martedì 20 dicembre 2016

Lo stile



In musica, in letteratura, mi dilungo spesso sulla necessità di uno stile (NIetzsche direbbe “di un grande stile”), sulla cura della costruzione, sulla scelta degli elementi che la fondano (un ritmo, un intervallo, in musica, una parola, i suoi echi, in una poesia). Ma forse non a  tutti riesco a far penetrare questa necessità. In fondo la cultura italiana che s’impara nelle scuole è contenutistica, psicologistica, una poesia la si giudica per ciò che rivela del sentimento del poeta, una musica per le emozioni che suscita. Cose legittime, ma che non riguardano che cosa la poesia sia, che cosa sia la musica, al di là delle suggestioni che provocano nel lettore, nell’ascoltatore. Il poeta è certo un uomo che sente come gli altri uomini , ma solo lui di questi sentimenti fa materia di poesia. Quanti da ragazzi si sono innamorati di una ragazza appena intravista, e mai veramente conosciuta? Ma solo Leopardi scrive A Silvia. Quanti hanno conosciuto l’abbandono, il desiderio inappagato che prostra, e ci concede a un’immedicabile solitudine? Ma solo Saffo ha espresso questo in pochi versi: La luna è tramontata, / sono tramontate le Pleiadi, / e io sola giaccio (nel mio letto). “Giaccio nel mio letto” è un’approssimazione del verbo greco κατεύδω (katéudo), intraducibile: giacere, stare a letto, disporsi a un incontro, unito all’attributo μόνα (mona), sola: μόνα κατεύδω, sola giaccio. Tutto insieme. E proprio nella sintesi folgorante di un solo verbo, unito a un solo attributo, sta la forza della poesia. Ecco, questo è lo stile. C’è un aforisma di Nietzsche, folgorante, al riguardo, nei frammenti postumi: “Si è artisti al prezzo di sentire come contenuto ciò che i non artisti chiamano forma. Certo, in tal modo si vive in una sorta di mondo capovolto, nel senso che tutto diventa forma, anche la propria vita”. Terribile. Ma è questo l’arte. A chiarire ancora meglio la mia concezione di stile faccio qui sotto due esempi. Uno, di Dante. L’altro di un poeta italiano del Novecento, Vittorio Sereni. L’inizio e la modernità della poesia italiana.
Ecco Dante. E’ la prima stanza di una canzone bellissima, elaboratissima. Dante è poeta che può emozionare profondamente. Ma non è per tutti. Richiede dal lettore un bagaglio culturale piuttosto nutrito, anche filosofico, e una conoscenza assai più che dilettantesca della lingua (naturalmente il fiorentino del tardo Duecento e del Trecento). Chi non possegga questi requisiti se ne tenga alla larga. Fraintenderebbe tutto. Il famosissimo sonetto “Tanto gentile e tanto honesta pare”, per esempio, contiene parole che si usano ancora oggi, ma che oggi non significano ciò che significavano nel Duecento. Gentile è sinonimo di nobile, honesta non significa virtuosa, ma degna di onore, e pare non è presente di parere ma di apparire, e significa dunque appare. La lingua degli altri tredici versi presenta uguali differenze con la lingua di oggi. Oltretutto, una volta compreso nel suo esatto significato, il sonetto non solo si rivela più comprensibile, ma anche più bello ed emozionante, e soprattutto più complesso. La poesia non è mai semplice, ma sempre complessa, perché vi si possono leggere stratificati diversi livelli di significati e di comprensione. Tra l’altro, i poeti del Due-Trecento lo sapevano benissimo, e codificavano questi livelli in differenti stati di significato: letterale, allegorico, anagogico. Nessuno di questi significati nega l’altro, ma tutti appaiono simultaneamente presenti nella poesia. Che Beatrice nel Paradiso possa significare la Teologia non cancella il fatto che sia, anche, la donna amata da Dante, anzi è proprio perché essa è la donna amata che è anche la donna che conduce alla salvezza (Dante dice salute, e il saluto è un segno di questa salvezza). Ma veniamo alla stanza della canzone: nell’edizione Barbi la LXVII, in Contini la 20, in De Robertis la 10, e nella bellissima edizione dei Meridiani, a cura di Claudio Giunta, la 19

 E’ m’incresce di me sì duramente,
ch’altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto ‘l martiro,
lasso, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
raccoglier l’aire del sezza’ sospiro
entro ‘n quel cor che ‘ belli occhi feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi al tempo che mi sface.
Oimè, quanto piani,
soavi e dolci ver’ me si levaro
quand’elli incominciaro
la morte mia, che tanto mi dispiace,
dicendo: “Nostro lume porta pace”.

