martedì 18 dicembre 2018

Giorgio Minotti, Per Emilia. Casa Chopin e la vocazione per la bellezza

 

Leggo il romanzo con ritardo. E’ uscito tre anni fa.

E’ sempre una scommessa immaginarci come siano andate le cose tra persone realmente esistite. Ma non ultimo compito della scrittura è proprio anche inventare l’indimostrabile, fantasticare sul possibile. E questo fa, in Per Emilia, Giorgio Minotti. Il titolo ricorda, forse non a caso, una famosa bagatella di Beethoven: Per Elisa. Come la bagatella beethoveniana, il notturno chopiniano non è tra le pagine che il compositore avesse previsto di pubblicare. Minotti immagina e racconta, per spiegare la nascita del notturno, quale fosse la vita familiare tra le mura della casa in cui viveva la famiglia di Chopin a Varsavia. Restituisce molto bene il clima insieme tipicamente polacco, cattolico, di una famiglia borghese nella Varsavia del primo Ottocento, e la passionalità estroversa, romantica con allora si manifestavano i sentimenti. Ricorda, in qualche modo, il bel film di Rohmer La marchesa von O., dal racconto di Kleist. Come nel film, la gestualità, il linguaggio, sono romantici.

E’ attraverso questo filtro, romantico, che vanno lette anche le confessioni delle due ragazze, le sorelle di un genio molto particolare come era certamente Chopin. E penso che vada letta anche in questa luce l’idea che l’arte, e in particolare la musica, e soprattutto la musica di Chopin, sia, come suggerisce il titolo del romanzo, una perenne, inarrestabile ricerca della bellezza.

Perché altrimenti proprio su questo punto si potrebbe dissentire. Nelle Lezioni di Estetica, Hegel, infatti, e dunque nei primi decenni dell’Ottocento, gli anni della formazione musicale ed estetica di Chopin, mette in guardia dall’identificare l’arte con la bellezza, e addirittura nega che esista una bellezza della Natura. Il sole che sorge e tramonta è solo un fenomeno naturale legato alla rotazione terrestre. Che noi possiamo ammirare la bellezza di un’alba o di un tramonto, è solo un’impressione dei nostri sensi, coltivata dalla nostra cultura. E’ l’occhio umano che fa bello un tramonto. Il fenomeno in sé, per Hegel, come per il nostro Leopardi, che scrive cose simili, è “indifferente”.

Il culto della bellezza faceva però parte della sensibilità romantica, e dunque si adatta bene ai personaggi di qeusto romanzo. Tanto più che l’autore ne scrive con ironia. L’assunto del romanzo è semplice: suppone che il Notturno in mi minore, di cui non ci è arrivato il manoscritto, pubblicato postumo da Fontana come op. 72 n.1, sia stato improvvisato da uno Chopin diciassettenne alla morte della sorella Emilia, non ancora quindicenne. Chopin era un compositore già maturo a 15 anni, quegli incredibili capolavori che sono gli Studi op. 10 furono composti quando Chopin aveva 18 anni. La sorella Ludwika gli chiede di dettarle il Notturno, Chopin recalcitra, ma poi, sotto giuramento di non rivelarlo a nessuno, glielo detta e lei lo trascrive.

Il romanzo è un lungo racconto di Ludwika, che intravede nel Notturno non solo il dolore per il distacco dalla sorella Emilia, ma il segno di una crisi, della perdita della fede e di una visione della vita priva di speranza. Ciò fa disperare le sue sorelle e sua madre Justyna. Ma è molto probabile che fosse così: la Sonata in si bemolle minore, con la terribile Marcia Funebre, e lo sconvolgente, gelido finale, sembra confessare un visione nichilistica della vita, e dunque riconoscere nella morte l’annientamento totale, lo sprofondamento nel nulla. La famiglia Chopin non poteva accettarlo.

Come, da parte della madre, non è accettato il rapporto del figlio con la scrittrice George Sand, la “strega”, una donna più vecchia di lui, quasi un’orrida rivale materna. Le sorelle, invece, la difendono: sanno che la vita del fratello segue altri binari, altri stili di vita, non più borghesi, nella società libera e snob, spudoratamente antiborghese, della Parigi di Luigi Filippo. Chopin avrebbe chiesto alla sorella di non rivelare a nessuno il segreto del notturno. E a sua madre, che anche lei ne aveva una copia. Ma Ludwika ritiene di poter tradire il proprio giuramento, con la giustificazione che l’umanità non può essere privata di un simile capolavoro di “bellezza”.

Il romanzo è tutto un dialogo tra le due sorelle, Ludwika e Izabela, e tra le due sorelle e la madre, raccontato da Ludwika in una lettera alla figlia Ludka da leggere dopo la propria morte. Si legge d’un fiato ed è bene ricreata l’atmosfera sentimentale dell’epoca. Dietro l’educazione, il riserbo delle sorelle – più sfacciata è la madre – si cela però un’irrequietezza e un coinvolgimento emotivo che fanno immaginare il clima acceso e appassionato dentro il quale crebbe il giovanissimo Chopin.

Giorgio Minotti, Per Emilia, Casa Chopin e la vocazione per la bellezza. Il mistero del Notturno op. 72, Varese, Zecchini Editore, 2015, pp.156, € 17,00

domenica 16 dicembre 2018

Maurizio Baglini Project







«Il mio obiettivo» - commenta Maurizio Baglini - «è creare un nuovo punto di riferimento musicale a Roma, dove si possano ascoltare programmi freschi e originali, senza barriere tra i generi. Questa prima edizione accosta Mendelssohn a Gershwin e propone grandi autori del nostro tempo come Azio Corghi e Sofia Gubaidulina. Per quanto riguarda gli interpreti, ho coinvolto colleghi non solo di chiara fama, ma anche disponibili a creare insieme qualcosa di nuovo: vorrei che Villa Torlonia diventasse una sorta di Wigmore Hall romana»

Il pianista pisano sta parlando del suo Maurizio Baglini Project, al Teatro di Villa Torlonia di Roma per la stagione da camera di Roma Tre Orchestra, in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tre e con il Teatro di Roma. Sono andato alla penultima serata, sabato 15 dicembre.

Ho scritto tante volte che l’arte è sempre arte contemporanea. Anche quando si legge Omero o si guarda un vaso greco. La filologia, l’archeologia, lo studio delle condizioni storiche, anziché allontanare questa contemporaneità, distrarre da essa, la esaltano, la intensificano. L’incontro notturno tra Ettore e Andromaca non vuole essere una condanna della guerra – Omero è pur sempre il poeta di un’aristocrazia guerriera – ma nemmeno ne costituisce un elogio incondizionato. L’Iliade, della guerra ci mostra sia l’eroismo cavalleresco che la ferocia omicida.

La seduzione di un adolescente che certi vasi greci ci mostrano spudoratamente, l’adulto che solletica il sesso del ragazzo, non è né elogio né condanna, ma rappresentazione di una reciproca disponibilità. Siamo, però, sicuri che la nostra società attuale non conosca né la violenza di una guerra né l’attrazione tra un uomo e un ragazzo, al di fuori o indipendentemente dal giudizio morale che se ne possa dare?

