me, oltre alla traduttrice italiana di Grünbein, per Einaudi, Anna Maria Carpi. “Interieur mit Eule” l’ho interpretato anche io Interno con gufo, arrampicandomi sugli specchi del senso scaramantico del gufo, che sarebbe ignoto alla civetta. Ma la dracma ateniese che il poeta conserva come talismano ha incisa una civetta, non un gufo. E dunque Eule va interpretato non come gufo, bensì come civetta. En passant: l’elegante francesismo del titolo aggiunge ironia al quadro. 

Fiano Romano, 13 febbraio 2021