Tutta la stanza è composta di due sole frasi. All’interno delle quali l’articolazione è ricchissima. E’ questa una peculiarità dello stile di Dante: abbracciare in una sola frase fenomeni complessi.  L’argomento è presto intuibile: Dante parla della propria morte. Nel seguito della canzone veniamo a sapere che da bambino fu sul punto di morire per una malattia, e nello stesso periodo in cui si infiammò per Beatrice. Amore e morte, direbbero i romantici. Ma qui l’accostamento non è sentimentale, ma filosofico. L’amore è una forma del morire, un morire a sé stessi. L’originalità di Dante è di dare concretezza biografica a questa idea. Non solo da bambino sente di morire nello stesso tempo in cui s’innamora, ma l’angelo che lo uccide infiammandolo d’amore, verrà tolto presto dalla terra, morirà,e questa morte dell’amata parrà all’amante una figura (nel senso che attribuisce a questo termine l’esegesi medievale), cioè un’allegoria, un significato altro, anche mistico, del distacco, che non è solo distacco della donna dall’uomo che l’ama, ma della donna da sé stessa e dell’uomo da sé stesso.  Si osservi l’intricarsi di rime e assonanze, allitterazioni e rinvii simbolici da una parola all’altra: duramente fa rima con dolorosamente e le due parole cominciano con la stessa dentale sonora d.  Doglia fa rima con voglia, ed è proprio il desiderio deluso a generare dolore, così come l’ultimo (sezza’, sezzaio) sospiro d’amore si confonde col rantolo della morte (incomiciaro la morte mia). Questi sono solo cenni. Un’analisi più particolareggiata si trova nell’edizione citata dei Meridiani. Queste brevi note vogliono solo suggerire la complessità della costruzione fantastica e del pensiero filosofico che la sottende, e la perfetta realizzazione stilistica di questa complessità. Ma è Dante, direte. Certo, la densità di pensiero e di emozione nella poesia di Dante conosce pochi confronti. Ma non sarebbe stata più semplice la lettura di un sonetto del Petrarca o di un canto di Leopardi.
Veniamo ora a Sereni. E’ l’ultima poesia della raccolta intitolata Gli strumenti umani (1965).

La spiaggia

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: - Non torneranno più. –

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari ... Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
                                                                  Non
dubitare, - m’investe della sua forza il mare –
parleranno.

Già a una prima lettura balza subito all’orecchio una certa regolarità ritmica. L’analisi farà scoprire che tale regolarità è dovuta a una sapiente dosatura di metri tradizionali: la prima strofa è composta da un settenario, da un doppio settenario e da un quinario seguito da un settenario.  Con la seconda strofa compare un frammento ritmico diverso: Ma oggi. Tre sillabe, tra ma e oggi c’è iato. Ritornano  in Segnali e si contraggono in una sola sillaba alla terza strofa: Non, che però un enjambement lega al verso successivo: Non / dubitare. Tolto l’ottonario, irregolare (accento sulla seconda invece che sulla terza sillaba), nel resto tornano i settenari, e perfino un endecasillabo (e zitti quelli al tuo voltarti, come), e lacerti di altri ritmi, tutti variazione dell’inciso Ma oggi. Un lacerto, la conclusione: parleranno. Come a lasciare aperto il discorso, alla voce dei morti. Perché anche qui, di morte si parla, anzi si canta. Ma non c’è salvezza.  La durezza del distacco è già espressa dall’urto sintattico di un plurale seguito da una terza persona singolare, la copula è: I morti non è. I morti diventano un mucchio, un solo fenomeno, e ciò che del mucchio fa male non è l’assenza, ma la presenza ostinata, ossessiva della loro assenza, di qualcosa che ne denuncia l’assenza, le toppe d’inesistenza. Sono toppe di qualcosa che non c’è, che non c’è più. Ma stanno lì, a mostrarti questo non esserci più. Vengono in mente i versi finali di un poemetto pascoliano:  Non esser mai, più nulla, / ma meno morte che non esser più. Qui, il ricordo va all’altra raccolta di Sereni, il Diario d’Algeria.  Quei morti sulla spiaggia del campo di concentramento diventano tutti i morti, tutti i distacchi incolmabili della vita. Ciascuno potrà continuare da sé l’analisi di questa bellissima poesia. Avevo ventiquattro anni quando la lessi per la prima volta. E preso dall’entusiasmo per avere scoperto un grande poeta, gli scrissi. Nessun atto, nessun gesto definisce meglio chi fu Vittorio Sereni, che un fatto: mi rispose. E m’invitò a conoscerlo di persona. Il grande poeta, consulente della Mondadori,  volle conoscere il ragazzo che aveva dimostrato tanto entusiasmo per la sua poesia.  E passammo momenti bellissimi, a Roma, come a Milano, a parlare di poesia.