L’arte rappresenta, racconta, non giudica. La musica non fa eccezione. Tra l’altro la musica è un’arte asemantica: i significati sono suggeriti da convenzioni retoriche, che cambiano di epoca in epoca, non dalla corrispondenza tra suoni e parole. Tanto meno, comunque, fa eccezione, quando è la musica di un compositore del nuovo, di un musicista avverso a ogni muffa passatista (ma non alla tradizione!), come Schumann. Il Carnaval (e mi raccomando: dire Carnavàl, non Càrnaval) op. 9 si chiude con la marcia degli associati di David (Davidsbündler) contro i Filistei. Chi sono i Filistei, per Schumann? I tradizionalisti, i nostalgici del passato, coloro che ipostatizzano la perfezione in qualcosa che c’è già stato e sono pertanto nemici del nuovo. dell’inesplorato, coloro, cioè, che vogliono, dall’arte – ma anche dalla politica – sempre e solo, la conferma del confermato. Contro costoro marciano gli associati di David, i nuovi artisti, coloro che cercano in tutto, sempre, il nuovo, che anzi vedono il nuovo anche nei grandi del passato, per esempio in Bach, sperimentatore infaticabile della costruzione musicale. Baglini ha chiesto ad Andrea L’Abbate, esperto di figurazione digitale, di costruire immagini che potessero associarsi alle musiche del Carnaval. E le fa proiettare su uno schermo mentre lui suona. Qualche ascoltatore potrebbe sentirsene distratto, ma qualcun altro invece stimolato a riconoscere combinazioni nuove di idee. Tanto più poi che sulla tastiera Baglini ci offre una lettura insieme scrupolosa e modernissima della folgorante partitura. Disturbava un po’ il rumore del proiettore. Ma l’efficacia dell’interpretazione di Baglini sta nell’evidenza con cui si muovono e si percepiscono le varie voci del contrappunto, il senso costruttivo dei processi armonici, il gioco variegato dei timbri pianistici, la differenziazione dei modi d’attacco, la mutevolezza dunque del tocco. 




Ed ecco, subito dopo, il confronto con l’oggi, due partiture di Giancarlo Simonacci fresche d’inchiostro: Sette variazioni su una melodia popolare per pianoforte e Lucide onde per clarinetto in si bemolle e archi. Le variazioni sono un percorso dall’evidenza cantabile del canto popolare ricuperato all’elaborazione via via più astratta della sua conformazione ritmica, melodica, armonica. Si potrebbe dire dalla comprensibilità tonale all’astrazione seriale, sulla quale aleggia, tristissima, l’ombra di Webern. Pezzo bellissimo e di presa emotiva immediata. Alla faccia di chi ancora si ostina a rimproverare a certa Nuova Musica un distacco dall’ascolto dei più. Come se poi il numero di ascoltatori garantisse la qualità di una partitura. Uno non è uguale a uno in nessuna democrazia e tanto meno nell’arte. Non bisogna confondere la validità di una musica con la sua ricezione. Altrimenti Allevi sarebbe Mozart (lui se lo dice da sé) e Rihm un imbrattapentagrammi. Il successivo brano per clarinetto è affascinante. Abilissimo e duttilissimo Luca Cipriano nel sondare gli effetti espressivi, meravigliosi sul clarinetto, ottenuti saltando da un registro all’altro. Il sostegno ondivago degli archi fascia il lamento del clarinetto con un amplesso di irresistibile dolcezza.

Per il brano finale torna sul palcoscenico Maurizio Baglini e c’è al completo la Roma Tre Orchestra diretta da Fabio Sperandio. Ed è un brano mozzafiato di Frédéric Chopin. Nientemeno che le Variazioni op. 2 su “Là ci darem la mano” dal Don Giovanni di Mozart, la pagine che fece esclamare a Schumann: Giù il cappello! Ecco un genio. Titolo di una recensione che coglieva, da subito, l’essenza della musica di Chopin. Ed entrambi, sia Chopin sia Schumann, non avevano allora che 18 anni! Ma aveva ragione Schumann. La partitura è davvero sbalorditiva. Chopin, forse perché anche lui demoniaco, coglie perfettamente il lato demoniaco della musica di Mozart. Altro che seduzione di una ragazza. Qui è in gioco il senso dell’esistenza umana. Già qui, in un’op.2! Nella variazione lenta i minacciosi rulli di timpano sembrano sprofondare l’ascoltatore in zone segrete della mente. E poi c’è ancora chi dice, e scrive, che Chopin non sa scrivere per orchestra! Aveva ragione Brahms: l’orchestra non lo interessa come il pianoforte, e spesso si contenta di una scrittura convenzionale. Ma poi ci sono intuizioni di una modernità sconvolgente. Lo squillo dei corni nel finale del secondo concerto, il tremolo degli archi che sostene la melodia di ottave parallele del pianoforte nel Larghetto del primo concerto: Brahms lo citò nel suo secondo concerto per pianoforte. Ma qui, in queste variazioni, fin dalla prima variazione, con la furia delle dita sulla tastiera, Chopin ci sbalordisce non per il virtuosismo che chiede al pianista (anche!), ma per la febbre che comunica all’ascoltatore. Un trionfo, meritatissimo, accoglie alla fine, con ripetute chiamate, tutti gli interpreti.

Maurizio Baglini Project
Teatro di Villa Torlonia – Roma
dal 13 al 16 dicembre, l’articolo si riferisce al concerto del 15 dicembre
Con il contributo della Regione Lazio, Laboratorio di linguaggio musicale 2018
Agli altri concerti hanno parteipato il pianista Roberto Prosseda e la violoncellista Silvia Chiesa

mercoledì 28 novembre 2018

L'adagio cantabile della sinfonia n. 68 di Haydn

Haydn, Sinfonia n. 68 in si bemolle maggiore, III movimento, Adagio cantabile.

