sabato 25 maggio 2019

Teatro dell'Opera di Roma: L'angelo di fuoco




ROMA. TEATRO DELL’OPERA. L’ANGELO DI FUOCO di Sergej Prokof’ev

Personaggi e interpreti

Ruprecht Leigh Melrose
Renata Ewa Vesin
Padrona della locanda Anna Victorova
Indovina Mairam Sokolova
Agrippa di Nettelsheim Sergej Radčenko
Johann Faust Andril Gančuk*
Mefistofele Maxim Paster
Madre Superiora Mairam Sokolova
Inquisitore Goran Jurić
Jakob Glock Domingo Pellicola*
Mathias Wissman Petr Sokolov
Medico Murat Can Güvem*
Servo Andril Gančuk*
Padrone della taverna Timofei Baranov*

* dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Mimi attori

L’angelo di fuoco Alis Blanca
Conte Heinrich Ivano Picciallo
Viola Carinci, Federica D’Amore, Marta Franceschelli, Silvia Giuffrè, Francesca Laviosa, Anna Pozzuoli, Sabrina Vicari, Marta Zollet

Davide Celon, Roberto Galbo, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Daniele Savarino

Direttore Alejo Pérez
Regia Emma Dante

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Movimenti coreografici Manuela lo Sicco
Luci Cristian Zucaro
Maestro d’armi Sandro Maria Campagna

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma

Anteprima Giovani: 21 maggio 2019
Prima rappresentazione: 23 maggio 2019
Repliche: 26. 28, 30 maggio, 1 giugno 2019

Krzystof Pendercki mette in scena ad Amburgo, nel 1969, Diabły z Louduni, i diavoli di Loudun, dal romanzo di Aldous Huxley. Non è una partitura straordinaria, più di effetto, che di sostanza, ma il soggetto suscita polemiche. Due anni dopo Ken Russell presenta al Festival del cinema di Venezia The devils, i diavoli, tratto dallo stesso romanzo, ma attraverso la riduzione teatrale di John Whiting, del 1960. Il riferimeto storico è reale, ed è un processo per stregoneria e possessione demoniaca nella Francia governata da Richelieu, che volle così sbarazzarsi dell’ultima resistenza ugonotta. Il film suscitò scandalo, protestò il Vaticano. Russel rispose: “Premetto che sono cattolico, che mi sono convertito 15 anni fa e che mi sono convertito per una libera scelta…Confesso che nel mio film c’è una parte erotica e qualche parte sconveniente. Scene che non sono preminenti, che sono complementari al tessuto della storia, che hanno una rispondenza storica assolutamente accertata dai documenti. Ebbene, che si fa? Si sottolineano queste parti secondarie e marginali, che non sono inventate, che sono realmente accadute, che sono documentate; dicevo, si sottolineano queste parti marginali per condannare tutto il film  e per accusare il suo autore d’essersi messo al passo con i tempi. Anzi di avere addirittura anticipato una nuova formula perversa: erotismo+sadismo+religione…. Non è stato Ken Russell a inventare la formula religione-sadismo-erotismo. Ma altri, molto ma molto tempo fa. Quegli stessi che per condannare ingiustamente un uomo, Grandier, esibirono una falsa confessione firmata da lui e da sette diavoli. Se non lo sanno i critici, cattolici e non, questa confessione è ancora agli atti del processo”. (Le parole di Ken Russell inviate a “L’Europeo” sono trascritte nella monografia su Russell di Rino Miele)1.

Ma molto prima di tutto ciò, nel 1919, Sergej Prokof’ev pensa anche lui di scrivere un’opera su una donna accusata di essere posseduta dal demonio, e compone L’angelo di fuoco, in russo Ognennij Angel. L’argomento è simile, ma le fonti, sia letterarie sia storiche sono diverse. Prokof’ev attinge al romanzo simbolista di Valerij Brjusov, dello stesso titolo, ne ricava lui stesso il libretto, scarnifica efficacemente l’azione. La composizione si conclude nel 1925, ne viene elaborata anche una versione in francese, come aveva fatto per L’amore delle tre melarance, ma l’opera verrà rappresentata postuma alla Biennale di Venezia nel 1955. Da allora è ripresa dai teatri di varie parti del mondo. A Roma, manca da 53 anni. Ma è stata vista più volte alla Scala di Milano e una volta al Regio di Torino. E’ forse il capolavoro teatrale di Prokof’ev e uno dei maggiori del teatro del Novecento. E’ un’opera profondamente, intimamente russa, anche se l’azione s’immagina nella Germania del Rinascimento, e tra i personaggi figurano anche Faust e Mefistofele. Le allusioni a Goethe sono molte. La scena della taverna, per esempio. Ma si pensa, per il suo carattere russo, anche ai film di Tarkovskij (Sacrificio) e di Sokurov (Faust), che certamente, entrambi, tennero presente il clima visionario dell’opera prokof’eviana. O comunque respirano lo stesso clima allucinato dell’opera di Prokof’ev e di tante pagine della letteratura russa. Spesso l’allucinazione si combina con il grottesco, con l’ironia, come nel Naso di Gogol, da cui Šostakovič trasse ispirazione per la sua prima, stupefacente, bellissima opera.