Fiano Romano, 20 dicembre 2016

sabato 17 dicembre 2016

Lo Schubert di Luca Ciammarughi



ROMA, PALAZZO ALTIERI
FONDAZIONE DUCCI
LUCA CIAMMARUGHI esegue le musiche di
FRANZ PETER SCHUBERT
16 DICEMBRE 2016

“Il risveglio della coscienza, concerto contro la fame nel mondo”, s’intitolava la serata organizzata dalla Fondazione Ducci, a Palazzo Altieri, in Piazza del Gesù a Roma, venerdì scorso 16 dicembre.  C’erano l’Ambasciatore Manfredo Incisa di Camerana, già Direttore Generale Aggiunto della FAO, il Presidente della Fondazione Ducci, Paolo Ducci Ferraro di Castiglione.  Pierpaolo Bessio, “responsabile dei rapporti con enti e istituzioni del Banco Popolare”, che ha sede appunto nel Palazzo Altieri, ha salutato gl’intervenuti. Lascio perdere i discorsi d’introduzione, mi porterebbero lontano, a mettere in discussione l’efficienza e l’efficacia di un organismo come la FAO, come del resto ha fatto, all’inizio, presentando la serata, lo stesso Presidente della Fondazione. E vengo al concerto in cui Luca Ciammarughi ha interpretato alcune pagine tarde di Schubert, tra cui l’ultima, sublime, Sonata in si bemolle maggiore D 960. Presentando le musiche che avrebbe poi suonato, lo stesso Ciammarughi ha insistito sull’ambiguità del mondo musicale schubertiano, non nel senso che sia un mondo sfuggente, ma in quello, più profondo, che non sono definiti i confini del dolore e della gioia, dell’alto e del basso, del sublime e del volgare, rappresentato, quest’ultimo, dall’irruzione di motivi e ritmi dichiaratamente bassi, popolari, persino banali, come avverrà in Mahler, ma che acquistano un significato addirittura tragico proprio perché messi a contrasto, o a contatto, con un’elaborazione alta, raffinata della costruzione musicale. In Schubert perfino la caratterizzazione dei modi non è ovvia. Non è detto, infatti, che il modo minore esprima il dolore e quello maggiore la gioia. Anzi. Spesso il riemergere del modo maggiore, e magari con una melodia semplice, la stessa ascoltata all’inizio, conferisce alla pagina un sapore amaro, di rimpianto, come l’emergere di una gioia sparita, di una felicità perduta. Al solito, è la costruzione musicale a dare senso alle melodie, ai ritmi, e non il contrario. E’ l’accostamento delle frasi, il contrasto tra le sezioni, a chiarire il senso di ogni particolare. Evidentissimo, questo, nel secondo Klavierstück in mi bemolle maggiore, e ancora più, forse, nell’Improvviso in fa minore o in quello in la bemolle maggiore offerto come bis. Questa forse troppo lunga premessa per spiegare che cosa Ciammarughi voglia comunicare all’ascoltatore quando suona Schubert.  Di fatti colpisce subito il flusso ininterrotto del discorso, la continuità dell’intrecciarsi delle diverse sezioni di un movimento e dei movimenti in una pagina, sia essa un improvviso o una sonata. Le mani scorrono da un punto all’altro con fluida naturalezza, come se anche i contrasti più violenti raffigurino la mutevolezza ineludibile del percorso narrativo. Perché la musica si fa racconto, e un racconto che precipita, necessariamente, verso una catastrofe, anche quando questa si presenti con l’apparente calma di un risoluzione consolatrice. Illusione: quella calma può essere anche il silenzio finale. E’ questa l’ambiguità, in cui niente è stabile, niente è definito, e tutto sembra destinato inesorabilmente a scomparire.  Non a caso Schubert è attratto da ritmi ossessivi, ripetuti, di marcia o di danza, che conferiscono all’andamento musicale un carattere d’ineluttabilità. Tanto più miracolosa appare l’interpretazione di Ciammarughi, quanto più modeste erano le risorse del pianoforte (un quarto di coda!) a disposizione. Ma la sensibilità del tocco, la libertà del fraseggiare sono riusciti a superare l’insufficienza dello strumento, tra l’altro nemmeno perfettamente accordato. Queste brevi note per additare un musicista che meriterebbe maggiore attenzione da parte delle istituzioni musicali italiane, e di conseguenza anche dalla critica.