(Riflessioni al modo di conversazione su un’incisione haydniana di Nikolaus Hanoncourt: HAYDN, Symphonies 68, 93-104. Warner Classics, 256463061-2, 5 cd)

Pagina di costruzione magistrale, questo adagio cantabile. Un’esemplificazione, se ve ne fosse ancora bisogno, di quanto la concezione tematica di Haydn fosse complessa, come poi quella di Mozart e di Beethoven: i classici, per così dire. E tuttavia in qualche modo vi andrebbero compresi, sotto molti aspetti, senz’altro Schubert, ma anche perfino i “romantici” Chopin, e Schumann e Brahms. Siamo abituati, infatti, a distinguere un tema dal suo profilo melodico. Ma questo è vero, e solo in parte vero, solo a cominciare dai compositori romantici. Nel tardo Settecento e nel primo Ottocento il tema si definisce attraverso molti e diversi elementi, o fattori, che concorrono, insieme, a caratterizzare l’impostazione di un brano. Il profilo melodico è solo uno di questi elementi. Vi contribuiscono, con non minore importanza, la scansione ritmica, l’ambito armonico, la dinamica. Un tema “classico” può, anzi, perfino mancare di un vero e proprio profilo melodico, almeno nel senso con cui s’intende in genere la configurazione di una melodia, e può limitarsi pertanto alla pura scansione dell’accordo: ciò accade, per esempio, nella Sonata in do minore per pianoforte di Mozart, e nella Sonata in fa minore op. 2 n.1, la prima! di Beethoven (la stessa tonalità che sarà poi dell’op. 57, Appassionata), così come nella sua Sinfonia Eroica.
Qualcuno potrebbe opporre che il primo tema dell’Eroica un profilo melodico ce l’ha. Ma qui non si dice che manchi di profilo melodico, bensì che quel profilo è l'accordo di tonica arpeggiato. In ogni caso il vero e proprio tema non è nemmeno quell'arpeggio, ma la tensione che s’instaura, finita la scansione della triade, tra un tempo ternario di base e l'andamento binario del tema. I due accordi iniziali, che sembrano prefigurare una scansione binaria, Beethoven li introdusse dopo, quando la composizione della sinfonia era terminata, proprio per mettere in evidenza questa tensione. Sono due accordi, ciascuno nel primo quarto di una battuta di tre quarti, che dunque l’orecchio percepisce come accordi di una scansione binaria. La musica, infatti, non ci ha detto ancora niente sull’articolazione ritmica del primo tempo della sinfonia, fondamentalmente ternario. Dunque li si percepiscono i due accordi come battiti di una scansione binaria. La triade arpeggiata che subentra subito dopo introduce finalmente la scansione ternaria. Il resto nasce da questo contrasto. E il tema del movimento è proprio questo contrasto, non la triade di mi bemolle o i due accordi iniziali. Nella sezione centrale di sviluppo Beethoven esaspera questa tensione con le aspre dissonanze delle settime ribattute in tempo binario all'interno di una scansione ternaria. Berio ci ha costruito un'intera puntata di C'è musica e musica, una trasmissione televisiva in cui spiegava le costruzioni musicali di alcuni grandi compositori: ci teneva molto. Ma lo scrive anche Charles Rosen nel suo bel libro sullo stile classico e ancora più diffusamente in quello dedicato alle forme sonata (il plurale è determinante: in inglese il titolo suona Sonata Forms).
Ma che impressione avrà avuto il primo ascoltatore della Quinta Sinfonia di Beethoven? Sappiamo, certo, che è in do minore, ma l’attacco, "sol sol sol mi bemolle", senza tonica, potrebbe essere tranquillamente la terza di mi bemolle maggiore. Percepiamo il do minore solo dopo. In realtà se ne accorsero subito, anche al primo ascolto, che la sinfonia è in do minore, quando il pubblico l’ascoltò alla prima esecuzione, in un concerto lunghissimo in cui si eseguirono, tra l’altro, anche la Quarta e la Sesta, il Concerto in sol maggiore per pianoforte. Beethoven, ma prima di lui anche Haydn e Mozart, avevano abituato il pubblico, che allora era composto in genere da persone che conoscevano tutti più o meno bene la musica, a queste trappole armoniche. E qui sta la principale differenza tra il pubblico di allora e quello di oggi (in letteratura non è diverso: un lettore del Sette e dell’Ottocento sapeva come si scrive un endecasillabo). Haydn, per esempio, scrive una sonata in fa maggiore che comincia con un fa bemolle! E la Nona di Beethoven lascia sospesa la tonalità per molte battute, perché manca la terza della quinta la mi. Se è una tonica può essere o la maggiore o la minore. Ma se è una dominante è o re maggiore o re minore. Il mi poi scende al re e il fagotto (un fagotto! strumento allora non tra i principali, e anzi proprio Beethoven ne emancipò la funzione in orchestra) introduce il fa: eccolo, il re minore. Il tutto come memoria dell'Introduzione della Sinfonia n. 104 di Haydn. Una specie di storia della sinfonia in poche battute. Un'altra storia Beethoven l'aveva elaborata in musica nelle ultime variazioni Diabelli, da Bach a lui, via Mozart e Haydn. Tra l'altro, è proprio con Beethoven che comincia il piacere della citazione nella musica moderna. Schumann ne farà addirittura una mania. Beethoven non è il primo, ma colui che lo fa già con intenti di memoria musicale, anzi di storicizzazione della memoria. Un fatto assolutamente nuovo. Che gli permette poi di comporre quella meraviglia dell'Ottava Sinfonia, una sorta di Stravinsky neoclassico ante litteram. Così come invece nelle Bagatelle prefigura vertiginosamente lo Schumann del Carnaval.
Ma torniamo a Haydn. In questo bellissimo Adagio Haydn mette subito sul piatto due elementi contrastanti, affidati ai soli violini. La scansione regolare di crome che battono in staccato una terza maggiore sulla tonica di mi bemolle, ai violini secondi; ai violini primi è invece affidata la melodia, legatissima, che parte con un arpeggio sulla tonica di mi bemolle maggiore, ma che già alla terza battuta si arricchisce di scalette di biscrome, a riempire gli intervalli dell’accordo fondamentale, per concludersi infine con note ribattute di semicrome che richiamano la scansione delle crome staccate di quello che appare un “accompagnamento”. Il tutto, intonato piano. Alla seconda metà della sesta battuta, il ritmo di crome in staccato si estende alle viole e ai bassi, agli oboi, ai fagotti, ai corni, e quello che sembrava un accompagnamento assume così valore tematico. Ciò si rende evidente alla battuta 25a, quando tutti e tre gli elementi, opportunamente variati (Haydn è un maestro sovrano della variazione), vengono intonati forte da tutta l’orchestra. A questo punto il contrasto tra il piano dell’esposizione e il forte di quello che appariva l’accompagnamento, ora invece intonato dall’intera orchestra, si rivela per essere un altro elemento tematico. Gli elementi sono dunque tre: il ritmo di crome, la melodia con l’arpeggio seguito dalle scalette, il contrasto tra piano e forte. Ognuno di questi elementi è parte indispensabile del tema. Il seguito è uno sviluppo e una mutevole combinazione di questi tre elementi. Ai quali in realtà se ne può aggiungere un quarto: il contrasto tra lo staccato delle crome di sostegno e il legato della melodia “cantabile”. Dunque tutto il movimento è costruito su contrastanti elementi: dinamici, di fraseggio, armonici, e perfino di modi d’attacco (staccato/legato).