Una donna, Renata, ha fin da bambina la visione di un angelo bellissimo, Madiel’. Ma a 16 anni, quando gli impulsi sessuali dell’adolescenza esplodono, gli chiede di congiungersi carnalmente con lei. L’angelo inorridisce, impreca, la maledice, diventa una colonna di fuoco che le brucia i capelli e la schiena, e svanisce via per sempre. La donna, allora, cerca di riconoscerlo nelle fattezze di un uomo mortale, lo insegue in un uomo reale, Heinrich, e ne diventa l’amante. Chiede, però, a Ruprecht, l’uomo che l’aveva salvata dall’assalto dell’angelo, o da ciò che sia lei sia lui credevano l’assalto dell’angelo, ma era ormai forse invece il diavolo travestito da angelo, chiede dunque a questo Ruprecht, innamoratosi di lei, di uccidere Heinrich, perché l’ingannatore, il seduttore l’ha abbandonata. Ruprecht, riluttante, sfida perciò a duello Heinrich, ma resta ferito. Renata, quando Heinrich guarisce, lo respinge, e si chiude in convento. E comincia di nuovo a essere posseduta dalle sue visioni, e cominciano le possessioni anche delle altre monache. S’impone la visita di un Inquisitore. E l’inquisitore la condanna alla tortura e al rogo. L’opera si conclude qui, con la sentenza di condanna, mentre le voci del coro di monache, dell’Inquisitore, di Renata, intonano un labirintico scatenato sabba musicale , tra sdegnati esorcismi e inni a Belzebù e a Baal.

Ma la trama in sé dice poco del carattere dell’opera. Non si dimentichi che le avanguardie teatrali russe hanno insegnato al mondo a fare teatro moderno, da Stanislasvskij a Mejerchol’d e che il teatro russo, perfino quello realistico di Čekhov, è integralmente percorso da vene surrealiste, visionarie, allucinate, spesso in chiave violentemente caricaturale e satirica. Un romanzo come Il maestro e margherita di Bulgakov rende bene quell’atmosfera. E si pensi a quanto di visionario, irrazionalistico, c’è in Dostoevskij, Tolstoj, Gogol. La musica di Prokof’ev, qui espressionistica come non mai, restituisce perfettamente questa visionarietà, quest’allucinazione a occhi aperti. Ritmi ossessivi, dissonanze, Leitmotive tortuosi, e un declamato, che ricorda Musorgskij (soprattutto la scena di apertura del Boris Godunov), ma non è estraneo al coevo Šostakovič. Si resta stregati, appunto, e inchiodati alla poltrona del teatro dall’inizio alla tumultuosa, vertiginosa fine. Quasi una ricostituzione del caos originario del mondo.

L’inchiodatura si fa febbrile in questo allestimento di Emma Dante. E non solo per ciò che si vede sulla scena, ma anche, e soprattutto, per merito della tesa, quasi spasmodica, e tuttavia limpidissima lettura musicale di Alejo Pérez: interpretazione penetrante come poche altre, quasi da manuale. Il caos nasce da un ordine prestabilito. Una legge matematica stabilisce che il massimo della precisione, e dell’accumulo di dati precisi, produce caos. Ecco: è questa l’operazione di Pérez, suscitare dall’ordine razionale del contrappunto il caos. Tutto appare mescolato, confuso, le voci sembrano sovrapporsi disordinatamente. E invece la confusione nasce da un controllo rigorosissimo delle combinazioni contrappuntistiche di voci e strumenti. Qui s’inserisce la bravura dei cantanti, che sembrano cantare, recitare sotto l’impulso del momento e invece ubbidiscono a una combinazione precisa delle parti, sia musicali sia gestuali.