Fiano Romano, 17 dicembre 2016

lunedì 12 dicembre 2016

Massimiliano Felli, La carrozza di Priapo



Massimiliano Felli, La carrozza di Priapo, Napoli, Stamperia del Valentino, 2016, pp. 238, € 16,00
Ciò che attira subito l’attenzione del lettore è la lingua. Un italiano sapientemente letterario, rielaborato da bocca napoletana, modellato comunque sulla lingua parlata. Non è, però, l’italiano letterario corrente, quella lingua media buona per tutti gli usi, e che nessuno parla, ma non è nemmeno un italiano vernacolizzato, e sia pure in modo inventivo, come potrebbe essere, in parte, quello di Camilleri. Se mai, si avvicina alla lingua di Gadda, e non solo del Pasticciaccio. Ma non in senso plurilinguistico, quanto invece monolinguistico o, più precisamente, una lingua parlata e scritta di una stessa area geografica. Si potrebbe pensare, allora, al Gadda dell’Adalgisa.  Alla lontana vi si potrebbe intravedere, anche, l’operazione di Verga che trasferisce nell’italiano letterario il calco del parlare siciliano. Ma non è così. Si potrebbe perfino individuare, alla lontana, un influsso di Brancati, del Bell’Antonio (comune, il tema dell’impotenza virile), ma soprattutto del Don Giovanni in Sicilia, o addirittura del giovanile Gli anni perduti. Ma cercare modelli, influssi, calchi più o meno illustri in un romanzo d’oggi è operazione sterile. Ho evitato apposta di citare scrittori napoletani. Tra l’altro, non è detto che lo scrittore ne possa essere consapevole. Certi comportamenti letterari si respirano nell’aria, restano sedimentati nella tradizione. Le affinità non mancano mai, a volerle cercare, ma più evidenti, però, risaltano sempre le differenze. Tanto più, poi, che Massimiliano Felli si misura con una sorta di personalissima e originale reinvenzione del genere poliziesco.  Anche qui, come si potrebbe definire poliziesco Delitto e castigo o I delitti della rue Morgue. Faccio, comunque, riguardo alla lingua, due esempi.
“Lasciò tutto e prese dalla credenza una caccavella coperta da uno straccio. piena a metà di pasta spezzata con i fagioli. La apparecchiò davanti a Cafasso e ci piantò nel mezzo un cucchiaio. Se il cucchiaio non rimane dritto, la potete pure buttare. Bella densa densa, dev’essere!” (pag. 161).
Non è solo l’introduzione di termini della parlata napoletana, come “caccavella”, pentola, scodella, il termine però può essere usato anche in senso traslato per pentola vecchia, vecchio marchingegno scadente, “quella nave è una caccavella”. Tuttavia la naturalezza con cui il termine s’inserisce nell’andamento della frase, la cui costruzione è inconfondibilmente napoletana, compreso il passaggio dal discorso indiretto al discorso diretto: “Se il cucchiaio non rimane dritto, la potete pure buttare”, dimostra l’estrema abilità dello scrittore nello scivolare attraverso più piani stilistici, facendoli apparire uno solo. O quest’altro passo, qualche pagina prima:
“Ma eccola lì, ne rise il Commissario, nessuno avrebbe potuto cadere nell’equivoco vedendola sbracciarsi dalla finestra come una vajassa che si sporga per ritirare su il canestrello, bello riempito dal casadduoglio abbasso al puntone del vico. Il naso un poco schiacciato e largo, gli occhi piccoli e ravvicinati, il mento pingue, anzi i menti: due” (pag. 156).
Anche qui, non è solo l’introduzione di termini della parlata locale, vajassa, alla lettera serva, ma anche donna volgare, di bassa estrazione, e “casadduoglio”, salumaio, dall’inglese “cheese and oil”, napoletanizzato (cheese, cacio, caso, e oil, uoglio), alla stessa maniera del termine “zantraglia”, sinonimo e peggiorativo di vajassa, dal francese “les entrailles”, le interiora, che le donnette di Napoli dicevano “zantraglie” : mandate dai mariti, dai padri, dai fratelli, all’epoca di Murat, sotto le finestre del Palazzo Reale, in occasione di una festa, queste “donnette” lo gridavano in alto alle finestre di sopra, per farsi gettare giù le interiora di maiali, buoi, agnelli e della selvaggina eviscerata del banchetto: “Le zantraglie, le zantraglie”. I francesismi napoletani, soprattutto culinari, sono una legione, eredità antica degli Angioini (le testimonia già il Boccaccio, che anzi ci regala un primo esperimento di parlata napoletana) e poi, tra la fine del Settecento e l’Ottocento,  durante il dominio napoleonico, e postnapoleonico, di Gioacchino Murat. Per esempio “sartù”, etimo incerto, il ricchissimo, e buonissimo timballo di riso, ripieno di carne e affogato nel sugo di un elaboratissimo “ragù” (altro francesismo, ragoût)), che non ha niente a che spartire con quello bolognese, oggi più conosciuto in Italia e nel mondo. Tornando al romanzo di Felli, anche in questa frase, però, non sono solo i termini della parlata napoletana a caratterizzare l’andamento del discorso, ma per esempio anche l’uso dell’ausiliare avere invece di essere associato al verbo cadere, che in italiano vorrebbe invece l’ausiliare essere. E così, quasi sempre nel corso del racconto, il verbo “tenere” sostituisce il verbo avere, come sempre accade in napoletano quando ci si riferisce a un possesso: tengo famiglia. Ma Felli compie il miracolo, come si è detto, di non vernacolizzare la sua prosa. La patina napoletana della sua lingua non è ricerca di colore locale, bensì artificio stilistico che ricostruisce una geografia storica. Non solo quella