La sinfonia chiude, nel 1776, il periodo cosiddetto dello Sturm und Drang, e accentua il carattere costruttivo, architettonico, della fantasia inventiva di Haydn. La forma sonata Haydn la stava sperimentando, mai la stessa, esattamente come poi faranno Mozart e Beethoven. Fu fossilizzata nel secondo ottocento, come la fuga, massacrata da Théodore Dubois nel suo trattato di contrappunto e fuga. Secondo gli schemi scolastici di Dubois, Bach non sapeva comporre fughe. E secondo D'Indy, che scrive un importante trattato di composizione, Beethoven raggiunge la maturità solo nell'ultimo periodo: nel primo "imita" Haydn, il secondo è un periodo di "transizione" (sic! transizione l'Appassionata, la Quinta, i Quartetti Rasoumosky). La verità è che le forme – e non solo le forme musicali - finiscono nel momento in cui sono codificate. Quando sono attive non hanno altre regole che non siano l'invenzione stessa della forma.
Non conoscevo questa sinfonia di Haydn. L’impatto è stato fulminante, come lo è per chiunque ascolti la prima volta una sinfonia di Haydn. Anche per chi abbia una conoscenza più o meno approfondita di una parte di esse. Ma, come sempre mi accade quando o leggo o ascolto una pagina prima ignorata di Haydn, immenso compositore che gli italiani dovrebbero conoscere di più, sono letteralmente rapito dalla complessità del pensiero architettonico della scrittura musicale. L’occasione, questa volta, mi è stata,casualmente data da un cofanetto esposto come offerta all’IBS Libraccio di Via Nazionale, a Roma. In cinque cd sono registrate tutte e 12 le sinfonie londinesi. Come una sorta di preambolo a questo monumento e modello di tutta la storia della sinfonia, vi si trova, appunto, la Sinfonia n. 68, in si bemolle maggiore. Suona l’Orchestra del Concertgebow di Amsterdam, diretta da Nikolaus Harnoncourt. E come per il Concerto in la minore di Schumann, che vede al pianoforte Martha Argerich, forse la più bella interpretazione di questa pagina, l’ascolto di queste interpretazioni haydniane di Harnoncourt è stato per me un colpo di fulmine. Non conoscevo, infatti, questo lato, insieme razionalistico e appassionato, del grande musicista viennese. Ma è perfetto per questa musica. Sentimento, filologia e ragione fanno un tutt’uno, e fanno il miracolo. Non ci spendo altre parole. Ascoltatelo. Non si sa se vi fa godere di più l’inesauribile fantasia timbrica, melodica, costruttiva di Haydn o l’intelligenza e la sensibilità interpretative di Harnoncourt. Ma questa intelligenza interpretativa si manifesta poi anche nel fatto di collocare come preambolo alle sinfonie londinesi la Sinfonia n. 68. In essa infatti già si palesa quella tendenza razionalistica della costruzione musicale che costituirà il filo conduttore di tutte le ultime, gigantesche, sinfonie. Non a caso la Nona di Beethoven, che chiude il percorso sinfonico beethoveniano, si riallaccia all’ultima di Haydn, ne ribadisce e insieme ne smentisce l’impianto armonico. Le quinte vuote di Haydn preludono a una chiara scansione tonale, che il cromatismo successivo alla loro intonazione mette bene in risalto. Le quinte vuote di Beethoven, invece, lasciano a lungo incerto l’impianto modale, se sia maggiore o minore. La tonalità effettiva si afferma dopo molte battute. Ma non è queso lo spazio per occuparsene o la digressione risulterebbe troppo lunga. Va notato, però, che l’ultima sinfonia haydniana, sublime, non feconda e sfida solo la fantasia di Beethoven. Ma si protende fino a Schubert, Schumann, Brahms, Bruckner e, soprattutto, Mahler (si pensi all’attacco della Seconda). Non meraviglia, dunque, che Brahms, il quale amava molto Haydn, quasi quanto amava Beethoven e Bach, e l’indimenticato, per lui indimenticabile Schumann, affermasse una volta che nessun compositore, nemmeno Mozart, avesse superato la sapienza e la bellezza dei tempi lenti delle sinfonie e dei quartetti di Haydn. Un’esagerazione, certo, o una boutade divertita. Soprattutto se si pensa ai suoi, di adagi. Ma fino a che punto?
Già: fino a che punto? Perché forse il lettore, giunto – magari faticosamente – alla fine di queste righe, si chiederà quale ne possa essere, manzonianamente, il “sugo”. E’ presto detto. Opinione assai diffusa è che un tema sia la melodia che se ne percepisce, tanto più quando questa melodia sia semplice, orecchiabile, “cantabile”, come recita la prescrizione hadnianana. Solo che per Haydn cantabile non significa ciò che significa per l’ascoltatore di oggi. Significa, invece, che la melodia è impostata su una trasposizione strumentale del sistema di costruzione di una melodia vocale. Per intenderci, un‘aria, e più precisamente un’aria di melodramma. Ora, per chiunque abbia ascoltato, anche superficialmente, un melodramma settecentesco, risulta abbastanza chiaro che la cantabilità di un’aria del Settecento non corrisponde affatto a ciò che oggi s’intende comunemente per cantabilità. Haydn, invece, è proprio alla cantabilità del melodramma tardosettecentesco che si riferisce, una cantabilità che ama le sfide tra strumenti e voci, strumenti che imitano la voce e voci che imitano lo strumento. E anche quando a cantare o a suonare era un dilettante, per dilettante allora non s’intendeva ciò che s’intende oggi, bensì qualcuno con un sufficiente e spesso anzi aggiornatissimo bagaglio di cultura e pratica musicale. Qualcuno dunque che coglieva anche le finezze, le astuzie, i trucchi della scrittura. E questo qualcuno sapeva, dunque, quanto complessa fosse la costruzione di un tema musicale. Haydn va oltre. Lo sfida. Sfida anche il musicista esperto. E gli propone una scrittura musicale che insieme all’ovvio piacere del godimento puramente musicale gli sottoponga anche il problema di come tale piacere sia ottenuto. Insomma questa musica richiede un ascolto tutt’altro che ingenuo, pretende anzi un ascolto competente. Sta qui la sfida. Ecco perché Haydn complica la costruzione di un tema. Al piacere “galante” di una melodia accompagnata sostituisce l’intelligenza di un tema che si costruisce a poco a poco. Un tema, cioè, che non sia una melodia che si appoggia all’armonia, la più semplice possibile, la melodia accompagnata. Qui non c’è accompagnamento, perché ogni parte è essenziale, ogni parte svolge una funzione ineliminabile: l’accompagnamento può rivelarsi, infatti, elemento essenziale del tema, imporsi a sua volta come un’altra melodia. Haydn obbliga l’ascoltatore, in una parola, come aveva fatto Bach, a cogliere i diversi piani che si combinano, melodia, ritmo, timbro, come parti di un complesso contrappunto, in cui nessuna parte prevale sull’altra, ma tutte insieme collaborano a costruire il tema. La musica non è più una voce superiore e il suo basso che la sostiene. Ma un rapporto complesso tra varie voci, tutte ugualmente indispensabili a costruire il tema. Non a caso il vertice di questa invenzione musicale sono i quartetti. I quartetti sono, per Haydn, la sua Arte della Fuga. Se ne potrebbe trarre un corollario contemporaneo. Se anche uno Haydn, un Mozart, un Beethoven, pretendono dall’ascoltatore un ascolto “competente”, perché dovrebbe destare scandalo o ripulsa il compositore di oggi che pretende lo stesso? Il corollario potrebbe estendersi anche alla letteratura e a quanti, ancora oggi, dopo un secolo, protestano che la lettura di un Joyce è “punitiva” o quella di un poeta come Char o Antonio Porta “di nicchia”. Le oggi detestate avanguardie non sono state inventate nel Novecento. Né sapevano già qualcosa i poeti alessandrini.