Emma Dante immagina scene (geometriche, incombenti, di Carmine Maringola) che sprofondano nel ventre della terra. L’allusione alla cripta dei Cappuccini, sia a quella palermitana sia a quella romana di Via Veneto, con le nicchie abitate da scheletri, e qui da monache avvolte da mantelli rossi, i cui volti sembrano teschi, è opprimente, fa respirare un clima insalubre di morte, di spiriti, di apparizioni infernali danzanti. L’apparizione piroettante dell’angelo (Alis Blanca) è subito, fin dall’inizio, fin dalla prima volta, sinistra, demoniaca. L’essere si contorce saltando, usa le gambe come braccia e viceversa. Il sotto e il sopra coincidono. E si conferma tale, cioè demoniaco, perverso, escrescenza e soffio del Maligno, quando d’un tratto spunta anche il suo doppio nero, come lui rotolante, saltante, sulle gambe e sulle braccia. Bene e male si confondono, si assomigliano come due gocce d’acqua. Si pensa alle streghe del Macbeth: Fair is foul, and foul is fair, il bello è brutto e il brutto è bello.

 

Renata, la visionaria, la posseduta, è lasciata sola nei suoi deliri, gli uomini ne colgono solo la voglia di sesso. Il mondo che le sta intorno le è ostile, non perché abbia visioni, perché il demonio la possegga, può darsi, ma chi sa, forse davvero è ella stessa in quanto donna, una creatura demoniaca, no, non per questo il mondo le è ostile, potrebbe anche non essere indemoniata, ma la teme, la odia perché donna, perché è la donna a scatenare nell’uomo voglia di sesso. Soli anch’essi, però, gli uomini, nell’incapacità di capire, di comunicare, incapacità che risolvono in atti d’accusa per chi non capiscono, per chi sembri di altra natura, e la donna sembra di altra natura, sembra non umana, non uguale, insomma, all’uomo. 

 

Costumi sulla scena se ne vedono d’ogni sorta, che mescolano le epoche, le persone, i ranghi sociali. Perché tutto in quest’opera, e dunque anche nello spettacolo, è ambiguo, indeterminato e ciascuna cosa può essere il suo contrario. Sono disegnati da Vanessa Sannino. Sulla scena un cast formidabile, per omogeneità interpretativa e per individuale eccellenza, In particolare la Renata di Ewa Vesin, sempre in scena, d’una fatica sovrumana per il soprano questa partitura, eppure l’interprete non appare mai stanca, è duttilissima, splendida attrice che canta o cantante che recita, sono tutt’uno. Come dovrebbe sempre essere in teatro un cantante. Ruprecht, personaggio multiforme, insieme ruvido e fragile, è un intensissimo Leigh Melrose, rude, appunto, almeno all’inizio, e poi sempre infoiato, ma insieme fragile e vinto. Inimitabile il Mefistofele di Maxim Paster. Ma andrebbero citati tutti, gli interpreti di questo straordinario spettacolo, uno più bravo e più giusto dell’altro (leggeteli qui sopra, nella locandina). Il pubblico giovanile dell’anteprima – una bella iniziativa del Teatro dell’Opera riservare l’anteprima ai giovani - , silenzioso, attento, decreta alla fine per tutti un trionfo. Meritatissimo! Spettacolo bellissimo, dunque, e da non perdere!



Alla prima il pubblico era più rumoroso, e qualche maleducato della platea, tra i soliti, si è alzato dalla poltrona e se n’è andato non appena è calato il sipario sull’ultimo lancinante accordo. Sono sempre di meno, per fortuna, questi maleducati del pubblico romano, segno che l’apertura al teatro moderno piace al resto, la maggioranza, del pubblico, e restano ad applaudire e ringraziare gli artisti. Ciò che indispone di quei pochi è la strafottenza, non solo escono quando ancora non si sono riaccese le luci, ma escono chiassosamente, parlottando tra loro, facendo rumore con i tacchi sul pavimento. Che differenza con l’educata attesa dei giovani dell’anteprima, che sono rimasti inchiodati fino alla fine, fino a quando non si sono riaccese le luci. Tutti lì a spellarsi le mani per manifestare il proprio entusiasmo e la gratitudine per gli artisti. Qui sta il punto: i maleducati ignorano una regola fondamentale del teatro e dello spettacolo in genere: gli artisti, sulla scena e in orchestra, hanno “lavorato” per oltre due ore, hanno lavorato per il pubblico, e l’applauso o il dissenso, buh o fischi che siano, sono atti dovuti.