è la lingua che si parla ancora oggi a Napoli, ma lo era ancora di più prima dell’Unità d’Italia. Introduco, a esemplificazione, due ricordi autobiografici. Mio padre era napoletano. Ma per parte di madre la mia famiglia è veneziana. Altri parenti erano di Parma. Questo ha significato che fin da bambino ho acquistato familiarità con diverse parlate italiane. Una parte dell’infanzia e dell’adolescenza, poi, l’ho trascorsa in Argentina. E l’esperienza di un’altra lingua, lo spagnolo, diventata poi una sorta di seconda lingua madre, ha disposto la mia mente al plurilinguismo. Come diceva un poeta latino, in ogni lingua c’è un’anima e dunque chi conosce più lingue possiede più anime. E’ verissimo! Non riesco, infatti, oggi più a leggere, che so, Baudelaire o Borges ,in una lingua che non sia quella in cui hanno scritto. Ebbene, ricordo che quando andavamo in Veneto, a trovare amici o parenti, mio padre mi chiedeva di fare da interprete, se accadeva di dover parlare con la gente del luogo, perché mio padre non li capiva.  Un’altra volta, invece, ero andato con un amico in un ristorante allora assai noto di Napoli, e nella tavola accanto una signora con pretese di apparire chic, ma con accento napoletano smaccato, sedeva a tavola con ospiti americani, e parlavano ora in italiano ora in inglese. La donna, però, a un certo punto, quando il cameriere portò un vassoio di fritti, se ne uscì: “Questi qua a Napoli li chiamano supplì, ma il loro vero nome in italiano è cròket!” L’accento, indietro, sulla o, come piazza “Càvur”. Facile ironizzare. Ma è quello che invece uno scrittore non fa. Adotta la parlata come materiale grezzo sul quale rielaborare il proprio stile. Non che non possa ironizzare. Ma non fa ironia sullo sbaglio o sulla bizzarria linguistici, se mai fa ironia sulla pretesa sociale di chi parla, se il personaggio non è uno del popolo, o sui tic del soggetto popolare che parla. Ecco, ciò che attrae subito il lettore della prosa di Felli è proprio questa rielaborazione stilistica di una parlata viva. Che non è un calco, l’imitazione, il che farebbe appunto uno scrittore macchiettistico, vernacolare, ma la rielaborazione artificiosa di una parlata, talmente artificiosa da farla diventare una nuova lingua, che però ha tutta la naturalezza della lingua viva. Nello scrivere non c’è via di mezzo. L’altra via, infatti, sarebbe stata di usare, pari pari, la lingua locale. E il napoletano ha una ricchissima letteratura, che sarebbe sbagliato chiamare dialettale, perché si tratta di una vera e propria lingua letteraria. Un esempio nobile di questa lingua è quella parlata e cantata nell’opera buffa del Settecento. Discorso analogo va fatto per la lingua di Venezia o di Milano. Ma il romanzo di Felli si svolge a Napoli, e dunque a essere rielaborata è la lingua che si parla a Napoli, dai napoletani che non vogliono parlare la lingua dei “bassi”. E siamo così venuti ad altri termini napoletani della frase: “abbasso dal puntone del vico”. Vico è il vicolo, ma insieme non lo è, è la stradina dei Quartieri Spagnoli o di Spaccanapoli. Abbasso è giù, puntone è l’angolo. E tutta la frase significa più o meno:  “tutto riempito dal salumaio giù in fondo al vicolo”. Ma la differenza espressiva, tra il parlato e la sua traduzione in italiano, è abissale: nella scrittura originale la frase rappresenta dal vivo una scena, esplicitata nell’italiano comune non rappresenta niente, spiega soltanto il senso di un’azione. Felli, però, non rifugge nemmeno dal citare di peso la lingua locale, se serve a chiarire lo spessore di un gesto, di un personaggio. Ma inserisce la lingua locale in una lingua a più livelli, dall’alto in basso, in modo che proprio l’accostamento del livello alto con quello basso faccia scattare l’evidenza particolare del gesto.
“Trovato, finalmente! Don Luigi bofonchiava formule incomprensibili e brandiva l’amuleto che stava cercando: un cazzillo di bronzo, antico – un altro reperto pompeiano, intuì Cafasso, mezzo basito e mezzo divertito, paonazzo per la risata repressa – “Perdonatemi”, diceva il Principe, che intanto si strusciava il cazzillo sul petto, sulle spalle, “devo assentarmi ... Io te sciopero ra capa a pere / Chi t’ha fatt’ male, te pozz’ fa’ bbene ... scusate ... Torno subito ... Uocchie, contruocchie, mittancell’all’uocchio ... Torno subito ... “ (pag. 82).
Il dialetto, o meglio la parlata bassa, anche se è un principe a parlare, definisce il personaggio. Si parla di una iettatrice, una Janara. E il principe è superstizioso. Il solo nominarla gli scatena una paura primordiale, irrefrenabile e smoccola tutti gli scongiuri del caso. Non diversamente dall’ultimo facchino del porto. Anzi, quella lingua – e quella superstizione – lega l’aristocrazia alla plebe, le accomuna in un’unica identità culturale. E’ il borghese, se mai, e ancora di più il piccolo borghese, che ama distinguersi, staccarsi dalla plebe, proclamare il proprio rango elevato, evitando di parlare in “dialetto”. Ma il nobiluomo, la nobildonna, parlano la stessa lingua del carrettiere, dello stalliere. In un bello spettacolo di Roberto De Simone, L’opera buffa del giovedì santo, parla a un certo punto Luigia Sanfelice, che racconta la Rivoluzione del 1799, e la nobildonna grida che ha vinto la borghesia contro i privilegi della nobiltà. Un plebeo (Peppe Barra, sublime!) la guarda esterrefatto ed esclama: “Qua nun ce stanno borghesi. Simm’ solo nobbili e pezzenti”.  