Dino Villatico
Fiano Romano, 28 novembre 2018

giovedì 15 novembre 2018

Romaeuropa Festival 2018, Anagoor, Et manchi pietà

ANAGOOR
ACCADEMIA D’ARCADIA
ET MANCHI PIETÀ
Artemisia Gentileschi e le musiche del suo tempo

Forse si riflette troppo poco al fatto che, al di là degli stili e dei modi di costruire un’opera d’arte – che sia una una musica, una poesia, un quadro –, c’è un atteggiamento del pensiero, da parte dell’artista, che lega, anche profondamente, personalità tra di loro lontane nello spazio e nel tempo. Ed è probabilmente proprio quest’affinità del pensare che commuove l’uomo di oggi quando ascolta un madrigale di Monteverdi, legge una poesia di Catullo, guarda un quadro di Rembrandt. C’è chi opporrà che invece la filologia c’insegna a distinguere, a notare le differenze, e che leggere e guardare e ascoltare, attualizzata, l’opera del passato, è un tradirla, un non coglierne le intenzioni autentiche. Ma siamo sicuri? E che cosa è l’autenticità? Sono autentici anche gli occhi, gli orecchi, la mente di secoli dopo? Basta pensare all’effetto che ci fanno oggi i film muti, oggetti o incomprensibili o addirittura ridicoli agli occhi di oggi. Certo, una volgare, banale, e semplificatrice operazione che modernizzi l’opera è comunque sempre fuorviante. Ma non sarà, invece, che proprio la filologia ci aiuterà a scoprirne l’attualità perenne, il moderno dell’antico? Troppo spesso si dimentica che ciò che a noi oggi appare antico, all’epoca si percepiva moderno. E come si restituisce questa percezione del moderno del passato, di ciò che nel passato appariva moderno? Che cos’è, per esempio, il barocco, in architettura, se non l’inserimento del moderno in un contesto antico? Capolavoro estremo di questo atteggiamento, mentale prima che artistico, e quasi un’esemplificazione didattica, è il restauro che Borromini fece della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano. Stravolta la struttura della chiesa preesistente, l’antico è abolito, ciò che ne resta è confinato nelle nicchie che lungo le navate mostrano sculture d’impostazione classica. E allora: perché scandalizzarsi se oggi nel tessuto storico di una città d’arte s’inserisce la visionaria costruzione di un architetto moderno? Si celebra, e giustamente, l’operazione con cui Mendelssohn restituì al pubblico del primo Ottocento una pagina che era uscita dal repertorio esecutivo, la Passione secondo San Matteo di Bach. Intanto, Mendelssohn l’operazione poté compierla perché l’insegnamento di Bach, tramite i suoi allievi, non era stato mai interrotto. Il maestro di Beethoven era stato un allievo di Bach. E il maestro di Chopin, a Varsavia, l’allievo di un allievo di Bach. Ma se con la macchina del tempo noi potessimo assistere al concerto mendelssohniano, inorridiremmo, può darsi, tante e tali furono le modificazioni, e attualizzazioni, imposte da Mendelssohn alla partitura bachiana. Del resto, prima di lui, Mozart aveva ristrumentato con gusto moderno il Messia di Handel. L’esperienza dell’antico cambia di epoca in epoca. Ogni epoca coglie del passato ciò che sente più affine. O che affascina proprio per la distanza, per la diversità. Come una sorta di esotismo temporale, invece che geografico. Ma, attraverso quella distanza, se ne può cogliere, anche, la contemporaneità. Euripide era un pacifista radicale. Nell’Elena immagina che Elena non sia mai andata a Troia, ma che gli dei abbiano costruito una nuvola, un fantasma, che le assomigliava, e questa nuvola, questo fantasma Paride conduce a Troia. Quando Menelao incontra la vera Elena in Egitto e scopre di avere combattuto una guerra di dieci anni per una nuvola, per un fantasma, si sente beffato, si dispera. Tutti quei morti, tutte quelle sofferenze, per una nuvola, per un fantasma! si chiede. La risposta di Elena è tranchant: ma per che cos’altro si fanno le guerre se non per un fantasma? La filologia potrà dire che si trattava di un altro tipo di guerra, che Euripide pensava al destino della democrazia ateniese. Ma appurato poi tutto questo, resta perciò la risposta di Elena meno attuale, anche oggi? Ecco, bisogna avere il coraggio e la fantasia di viaggiare in molte epoche, conoscere molte storie, molte vite, molte forme d’arte, per cogliere quanto c’è di perenne, di continuo da un’epoca all’altra. Non si tratta di essere antistoricistici, antifilologici, perché anzi proprio la storia, proprio la filologia ci fanno comprendere le differenze e le somiglianze. Il Seicento è un’epoca che ha molti punti di affinità con la nostra. Soprattutto nell’arte. Si stava abbandonando un sistema di equilibri formali e non si sapeva dove si si sarebbe andati. Qualcuno ne restò giustamente disorientato. Di questo disorientamento è testimone eccelso il teatro di Shakespeare. Ma anche la pittura italiana dello stesso periodo. Caravaggio sopra tutti. E la musica che conosce figure non meno grandi e non meno irrequiete, disorientate: Monteverdi, Frescolbaldi. Si scopre la soggettività del dolore, della gioia. L’individualità della sofferenza. Si creano pertanto nuovi codici retorici che possano rappresentarla, questa individualità della gioia, della sofferenza. Ecco: rappresentarla. Le arti interagiscono. Si confrontano, si rispecchiano, s’interrogano.
Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio Gentileschi, trasferisce nella sua pittura la violenza subita, rappresenta sé stessa come Giuditta, e come Oloferne Agostino Tassi, l’uomo che l’ha violentata. La raffigurazione è di una violenza brutale. Una donna stuprata è segnata per sempre da quell’atto, umiliata, violata nell’animo oltre che nel corpo, degradata da persona ad oggetto: raffigurarla, quella violenza, più che un atto di vendetta, è dunque una richiesta di giustizia. Ecco allora che all’Accademia d’Arcadia e al Teatro Anagoor viene l’idea di rappresentare il corto circuito tra violenza e ricordo della violenza in una rappresentazione in cui la raffigurazione visiva della violenza e l’espressione musicale del dolore si rispecchiano l’un l’altra, attraverso proiezioni su uno schermo di scene che ne evochino soprattutto la brutalità e interpretazioni musicali che ce ne restituiscano il clima sonoro, la cultura simbolica di quel momento che trasfigura in poesia e canto il dolore. Sono pagine sublimi. Non solo le più famose, di Monteverdi, Rossi, ma anche, e non a caso, quelle di un’altra donna, musicista invece che pittrice, Barbara Strozzi: i bellissimi “Udite, amanti” e “Lagrime mie”. Si deve ad Alessandra Rossi Lürig la scelta, affascinante, dei brani musicali. Il soprano Silvia Frigato coglie perfettamente il senso del recitar cantando. Non solo per la dizione chiarissima, ma soprattutto per la recitazione, appunto, musicale, per la recitazione del canto, un canto cioè che si fa, che è esso stesso recitazione. Questa è una musica che nasce dalla musica della parola, il musicista non fa che estrarla dai suoni delle parole, come Michelangelo dice che lo scultore fa delle figure dal blocco di marmo, togliendo il “superfluo”. L’equilibrio tra intonazione musicale e dizione è prefetto, perché sono la stessa cosa, non è una melodia che s’impone al testo, ma ciò che si ascolta è la melodia stessa del testo. Difficile spiegarlo. Bisogna ascoltarlo, per cogliere la differenza che esiste tra questo dire la melodia e il canto del cantante preoccupato, invece, più della voce con cui deve cantare, che della parte che deve cantare. Il che, da parte dell’interprete attento alla dizione, alla recitazione della melodia, non significa un trascurare la voce, ma è anzi un piegarla a cogliere le sfumature della dizione canora, in cui dizione e canto non si distinguono. Ciò richiede un’intonazione impeccabile, una capacità di trascorrere più piani espressivi pressoché inesauribile: doti tutte che Silvia Frigato esibisce con mirabile naturalezza e fluidità espressiva. L’Accademia d’Arcadia la sostiene con giusto equilibrio, e gli strumenti a pizzico da parte loro gareggiano con la voce in flessibilità melodica. E poi ci sono i brani strumentali, uno più bello dell’altro, le danze. Simone Darai configura le visioni sullo schermo. Bravi tutti gli interpreti, proprio per l’agire analogico e non realistico. Impressionante la scena della decapitazione, schizza sangue a fiotti dal collo di Oloferne, ma la testa non si stacca mai. Sarebbe stato facile con effetti digitali raffigurarla. Ma allora si sarebbe rappresentata una scena realistica, il che non si voleva. Arte e vita non sono mai la stessa cosa. L’arte è della vita, più che la rappresentazione, il commento. Soprattutto a teatro. E queste proiezioni sono teatro, i cui attori sono anche i musicisti sulla scena. In somma, uno spettacolo ch’è difficile dimenticare. Per la lucidità e la consapevolezza con cui è stato immaginato, costruito, realizzato. Il pubblico, assai folto, accorso alla rappresentazione romana, per il Festival Romaeuropa, alla Pelanda del Macro, a Testaccio, ha giustamente alla fine applaudito tutti con grande convinzione e calore.