Per concludere, una riflessione sul senso del teatro, e del teatro moderno. Il Novecento è un secolo di grande, grandissimo teatro, che ha pochi confronti con il teatro del passato: il teatro elisabettiano, il teatro classico francese, el siglo de oro spagnolo, il melodramma italiano barocco, il teatro greco antico. Come quei grandi esempi di teatro anche il teatro del Novecento è lo specchio del mondo, come dice Shakespeare, tutto il mondo è un palcoscenico, o Calderón de la Barca, ciascuno recita la propria parte nel Gran Teatro del Mondo, o Corneille che nell’Illusion Comique elimina il sipario tra vita reale e vita recitata. Anche nell’Angelo di fuoco il palcoscenico si fa specchio del Mondo. Fausto e Mefistofele intervengono a togliere ogni sospetto che tra illusione e realtà esista una separazione. Renata, il cui stesso nome ha significato insieme simbolico ed esoterico, re-nata, vive le proprie visioni come vita indivisibile di sé stessa, esperienza unitaria di mente e corpo. Emma Dante visualizza gli angeli-démoni di Renata, i due mimi sembrano uscire direttamente dai suoi occhi. Alis Blanca irrompe sulla scena come Ariele nella Tempesta di Shakespeare, aereo, leggero, inafferrabile, evanescente. Non fa rumore. L’infelice Ruprecht, dapprima così sicuro di sé, finisce coll’esserne ingoiato, sommerso, sconfitto. Sente pronunciare da Renata parole terribili, ma che non si riferiscono a lui, bensì all’altro, all’immaginario eppure realissimo amante di Renata, Heinrich: “Non piango per lui, / piango per me. / Provo vergogna e … amarezza / per averlo tanto amato, / per essermi data così completamente a lui. / Heinrich mi ha ingannata: è solo un uomo, / un semplice uomo, / che si può sedurre, irretire e distruggere … / E io nella mia immaginazione ho im,maginato / che egli fosse il mio angelo, il mio Madiel’, / eternamente puro, eternamente inaccessibile!” Poco dopo, nel quarto atto, gli dirà “Va’ in un bordello. / Per pochi soldi trovi la donna che fa per te”. Tra questi estremi, l’angelo e il demonio, il cielo e l’inferno, in mezzo c’è la terra, abitata da démoni che sono angeli e da angeli che sono démoni. Il sesso è insieme paradiso e dannazione, per la donna un continuo donarsi, per l’uomo soltanto prendere. Da qui la rabbia per ogni abbandono: subìto come un furto, la sottrazione di un possesso.

La musica di Prokof’ev non è mai stata così esplicita nell’abolire i confini tra consonanza e dissonanza. Spesso, soprattutto nelle opere successive, l’ammicco all’ascoltatore si fa quasi seduzione, come nel terzo Concerto per pianoforte o nelle musiche per La congiura dei Boiari di Eizenstejn (Ivan il Terribile è più duro, più asciutto). Ma è soprattutto l’orchestrazione che qui si fa spia di un perpetuo scivolamento della realtà in piani illusori, visionari: pedali infiniti, sia al basso sia all’acuto, cellule motiviche infinetesime ripetute ossessivamente, soprattutto dagli archi, quasi già come in una micropolifonia di Ligeti. E il rincorrersi di motivi conduttori che si combinano, si deformano. Lo stridio degli ottoni, il gracidio dei legni. Il suono del ventesimo secoli o è rumore o è dissonanza o dolcezza che fa soffrire l’udito come il graffio su una lavagna, il sibilo acutissimo di una sirena di fabbrica. La musica è non già la riproduzione dei suoni della vita del tempo, né tanto meno la consolante trasposizione in un paradiso melodico estraneo, nemmeno il pur accattivante Čajkocski consola per davvero, anche la più seducente delle sue melodie racconta sempre una lacerazione. E allora: che musica volete nel mondo dei treni, degli aerei, delle fabbriche, delle miniere? Lo zoccolio dei cavalli sul selciato, il passo morbido di scarpine di velluto nei giardini non esistono più. Chi crede che il bello, il gradevole sia solo ciò ch’è stato, si disilluda. I colpi di timpani che scandiscono, da soli, la cellula ritmica dello Scherzo della Nona Sinfonia di Beethoven furono uditi, nel 1825, come violenti colpi di cannone, gli stessi che avevano bombardato Vienna qualche anno prima e avevano fatto perdere definitivamente e per sempre l’udito all’indomabile compositore.