Nella Dolce Vita di Fellini, la notte della festa nobiliare, questo aspetto del parlare popolare dei nobili è ben rappresentato.  Napoli, Roma, ma anche Venezia, Milano, Torino, il fenomeno è sempre lo stesso. Sembra che entrando a Roma, il 20 febbraio 1870, Vittorio Emanuele II, abbia esclamato, in piemontese: “I suma e i resteruma”. Ci siamo e ci resteremo. Il Conte Vittorio Alfieri, irritato dalle critiche del tempo contro la durezza della sua lingua teatrale, si sfoga con due velenosissimi sonetti in dialetto astigiano. L’efficacia del brano di Felli citato sopra sta proprio in quest’abile mescolamento di livelli linguistici. E’ un entrare e un uscire dal personaggio, la lingua narrativa, già omologata al parlare “alto” dei napoletani, lo guarda da fuori – con gli occhi del Commissario Cafasso -, la lingua nella quale esplode la paura irrazionale del principe è la lingua del suo inconscio, dei suoi avi, della plebe con la quale condivide quelle irrefrenabili paure. Ma poi la lingua del romanzo tocca anche altri livelli, più alti, o più pensosi. Come il bellissimo attacco del capitolo 8:
“L’apparato funebre fu sfarzoso come non se ne vedevano da tempo. Il sagrato del Duomo era talmente ingombro di corone da non poter quasi riuscire a entrare in chiese, e a momenti sarebbe giunto il corteo: come il brontolio di tuoni lontani previene al navigante una tempesta all’orizzonte, così lo stormire di preci sussurrate da una folla unisona annunciava l’arrivo della processione” (pag. 169).
 Si pensa addirittura a un passo famoso del Purgatorio – era già l’ora che volge il disio / e ai naviganti intenerisce ‘l cuore – ma l’atmosfera è tutta un’altra. Per niente malinconica, o nostalgica. Ma cupa.,un’esibizione trionfale del lutto. Com’è tradizione di Napoli. Ed è anche paradossalmente comica. Si cominciano a individuare le debolezze di una grandezza principesca più vantata che reale. Ma non si può dire di più, pena lo svelamento della soluzione del poliziesco, la rivelazione dell’assassino, anzi degli assassini. Perché poi tutta la storia è un’investigazione – scrupolosissima – del Commissario Aniello Cafasso,  che riesce a farsi amico perfino Alexandre Dumas, visitatore segreto del Regno e ospite del Principe don Luigi del Dentice dei Pesci. Ma “carbonaro” e dunque passibile d’incarceramento. La morte di due donne, una lavandaia e una Marchesa, moglie del Principe, è il motore di tutta la vicenda. Da Torre Annunziata a Spaccanapoli, ai Quartieri Spagnoli, alla Vicaria, la vita della Napoli ottocentesca sotto i Borboni è narrata con incredibile naturalezza. Indimenticabile Nelly, la maîtresse del bordello, la “vajassa” citata sopra. Compare solo due volte, ma resta impressa nella memoria del lettore. E c’è pure un prezioso cameo. Man mano che leggevo, mi chiedevo, ma questi sono gli anni in cui a Napoli vive anche Leopardi. Possibile che il Commissario, goloso come lui, di sorbetti, non lo incontri mai? E invece, verso la fine, lo incontra. Ed è una pagina mirabile. Andrebbe citata tutta. Ne cito l’attacco, qualche passo mediano, e una riflessione che sintetizza acutamente il pensiero del poeta.
“Lo scartellato, per esempio. Stava seduto due tavoli più avanti. Che meraviglioso oggetto di studio!
“Ogni volta che andava, a quel gobbetto se lo ritrovava là. Si vede che frequentava assiduamente il Due Sicilie, né c’era da stupirsene, data la sua ghiottoneria. Come al solito, aveva davanti a sé due coppe di sorbetto alte così, di due gusti diversi, mai gli stessi. Piluccava di qua e di là, di qua e di là. ...
“Indossava  un soprabito turchino, liso, e portava calze rattoppate. In compenso aveva un bel fazzoletto al collo: memore di una ricchezza ormai trascorsa? O una tale trascuratezza nel vestire – forse di questo si trattava, più che di reale indigenza – era il segno di un’indole inquieta, ribelle, o magari dell’ascetismo tipico di certi artisti moderni? ...
Gli altri avventori lo salutavano ed egli rispondeva sempre cordialmente, con il sorriso di chi conosce tanto a fondo gli uomini da essere giunto dapprima a disprezzarli per le loro manchevolezze, per l’inadeguatezza al ruolo di somma responsabilità affidato loro dall’Eterno, poi, per quella stessa inadeguatezza e quelle stesse manchevolezze, a compiangerli, e quasi a giustificarli. (pagg, 196-98)
Con finta inavvertenza qualcuno gli tocca la gobba. Leopardi non si scompone. Anzi dà i numeri da giocare al lotto. Li gioca anche il Commissario Cafasso. Ma perde.
In quel gioco sembra racchiudersi anche il gioco della vita che chi più chi meno tutti perdono. Si trovano gli assassini, ma nessuno restituisce la vita alle povere donne ammazzate. Sembra questa l’amara riflessione finale del romanzo. O almeno le riflessioni  suggerite nelle “Noterelle in appendice”, compreso il poemetto, o la poesia, I nuovi credenti, che Leopardi scrive rivolgendosi all’amico Antonio Ranieri, come in un’epistola, e che Felli, giustamente, cita per intero. La verità, una volta svelata, fa male. Ma il non saperla, fa stare meglio? Fa condannare qualche innocente, ammazza, per egoismo, per puntiglio, per vanagloria una donna. Davvero è questo il migliore dei mondi possibili, dove si ammazza perché non si sa o non si vuole fare sapere?