Fiano Romano, 15 novembre 2018

sabato 10 novembre 2018

Beethoven, le diverse versioni del Fidelio

DINO VILLATICO

Le diverse versioni del Fidelio (Leonore) confrontate con l’opéra comique di Bouilly e Gaveaux.
Le versioni del 1806 e 1814 sono mostrate con riferimento ai numeri della versione del 1805.1

Gaveaux, 1798 Beethoven, 1805 Beethoven. 1806 Beethoven, 1814

Léonore, ou L’amour Fidelio (J. von Sonnleithner) Leonore, oder Der Fidelio (Sonnleith-
conjugal Triumph der eheli- ner. rev. Breuning,
lichen Liebe (Sonn- G. F. Treitsche) leithner, rev. G. F.
von Breuning)
Ouverture: Leonore n.2, Do Ouverture: Leonore Ouverture : Fide- n. 3, Do lio, Mi

Atto 1 Atto 1 Atto 1 Atto 1

Aria (Marceline) 1. Aria (Marzelline) “O wär ich 1. 1805/1 1. 1805/2
schon”, Do
Duetto (Marceline/ 2. Duetto (Marzelline/Jaquino) 2. 1805/2 2. 1805/1
Jaquino) “Jetz, Schätzen”, La
3. Terzetto (Marzelline, Jaquino, 3. 1805/4 3. 1805/4
Rocco) “Ein Mann ist bald genom-
Men“, Mi b
4. Quartetto (Marzelline, Leonore, 4. 1805/6 4. 1805/5
Jaquino, Rocco) “Mir ist so wun-
derbar“, Sol
Aria (Roc) Chanson 5. Aria (Rocco) “Hat man nicht 5. 1805/7 5. 1895/6
auch Gold beineben“, Si b
6. Terzetto (Marzelline, Leonore, 6. 1805/8 6. 1805/7
Rocco) “Gut, Sönchen, gut”, Fa

Atto 2 7. 1805/9 7. 1805/8

7. Marcia, Si b (forse esclusa). 8. 1805/11 8. 1805/9
8. Aria (Pizzarro) “Ha! welch ein 9. 1805/10 9. 1805/11 con
Augenblick”, re/Re un nuovo recit.
9. Duetto (Pizzarro, Rocco) “Jetzt, 10. 1805/3 “Abscheulicher!
Alter”, La Wo eilst du hin?”
Duetto (Marceline, 10. Duetto (Marzelline, Leonore) 11. 1805/12
Léonore) “Um un der Ehe froh zu leben”, Do
Aria (Léonore) “Ro- 11. Recit. e aria (Leonore) “Ach 10. Nuovo Finale.
mance” brich noch nicht… Komm,
Hoffnung”, Mi
Aria (Léonore) “Air” 12. Finale (Marzelline, Leonore,
Coro (prigionieri) Rocco, Jaquino, Pizzarro, prigio-
nieri, Si b

Atto 2 Atto 3 Atto 2 Atto 2

Recit. e aria (Flore- 13. Recit. e aria (Florestan) “Gott! 12. 1805/13 11. 1805/13 con
stan) “Romance” welch Dunkel hier… In des Lebens una nuova sezione
Frühlingstagen”, fa, La b, fa finale: “Und spür
ich nicht linde”, Fa
Duetto (Léonore, 14. Melodram e duetto (Leonore, 13. 1805/14 12. 1805/14
Roc) Rocco) “Nun hurtig fort”, la
Terzetto (Léonore, 15. Terzetto (Leonore, Rocco, 14. 1805/15 13. 1805/15
Florestan, Roc) Florestan) “Euch werde Lohn”, La
16. Quartetto (Leonore, Florestan, 15. 1805/16 14. 1805/16
Rocco, Pizzarro) “Er sterbe!”, Re
Duetto (Léonore, 17. Recit. e duetto (Leonore, Flo- 16. 1805/17 15. 1805/17 senza
Florestan) restan) “Ich kann nicht fassen… O recit.
namenlose Fruede“, Sol
Coro fuori scena
Coro “Final, Choeur 18. Finale (Leonore, Marzelline, 17. 1805/18 16. 1805718 ma
général” Rocco, Florestan, Jaquino, largamente rielabo-
Pizzarro, Fernando, prigionieri, rato.
popolo), do, Do.
1 Rielaborazione della “TABLE I: The Gaveaux and Beethoven versions of Fidelio (Leonore)” della voce Fidelio del Grove, Opera, cit.