Ecco: compito dell’artista non è illudere lettori, spettatori, visitatori di gallerie e musei, che il mondo rappresentato è migliore di quello reale, perché anche quando un mondo ideale è rappresentato dall’artista, per contrasto fa apparire ancora più scomodo, disturbante, il mondo reale. No, compito dell’artista è riflettere, con la propria arte, sulla realtà del mondo. Non rispecchiarlo: rifletterci sopra. Per questo Aristotele dice che il teatro, la poesia, sono più filosofici della storia. Perché pensano, riflettono, oppure fanno riflettere, fanno pensare. Quando Edipo si chiede: so di non essere colpevole, che è stato deciso non da me, ciò che è accaduto. Ma allora: perché io? (Edipo a Colono di Sofocle). Uno oggi, potrebbe chiedersi: perché sono nato a Roma e non a Pechino? Perché da una famiglia d’intellettuali e non da una famiglia di analfabeti? Perché nato con la pelle bianca e non con la pelle nera? Perché parlo italiano e non russo o giapponese? Ecco: l’artista pone le domande. Non sa le risposte. Come non le sa il filosofo, non le sa lo scienziato: il filosofo e lo scienziato ci chiariscono com’è fatto il mondo, non ci spiegano perché è fatto così. Ed è la domanda che noi lettori, spettatori, visitatori di gallerie e di musei, dobbiamo porci insieme all’artista. L’artista ci obbliga a porcela, la domanda. E anche noi, come l’artista, non abbiamo la risposta, non siamo confortati, consolati. Ma il solo fatto di porcela, la domanda, ci rende più comprensivi, più tolleranti, per gli altri che si pongono le stesse domande, ma in modo diverso, e cercano risposte diverse dalle nostre; l’artista ci rende meno sicuri di possedere certezze o di credere che ciò che sappiamo sia definitivo. Ecco che cos’è l’arte: l’operazione di toglierci la terra sotto i piedi. Di sgombrarci la mente dalle illusioni, dalle false certezze, per obbligarci, ogni volta, a domandarci chi siamo, che cosa sappiamo. Lo dice anche un grandissimo poeta: !All’apparir del vero, tu (la speranza) misera sparisti. Ci piaccia o no, è questa la realtà con la quale dobbiamo confrontarci, nella vita. L’arte ce lo ricorda.


Fiano Romano, 22 – 25 maggio 2019

Dino Villatico




1Marino Demata su “Rive Gauche”, 26 novembre 2014.

lunedì 20 maggio 2019

Paulo maiora canamus




Paulo maiora canamus. Leggiamo John Freccero, grande dantista statunitense (come Charles S. Singleton, del resto, e non si dimentichi che G. S. Eliot è nato negli USA: questo per chi ancora si ostina a dire che gli “americani” sono ignoranti, come se gli italiani fossero un pozzo di scienza! Qualcuno lo è, esattamente come altrove, anche negli USA), in un bellissimo saggio, The Significance of Terza Rima, in Freccero, The Poetics of Conversion, Oxford University Press, 1888. Freccero, dunque, esamina il senso che ha nella Commedia l’uso della terzina. E’ diffusa l’idea che il 3 sia un corrispettivo simbolico della Trinità. Ma Freccero va oltre. Tanto per cominciare la terzina è composta di 3 endecasillabi e dunque di 33 sillabe. Ma la catena delle terzine prevede un percorso temporale infinito, se non ci fosse un blocco di due rime all’inizio e due alla fine di ogni canto: ABA BCB CDC … XYX YZY Z, in definitica A B C … X Y Z. A e Z hanno solo due rime, non tre. Ora la successione infinita è lo scorrere del tempo, perché la successione delle rime scandisce appunto il percorso dei versi nel tempo della dizione e della lettura. Ma anche il tempo, nell’indagine di Agostino, ha un inizio, la Creazione, e una fine, il Giudizio. La sua pienezza è Cristo. Cfr. Confessionum, IV. 10, dove Agostino confronta l’essere transeunte dell’uomo all’avvicendarsi delle parole in un discorso, una parola non può essere udita prima che la parola precedente non si sia estinta, XI, 28, dove Agostino riflette sull’essenza del tempo. Dio è al di là del tempo. Ma Cristo, incarnatosi, come scrive San Paolo, ne è insieme il punto di collisione e la pienezza, il collegamento del senza tempo con il tempo, l’immissione dell’eterno nel tempo. Perciò la parola Cristo non ha rima che con sé stessa. “La risposta non può essere che la seguente – scrive Freccero - : la rima è il movimento della temporalità, ora il Cristo trascende il tempo”. E pertanto la terzina rispecchia proprio questo movimento del tempo verso la sua abolizione: la visione finale di Dio, dove la spirale degli avvenimenti e delle terzine si conclude, e il pellegrino Dante diventa il poeta Dante che racconta il suo viaggio. Ci troviamo perciò in un rapporto di perfetta analogia tra linguaggio e tempo, tra linguaggio e mondo. Il mondo è come lo dice il linguaggio, è il poema di Dio, Bibbia, Corano, Avesta che siano. Non si dimentichi che il Vangelo secondo San Giovanni afferma che all’inizio dei tempi c’era il linguaggio, in greco Λόγος, che i latini tradussero Verbum, la Parola, e tale lo leggeva e intendeva Dante. Ma attribuendo anche lui, come Agostino, al termine Verbum il significato più ampio di linguaggio: signa sonantia. Significativo poi che l’immagine di Dio e dei beati non appaia nella Commedia come un cerchio bensì come una ruota mossa dal Motore Immobile, Dio, e cioè dall’ “Amor che move il Sole e l’altre Stelle”. L’extratemporalità di Dio, e dunque del Cristo, che tuttavia è la congiunzione tra tempo e non tempo, è messa in rilievo anche dall’uso di latinismi stridenti (il latino come strumento perfetto della cognizione del tempo, soprattutto Agostino, Confessioni, XI, 28): “ciò che il segno che parlar mi face / fatto avea prima e poi era fatturo” (Paradiso, VI, 82-3), “quel d’i passuri e quel d’i passi piedi” (Paradiso, XX, 105). Freccero accenna appena, poi, in conclusione, al fatto che la dialettica di questo movimento triadico è simile a quello della dialettica hegeliana. Ma Hegel costruisce la sua Fenomenologia dello Spirito proprio come Teologo, più che come Filosofo, particolare non trascurabile (nelle Univeristà tedesche c’era e c’è ancora la cattedra di Teologia)!