Fiano Romano, 12 dicembre 2016


giovedì 8 dicembre 2016

Amélie de Bourbon Parme, Le secret de l’empereur



Amélie de Bourbon Parme, Le secret de l’empereur, Paris, Gallimard, 2015, pp. 320, € 20 (in Francia).

Amélie de Bourbon Parme discende in linea diretta dall’Imperatore Carlo V d’Asburgo e dai Capeto di Francia. Ho acquistato il suo romanzo per caso. Nemmeno ne conoscevo l’esistenza. Né della scrittrice né del romanzo. Per curiosità. Ho sbirciato il libro in uno scaffale del settore francese della libreria Feltrinelli di Via Orlando a Roma. Vediamo che cosa scrive questa nobildonna, mi sono detto. E se hanno pubblicato il libro appunto solo perché l’ha scritto una Borbone Parma. Gallimard, poi, forse la casa editrice più importante di Francia. Nel risvolto di copertina ho scoperto che Le secret de l’empereur è il suo secondo romanzo. Il primo, del 2003, s’intitola Le sacre del Louis XVII. Sempre per Gallimard.  E sempre una questione familiare che la riguarda. Come se volesse scavare nell’inconscio della propria ascendenza, per chiarire il dominio del proprio (come è stato scritto su “Le Monde”). Nella rete si trovano, inoltre, parecchi pettegolezzi sulla sua figura. Pasto goloso di Paris Match. Ha sposato Igor Bogdanoff, divulgatore scientifico assai noto ai francesi attraverso la televisione. Ma subito dopo le prime righe mi sono reso conto che nobiltà e pettegolezzi non c’entra per niente con la sua scrittura. O meglio: essere una Borbone Parma l’aiuta a comprendere i meccanismi della vita nobiliare dei tempi passati. Ma niente di più. Come la vasta rete di relazioni della famiglia Proust ha aiutato Marcel a raccontare l’alta società della Francia tra Otto e Novecento.  Il confronto non è casuale. Niente tra Proust e lei di comune, e tanto meno lo stile. Ma sì l’indagine sui segreti degli impulsi che spingono a vivere una vita invece che un’altra. Il segreto indagato in questo bellissimo romanzo è quello che avvolge la decisione di Carlo V di abdicare, per cedere l’Impero al fratello Ferdinando e il Regno di Spagna al figlio Filippo.  Le ultime righe del romanzo sono rivelatrici del senso che la storia ha per la scrittrice. Dodici anni dopo la morte del padre, Filippo va nel Monastero di Yuste, nell’Estremadura, dove l’Imperatore si era ritirato, dopo l’abdicazione. Ci va per liquidare quanto resta di suo padre, ch’era stato il monarca più potente del mondo.  Entra nel laboratorio degli orologi, dove Carlo V custodiva la sua preziosa e amatissima collezione. « Il n’avait jamais compris l’intérêt de son père pour de tels objets. Et cette incompréhension était un motif d’éloignement supplémentaire entre eux ».  « Tels objets » sono gli orologi. Carlo V ne collezionava, infatti, di tutti i tipi, di ogni epoca e di tutte le parti del mondo. Intorno a questi orologi si sviluppa la narrazione del romanzo, e in particolare intorno a uno in particolare, una pendola tutta nera, con rilievi di bronzo. Era stato fabbricato, sembra, da un misterioso orologiaio di Cordova, che Carlo V cerca invano d’incontrare. Sul suo quadrante è raffigurato il sistema solare, per calcolare i movimenti degli astri e dei pianeti. Ma con una particolarità che l’Imperatore non riesce a cogliere e che gli si rivelerà solo in punto di morte: il sistema dei pianeti e dei loro movimenti ellittici non ruota intorno alla Terra, bensì intorno al Sole. Perciò l’Inquisitore di Siviglia ne diffidava e anzi vuole indagare sugli stessi interessi dell’Imperatore per un simile oggetto, ma Carlo V abilmente se ne svincola, e lo elude. Poche righe dopo quelle citate sopra, Filippo, che è rimasto quasi inorridito per quella strana collezione, ha un moto di ripulsa.  « Il n’avait pas lieu de conserver cette relique sans valeur, dernier  témoin des obsessions inutiles de son père ». Ordina, perciò, di regalare gli orologi a chi li vorrà o di buttarli via. « Il quitta le monastère de Yuste chargé de quelques objets, avec toujours au creux de son front ce pli de contrariété impossible à effacer ».  Ma proprio quell’inutile ossessione aveva spinto, invece, Carlo V ad abdicare. Interrogare la propria collezione di orologi per investigare il segreto del tempo. E qui fa capolino un’ossessione costante della letteratura francese, non solo di Proust, se si pensa alla Ballade des dames du temps jadis di Villon:  « mais où sont les neiges d’antan? ». L’ossessione di carpire il segreto del tempo.  Arriva Carlo V ad afferrarne il segreto? No si sa. Nell’orologio nero paiono nascosti i peccati della Chiesa: la cupidigia e la venalità dei suoi preti. Nel suo incomprensibile quadrante s’intravedeva anche l’origine dello scisma luterano, e lo si vedeva posato sulla scrivania del laboratorio dell’Imperatore. Nell’agonia Carlo V crederà d’intravedere l’ombra furtiva dell’orologiaio di Cordova e d’indovinare quel segreto,  di vedere la mano dell’orologiaio misterioso regolare le lancette dell’orologio. Ma non sappiamo se la visione sia frutto del suo delirio terminale o se veramente qualcuno gli rivela, spostando le lancette sul quadrante, il funzionamento del meccanismo che regola l’orologio e misura il movimento dell’universo. La prosa del romanzo è fluida, scorrevole, ma anche densa, pensosa, piena d’immagini ora fantastiche e più spesso concrete, quasi da toccarsi con le mani. Il paesaggio della brumosa Bruxelles all’inizio, e poi della desertica Estremadura dove si ritira l’Imperatore,  ha un peso decisivo nello sviluppo della narrazione. Come l’arrivo della nave nel porto di Laredo, magistrale. Piove e sul molo non c’è nessuno ad attendere l’Imperatore. La solitudine del monarca si proietta nel paesaggio. E si materializza, alla fine, nella ruga di disappunto che deturpa la faccia di Filippo. I personaggi escono dalla pagina come dallo schermo di un cinema. Fissati da un gesto, dal disegno di una figura. Non è solo la ricostruzione di un’epoca, ma la riflessione sull’oggi nato da quell’epoca, un oggi scosso dagli stessi conflitti, reso instabile dalle stesse incomprensioni tra i potenti della terra (come il rapporto tra Carlo V e Francesco I di Francia, il ritratto del re francese appeso nella camera dell’Imperatore, anche nello spartano ritiro di Yuste) e reso tragico dalla incolmabile distanza che rende insanabile il contrasto tra potenti e gente comune. E dalla stessa diffidenza di potenti e di umili, per diversi e spesso opposti motivi, verso chiunque voglia conoscere la realtà delle cose, fosse anche costui l’uomo più potente del mondo, ma impotente a sconfiggere la superstizione, l’ignoranza che generano quella diffidenza. Meglio l’ideologia. Meglio la religione. Per le Chiese, ma anche per i popoli. Non è vero che i potenti detengano le chiavi della storia. Ma non la detiene nemmeno nessun popolo. Anzi, meno che mai i popoli del mondo, sempre oggetto, e mai soggetto della storia. O almeno così sembra pensare, agonizzando, l’Imperatore. Carlo, infatti, muore senza avere riappacificato il mondo. Il ritratto di Francesco I sta lì, di fronte al letto dell’agonia, a dimostrarglielo. Suo figlio, poi, sembra di un’altra stirpe, di un’altra epoca, di un altro mondo. Filippo, in effetti, nonché pacificare, esaspererà anzi, dalla sua piccola Spagna, piccola nonostante l’Impero delle Indie Occidentali, i conflitti del mondo. E noi? Noi sembriamo eredi di quell’esasperazione.  Il romanzo si legge d’un fiato. E la lettura assomiglia a un viaggio nel tempo, senza per questo riuscire a strappare il segreto che c’imprigiona dentro il tempo. Uscirne, potrebbe essere la risposta. Ma nessuno rientra per raccontarlo.

Fiano Romano, 8 dicembre 2016