Beethoven, Fidelio, bibliografia

DINO VILLATICO

BEETHOVEN, FIDELIO

BIBLIOGRAFIA


Oltre alla bibliografia generale e specifica già segnalate nella bibliografia del primo corso, sulle strategie compositive, sono utili i seguenti studi:

Sul teatro tra Settecento e Ottocento:

Cesare Molinari, Storia del Teatro, Roma-Bari, Editori Laterza, 200312. In particolare i capp. 22°, Germania culla del repertorio europeo, e 23°, Verso il teatro borghese, pagg. 175-188.

Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Roma-Bari Editori Laterza, 1995.

Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1991.

Sul teatro musicale dell’età di Beethoven:

The New Oxford History of Music. VIII Gerald Abraham, Winron Dean, The Age of Beethoven (1790-1830) (trad. it. di Gabriele Dotto, Donata Aldi e Alessandra Lucioli, Il teatro musicale nell’età di Beethoven, Milano, Feltrinelli, 1991).

Utile, per un panorama della produzione musicale, teatrale e no, dal 1789 al 1827: Gerhard Dietel, Musikgeschichte in Daten, Kassel, Bärenreiter, 1994.

Sul Fidelio:

L. van Beethoven, Fidelio, testo di J. Sonnleithner e G.F. Tritschke. Libretto. “Testi musicati in lingua originale con traduzione a fronte”. Con un saggio introduttivo di Quirino Principe, Milano, Ariele, 1995.

Willy Hess, Das Fidelio-Buch, Winterthur, Amadeus-Verlag, 1986.

Paul Robinson, Fidelio, “Cambridge Opera Handbooks”, Cambridge, 1991.

Daniel Banda, Beethoven: Fidelio, une écoute ressentie, Paris, L’Harmittan, 1999.

Beethovens langer Weg zum “Fidelio”, in Opernkomposition als Prozess, a cura di Werner Breig, Bärenreiter, 1996.

Michael C. Tusa, The Unknown Florestan: The 1805 Version of “In des Lebens Frühlingstagen, in JAMS 1993.

Philip Gossett, The Arias of Marzelline: Beethoven as Composer of Opera, in Beethoven-Jahrbuch II/10, 1978-81.

Fedele d’Amico, La faticosa nascita del “Fidelio”, programma di sala per la stagione 1976-77 del Teatro dell’Opera di Roma.

Giovanni Carli Ballola, Un’opera diversa, programma di sala del 15 marzo 1990 per il Teatro Comunale Giuseppe verdi di Trieste.

Anselm Gerhard, O Dio! Quale istante!, programma di sala del 24 aprile 1998 per il Teatro La Fenice di Venezia. Sullo stesso programma: Stéphane Braunschweig, Interrogarsi sulla libertà. E’ la riflessione intelligente di un regista intelligente. E così il Fidelio, nato per il teatro, viene restituito al teatro.

Ottima la voce Fidelio, nel New Grove’s Dictionary of Opera, London, Macmillan, 1992, II, pagg. 182-186.

Utile visitare il sito della Beethoven-Haus di Bonn: www.beethoven-haus-bonn.de.

La sezione Musica in scena del DEUMM, che dovrebbe corrispondere al Grove Opera, scandalosamente ne fa solo una breve menzione (appena cinque paginette), nel quarto volume (Torino, UTET, 1995), alle pagg. 172-176, nella sezione dedicata al Singspiel, firmata da Elisabetta Pirolo. Molte sono le inesattezze e le approssimazioni: tra l’altro non si fa cenno all’influsso determinante dell’opéra-comique francese e manca qualsiasi accenno d’un’analisi musicale (il Grove specifica per esempio le forme musicali adottate da Beethoven per ciascun numero della partitura, precisazione indispensabile, visto che la forma delle arie non è mai quella del melodramma italiano, ma o deriva dall’opéra-comique francese o è addirittura elaborata nella forma-sonata, come l’aria di Pizzarro nel primo atto). In compenso si giudica negativamente la scrittura vocale beethoveniana: “Beethoven, piaccia o no agli encomiasti, era un musicista nato per la musica strumentale1 e a dimostrarne la tesi basterebbero i Lieder - bellissimi - composti con musicalità ed itensità emotiva immense ma nell’insieme inadatti a quel delicatissimo strumento musicale che è la voce umana: la concezione delle frasi, la posizione dei respiri, la scelta delle dinamiche, soprattutto, non tengono conto assai spesso di elementari difficoltà fisiologiche, come quella, ad esempio, di iniziare con un forte a voce non riscaldata (Mignon, op.75, n.1)”. Che dire? A parte l’erronea scrittura del numero d’opera (“op.75, n. 1” invece di op. 75 n.1), si tratta della solita vecchia, sbagliata concezione italocentrica della vocalità. Beethoven scrive difficile, in maniera antifisiologica, non solo per la voce, ma per tutti, anche per gli strumenti. Quanto alla voce “non riscaldata”, un cantante serio se la scalda prima del concerto o della rappresentazione in camerino. Inoltre lo sforzo richiesto talora al cantante fa parte del carattere espressivo del pezzo: teso talora tra il sussurro e il grido. Il modello è già in Gluck e in Cherubini, oltre che in Spontini (gli ultimi due sono italiani!) Inoltre è vero che Beethoven usa una scrittura strumentale anche per la voce, ma prima di lui, oltre ai musicisti sopra citati, lo facevano sia Bach che Vivaldi. Che poi Beethoven adotti per molte arie una forma strumentale, al posto di quella dell’aria, non solo non è una novità (lo fa anche Mozart, e la famosa aria “Che farò senza Euridice” dall’Orfeo di Gluck non è un’aria, ma un rondò. Beethoven non fa che inserirsi in un processo di trasformazione delle forme del melodramma, cominciato da Gluck e da Mozart (ma affiancati da Salieri, Jommelli,Traetta, e nelle sue oltime opere, anche da Cimarosa). Tale processo, che ha origine nell’opéra-comique francese, conduce da una parte a Weber, Wagner, Strauss e Berg (che però resta fedele al pezzo chiuso) e dall’altra al rinnovamento operato da Rossini e proseguito da Verdi (Donizetti e Bellini sono una parentesi dal punto di vista formale quasi insignificante), la sintesi dei due processi si ha nel teatro musicale russo.
1 Ah sì? E la Nona, la Missa solemnis, le musiche di scena per Egmont, Le rovine di Atene e Leonore Prohaska? Bontà sua, la Pirolo riconosce, però, che i Lieder sono “bellissimi”!