In margine: ecco qua alcuni punti dei due passi sconvolgenti di Agostino citati da Freccero.

Ecce sic paragitur et sermo noster per signa sonantia. Non enim erit totus sermo, si unum verbum non decedat, cum sonuerit partes suas, et succedat aliud” (Confessionum, IV,10).

Quis igitur negat futura nondum esse? Sed tamen iam est in animo expectatiofuturorum. Et quis negat praterita iam non esse? Sed tamen adhuc est in animo memoria prateritorum. Et quis negat praesens tempus carere spatio, quia in puncto praeterit? Sed tamen perdurat perdurat attentio, per quam pergat abesse, quod aderit (Confessionum XI, 28).

Signa sonantia! Segni sonori, le parole. Questa intuizione feconderà secoli di riflessione sul linguaggio, fino a Saussure, fino a Cavalli Sforza, fino ad oggi.

Corollario: giustamente Freccero sostiene la necessità di conoscere la teologia cristiana per capire Dante. Come dobbiamo conoscere la mitologia greca per conoscere e capire Omero. Che poi, tutto possa essere “trasportato”, anzi lo si debba fare, alla nostra sensibilità, alle nostre conoscenze, è un altro discorso. Ma il percorso è da Dante a noi, dalle conoscenze di Dante alle nostre. E non da noi a Dante, dalle nostre conoscenze a quelle di Dante. E’ un discorso fondamentale. Filologico, storico. Sorpassarlo, saltarlo, fraintenderlo, farebbe fraintendere anche l’opera che diciamo di apprezzare. Il che non impedisce affatto una nostra rielaborazione, rivisitazione: ma che risulterà feconda, e davvero attuale, solo dopo avere bene assimilato tutto il lungo, faticoso, ma prezioso lavoro dello storico e del filologo. Con tutte le arti. Con tutte le discipline. Anche con la musica, anzi, soprattutto con la musica. O qualunque rilettura moderna apparirà fuorviante.
In nota: del libro di Freccero esiste una traduzione italiana, edita dal Mulino.

Fiano Romano, 20 maggio 2019

mercoledì 15 maggio 2019

Shakespeare al circo




Fausto Paravidino: Shakespeare al circo
238 Hangar delle arti, Roma, 14 maggio

O for a Muse of fire, that would ascend
The brightest heaven of invention,
A kingdom for a stage, princes to act
And monarchs to behold the swelling scene!

Oh, per una Musa di fuoco, che potesse ascendere
al risplendente cielo dell’Invenzione:
un regno per palcoscenico, principi a recutare,
e monarchi a guardare una scena grandiosa!


All the world's a stage,
And all the men and women merely players:
They have their exits and their entrances;
And one man in his time plays many parts,
His acts being seven ages. At first the infant,
Mewling and puking in the nurse's arms.
And then the whining school-boy, with his satchel
And shining morning face, creeping like snail
Unwillingly to school. And then the lover,
Sighing like furnace, with a woeful ballad
Made to his mistress' eyebrow. Then a soldier,
Full of strange oaths and bearded like the pard,
Jealous in honour, sudden and quick in quarrel,
Seeking the bubble reputation
Even in the cannon's mouth. And then the justice,
In fair round belly with good capon lined,
With eyes severe and beard of formal cut,
Full of wise saws and modern instances;
And so he plays his part. The sixth age shifts
Into the lean and slipper'd pantaloon,
With spectacles on nose and pouch on side,
His youthful hose, well saved, a world too wide
For his shrunk shank; and his big manly voice,
Turning again toward childish treble, pipes
And whistles in his sound. Last scene of all,
That ends this strange eventful history,
Is second childishness and mere oblivion,
Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything.

Tutto il mondo è un palcoscenico,
e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori:
hanno le loro uscite e le loro entrate;
e un solo uomo nel tempo che gli è dato recita più parti,
perché i suoi atti sono le sette età. Dapprima l’infante,
che miagola e rigurgita tra le braccia della balia;
Poi lo scolaro piagnucoloso, con la sua cartella
e la faccia luccicante al mattino, strisciando come una lumaca
malvolentieri verso scuola. E poi l’innamorato
che sospira come una fornace, con una lagnosa ballata
composta per le ciglia dell’amata. Poi un soldato
pieno di strane imprecazioni e barbuto come un leopardo,
geloso dell’onore, lesto e svelto nella rissa,
che cerca bollente nomea
perfino nella bocca dei cannoni. E poi la giustizia,
con la bella pancia rotonda farcita di buon cappone,e fischia
con gli occhi severi, e la barba rasata a dovere,
pieno di saggi proverbi e di moderni esempi;
e così costui recita la sua parte. La sesta età scivola
nel magro e impantofolato pantalone,
occhiali sul naso, e marsupio al fianco,
le sue calze giovanili, ben conservate, un mondo troppo vasto
peri suoi smilzi stinchi; e la sua grossa e spessa voce,
mutata di nuovo in infantile pigolio, zufola
e fischia con il suo suono. L’ultima scena di tutte,
che finisce questa strana storia piena di eventi,
è una seconda fanciullezza e puro oblio,
sans denti, sans occhi, sans gusto, sans niente!

Fair is foul, and foul is fair:
Hover through the fog and filthy air.

Il bello è brutto, e il brutto è bello:
vola tra la nebbia e e l’aria sozza.

To-morrow, and to-morrow, and to-morrow,
Creeps in this petty pace from day to day
To the last syllable of recorded time,
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life's but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.

Domani, e domani, e domani,
striscia in questa minuscola pace da un giorno all’altro
fino all’ultima sillaba del tempo registrato,
e tutti i nostri ieri hanno illuminato a pazzi
la via per una polverosa morte. Via, via, piccola candela!
La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore
che si gonfia e si agita la sua ora sulla scena
e poi non se ne sa più nulla: è il racconto
narrato da un idiota, pieno di strepito e di furia,
che non significa niente.