Beethoven, bibliografia

BIENNIO

DINO VILLATICO

CORSO DI STORIA DELLA MUSICA ED ESTETICA MUSICALE
Primo corso (2003-2004)
Secondo corso (2004-2005)


Una introduzione al concetto e alle forme del moderno: Beethoven, fondamento e motore della musica intesa come pensiero.


BIBLIOGRAFIA

Di Beethoven :

Partiture:

Ouverture Coriolano, op. 62.
Sinfonie: Terza, Quarta, Quinta, Settima, Ottava e Nona.
Sonate: op. 10 n.1, op. 27 n.1, op. 53, op.101, op. 106, op.111.
Variazioni Diabelli
Concerti: op.61 per violino, op 15 e op. 58 per pianoforte
Quartetti: op. 130 e Grande Fuha op. 133.

Su Beethoven :

Le voci Beethoven del Grove’s Dictionary of Music e del DEUMM.

Beethoven, a cura di Giorgio Pestelli, Bologna, Il Mulino, 1988.

Martin Cooper, Beethoven. L'ultimo decennio 1817-1828. Torino, ERI, edizioni rai radiotelevisione italiana, 1979. Ed. orig.: Beethoven. The Last Decade 1817-1827, Oxford University Press, 1970.

André Boucouréchliev, Beethoven, Paris, éditions du seuil, "solfèges", 1963.

Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, a cura di Rolf Tiedemann, traduzione italiana di Luca Lamberti, Torino, Einaudi, 2001.

Carl Dahlhaus, Beethoven e il suo tempo, Torino, edt, 1990.

Carl Dahlhaus, La Quarta Sinfonia di Ludwig van Beethoven, Milano, G. Ricordi, 1992.

William Kinderman, Beethoven’s Diabelli Variations, Oxford, Oxford University Press, 1989, reprinted with correcttions and cd, 1999.

William Kinderman, Beethoven, Oxford, Oxford University Press, 19972.

Musik-Konzepte 67/68, Beethoven. Formale Strategien der späten Quartette. (Ulrich Siegele) München, edition text+kritik, Januar 1990. (Sono quaderni preziosi, diretti da Metzger: unico problema, sono scritti in tedesco)
 
Fabrizio Della Seta, Beethoven: Sinfonia Eroica. Una guida, Roma, Carocci, 2004.

Artemio Focher, Ludwig van Beethoven 26-29 marzo 1827, Lucca, LIM, 2001. (Racconto dei giorni in cui si diffuse la notizia della morte di Beethoven)

Rudolf Kolisch, Tempo und Charakter in Beethovens Musik, Musik-Konzepte 76/77, München, text+kritik, Juli 1992.

Dino Villatico, Le ultime opere pianistiche di Beethoven alla luce de Quaderni di conversazione degli anni 1818-1823, in Il Pianoforte di Beethoven, a cura da Carlo De Incontrera, Monfalcone,Teatro di Monfalcone, 1986

Sul periodo di Beethoven (e quelli immediatamente precedenti e successivi):

Giorgio Pestelli, L'età di Mozart e Beethoven (Storia della Musica edt).

Di Benedetto, L'Ottocento I, e Della Seta, L’Ottocento II (Storia della Musica edt)

Carl Dahlhaus, La Musica dell'Ottocento, traduzione di Laura Dallapiccola, Firenze, La Nuova Italia, "Discanto/Contrappunti, 28", 1990. Il prezzo dovrebbe aggirarsi sui 30 euro.

William Kinderman, Beethoven, Oxford, Oxford University Press, 19972.

William Kinderman, Beethoven’s Diabelli Variations, Oxford. Oxford University Press, 1989, reprinted with corrections and cd, 1999.

Sito web della Beethoven-Haus di Bonn: www.beethoven-haus-bonn.de.

Sulle forme musicali:

Charles Rosen, The Classical Style Haydn. Mozart, Beethoven. London, Faber and Faber, 1976 (2a ed.)
Charles Rosen, Sonata Forms New York, London, W.W. Norton & Company, 1980.. 

Arnold Schoenberg, Funzioni strutturali dell’armonia, traduzione di Giacomo Manzoni, Milano, Il Saggiatore, 1985.

Arnold Schoenberg, Elementi di composizione musicale. Revisione di Gerald Strang, con la collaborazione di Leonard Stein. Traduzione italiana e prefazione di Giacomo Manzoni. Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 1969.

Dino Villatico, Indeterminatezza dell’interpretazione
L’alone della parola
Filosofia del linguaggio e poetica del collage nei testi di Massimo Cacciari per Luigi Nono, in Nell’aria della sera, il Mediterraneo e la musica, a cura di Carlo De Incontrera, Monfalcone, Teatro di Monfalcone, 1996.

Sulla musica del novecento:

Josef Rufer, Teoria della composizione dodecafonica, Milano, Mondadori, “Il Saggiatore”, 1962.

a cura di Gianmario Borio: L'orizzonte filosofico del comporre nel ventesimo secolo, Bologna, il Mulino, 2003.


Propeduetico all'esame sarà un'interrogazione sulla figura di Beethoven e sulla musica dal classicismo a Brahms.
 
La prova interpretativa: una composizione degli allievi di composizione. Per i pianisti che non volessero eseguire una composizione così moderna, vista la particolarità del corso, dovranno scegliere una delle Bagattelle op.119 e 126. Per i violinisti lo scherzo dell'ultima Sonata per violino e pianoforte op. 96, i violoncellisti il primo tempo di una delle due Sonate op. 102. Per i cantanti il ciclo di Lieder An die ferne Geliebte (all'esame un solo Lied). C'è una sonata per corno e pianoforte giovanile, ma la sconsiglierei. Se esitono gli strumenti per formare il complesso, sarebbe carino un tempo del Settimino. Se si può prefigurare un quartetto, hanno la scelta tra il primo tempo dell'op. 130 o l'adagio dell'op. 59 n. 1 o il primo tempo del primo quartetto di Bartók (modellato sull'op. 130). Se è possibile formare un trio: adagio dell'op.70 n. 1 (gli spettri). Altro raggruppamento, se c'è, potrebbe configurare un tempo (il primo? l'adagio? del Quintetto per pianoforte e fiati op.16 (i fiati sono oboe, clarinetto, corno e fagotto). Tutti dovranno mostrarsi in grado di analizzare una pagina di Beethoven, a scelta: 1 tempo dell'Eroica, 1 tempo della Nona, Sonata op.10 n. 1 (esiste un'analisi di Schoenberg spiegata dal Rufer), una qualsiasi tra l'op. 101, 106, 109, 110, 111, le Variazioni Diabelli, .Sonata per violino e pianoforte op. 96, una delle due Sonate per pianoforte e violoncello op. 105, quartetto op. 74, e uno qualsiasi dall'op. 127 all'op. 135, compresa la Grande Fuga (nel qual caso va attaccata all'op. 130).

Venezia, mercoledì 21 aprile 2004
Roma, martedì 16 agosto 2005