Sono brani tratti da Enrico V (il prologo), Come vi piace (battuta di Jaques, con i francesismi dell’ultimo verso), Macbeth (canto delle streghe, all’inizio, disperazione di Macbeth, alla fine). Hanno in comune di paragonare la vita al teatro. Non è un tema esclusivo di Shakespeare. Tutto il teatro barocco vi si confronta. Calderón scrive El gran teatro del mundo, Corneille L’illusion comique. E la pittura, l’architettura barocche costruiscono immense scenografie teatrali, si pensi a Rubens, Bernini, tra i massimi. Il confronto non è casuale: il teatro raffigura meravigliosamente la fragilità, la caducità, l’irrilevanza della vita. Ma scombina anche l’ordine del tempo, disordina le differenze dei ruoli, abolisce la distinzione tra verità e finzione. Le certezze della Ragione rinascimentale crollano: il mondo appare “fuori sesto”, come dichiara Amleto. Il teatro diventa il luogo dove si sperimenta l’inafferrabilità della vita, perché la vita dei personaggi è transeunte, fuggevole, illusoria, come nella sostanza si scopre che è anche la vita degli uomini. E allora “il teatro è la vita” perché “la vita è teatro”, come dice Fausto Paravidino cominciando la sua dissertazione su Shakespare: “Shakespeare al circo”, all’Associazione 238 Hangar delle arti, una tenda di circo innalzata a Montesacro, nella periferia Est di Roma. Una lezione su Shakespeare? Da far tremare le vene e i polsi. Ma Paravidino sceglie una strada sua, un’angolazione che di Shakespeare ci fa comprendere soprattutto l’uomo di teatro, nemmeno il drammaturgo, immenso, ma l’uomo di teatro, drammaturgo, poeta, attore, regista, impresario di sé stesso. E Paravidino è appunto – come Shakespeare – drammaturgo, regista, attore. Alcuni aspetti del teatro di Shakespeare – anzi della sua scrittura come essenzialmente drammaturgia, prima ancora che letteratura, poesia - sono illuminati da una comprensione nuova, teatrale, appunto. E’ una lettura, a mio avviso, decisiva, chiarificatrice, anche della poesia di Shakespeare. Nella tradizione critica, soprattutto italiana, si è dato maggiore rilievo ai valori letterari, poetici, dei testi teatrali più che alle funzioni rappresentative dei testi teatrali, copioni per la realizzazione scenica. Ciò non diminuisce il loro valore poetico, ma ne spiega l’origine e insieme la funzione. Un equivoco simile si è sempre visto anche per la musica. Si è sopravvalutato il valore della partiture rispetto alla sua esecuzione: la partitura è solo il manuale della realizzazione musicale. Non va sottovalutato, certo, il valore della scrittura: permette di registrare e di fissare ciò che la memoria potrebbe non ritenere, e inoltre molto lavoro che la sola oralità non permetterebbe, la scrittura non solo lo permette, ma lo incoraggia. Tuttavia non va dimenticato, né per il teatro né per la musica, il ruolo, grandissimo, che ha avuto l’improvvisazione. Ecco, un testo teatrale nasce da tutte queste diverse e confluenti sollecitazioni. Shakespeare non fa eccezione. Anzi, non si comprende appieno la sua poesia se non la si senite, non la si vede nascere sulle tavole di un palcoscenico. Molti aspetti che alla sol lettura appaiono poco chiari o inconcludenti o contraddittori o equivoci, visti alla luce della recitazione acquistano tutto il loro senso. L’insistenza, anzi la proliferazione barocca delle similitudini nasce da un’esigenza uditiva, alla lettura basta una similitudine, all’ascolto, e all’ascolto di un pubblico circolare, che circonda l’attore, ripeterla, moltiplicarla la similitudine, e intanto l’attore si volta via via dalla parte della sezione di pubblico che lo circonda, la rende più efficace, la fa cogliere da tutti. Non a caso, nel coevo teatro spagnolo accade lo stesso. Ma perché sia la struttura del teatro inglese sia quella del teatro spagnolo, non sono frontali, come nel teatro italiano di tradizione classica, ma sono uno spazio che circonda l’attore e dentro il quale l’attore si muove penetrando settori di pubblico. Il prologo dell’Enrico V acquista, letto da questo punto di vista, tutta la sua chiarezza. Che significa “monarchi che guardano la scena”? Sono gli attori che si spostano in una parte dell’edificio dove sta anche il pubblico e vedono la scena con la stessa visuale del pubblico. Ma Paravidino ha insistito anche su un altro punto, e tirato in ballo una commedia bellissima, I due gentiluomini di Verona, ingiustamente trascurata dalla critica e dai teatranti. Non solo per la scena, straordinaria, in cui il giovane, sorpreso dal padre della ragazza che vuole rapire sotto le finestra della ragazza gli confessa per filo e per segno il proprio programma di rapimento, ma per l’altro giovane che s’innamora della ragazza dell’amico e diviso tra la fedeltà all’amico e la fedeltà a sé stesso, deduce che comunque farebbe tradimento, o all’amico o a sé stesso, e decide perciò di non tradire sé stesso. E’ un uomo nuovo che nasce. Intravisto da Machiavelli nella Mandragola. E personaggio da Mandragola è anche Otello, che in fondo cade vittima di una beffa. Che la beffa si volga in tragedia è il senso nuovo che della vita ha Shakespeare. I generi sono aboliti. L’ironia tragica non è ignota al teatro classico e meno che mai ai greci: Edipo è infondo l’inquisitore che cerca un assassino per scoprire alla fine che l’assassino è lui stesso: Agatha Christie non poteva inventare un plot migliore. Ma ciò ch’è nuovo in Shakespeare è l’ambiguità dei confini. Auerbach, in Mimesis, la individua bene tale ambiguità, quando analizza il monologo di Enrico V prima della battaglia. Paravidino, da quel raffinato drammaturgo che è, ed espertissimo attore, il colpo di scena lo colloca alla fine: non è commedia, non è tragedia, non è storia, non ha logica, è la vita, è il teatro, è Shakespeare! E il pubblico, giustamente, si spella le manni, applaude alla vita, al teatro, a Shakespeare. E – perché no? - a Paravidino che Shakespeare ce lo ha fatto rivivere come se stesse là sulla scena con lui e dicesse: ma sì, amico, collega, sodale, è così! Non può essere che così.



Fiano Romano, 15 maggio 2019