sabato 21 dicembre 2019

Marco Fumo: Reflections









Dal Barocco al choro1 brasiliano, dal ragtime allo stride piano2, dal neoclassicismo al tango, dall’impressionismo al jazz: `possibile mettere allo specchio musiche di stili, generi ed epoche diversi?” si chiede il pianista Marco Fumo, presentando questa sua incisione.

Ed ecco, attacca con una sonata di Scarlatti (K. 382) il cui attacco (ripetizione a allusione sono volute) assomiglia a quello di un’invenzione a due voci di Bach, proprio per stabilire subito uno specchio, un fondale di riflessione. Scarlatti, infatti, assimila e trasforma in maniera geniale ritmi e melodie della musica popolare spagnola che ascoltava per le strade di Toledo e di Madrid. E allora, sospendendo per un attimo il tempo (anche qui lo scontro, l’ossimoro di un attimo senza tempo è voluto), subito dopo ecco Odeón di Ernesto Nazareth (1863-1934), compositore brasiliano, anzi dell’Impero Brasiliano, che rielabora ritmi e melodie del subcontinente americano, in questo caso un tango, Odeón. E gli accostamenti continuano, curiosi, divertenti, ma soprattutto musicalmente rivelatori. Come il Tango di Stravinskij associato al Café de Barracas di Eduardo Arolas, argentino (1892 – 1924). Abilissimo Stravinskij a catturare il ritmo del tango, ma inflessibile anche nel circoscriverlo dentro un ambito invalicabile di compostezza classica.

Viejo café de Barracas,
turbios recuerdos de entonces,
que allá por el año once
tenía entreveros de facas…
Hoy has cambiado tu pinta,
todo es nostalgia y neblina,
ya no es muchachos de esquina
la del Café El Pasatiempo,
cuando tocaba en sus tiempos
el Tigre del Bandoneón.

(Vecchio caffè di Barracas,
torbidi ricordi di allora,
che là per l’anno undici
c’erano risse di pugnali …
Oggi hai cambiato il tuo colore,
tutto è nostalgia e foschia,
ormai non c’è ragazzi d’angolo
quello del caffè Il Passatempo,
quando suonava ai suoi tempi
la Tigre del Bandoneón).

Qui, per Arolas, nessuna compostezza, ma una libertà musicale che insegue la libertà dei versi. Si badi: non si sta ponendo differenze di qualità tra un genere e l’altro, ma di stile. Ciascun brano, a suo modo, nel proprio ambito, è un capolavoro. E non mancano riflessi dall’uno all’altro. Questo vuole dirci Marco Fumo. In un paese di guelfi e ghibellini, nel quale la differenza di genere è una differenza di valore, questa libertà è una specie di controveleno. Perché anche Stravinskij, nel suo amibto, è libero: di trattare ritmi e motivi popolari, o d’intrattenimento, come una materia classica da sottoporre a elaborazione contrappuntistica. Tutto ciò risulta ancora più chiaro con un’altra coppia. Un valzer di Joplin, anzi, forse, un valzerino, già di per sé di carattere popolare, ma imbrigliato in una logica da pièce de salon tardottocentesca, accostata a un valzer di Aníbal Troilo, Romance de barrio. Ecco qui il link per ascoltarlo, questo bellissimo e tristissimo romance:


Già Joplin rielabora a suo modo il ritmo del valzer, sembra quasi di vederli danzare i giovani palestrati americani, sgambettanti e saltellanti con forza. Troilo ci conduce, invece, nella tragedia dei distacchi. Romance è un parola che ha un lunghissimo passato in spagnolo. All’inizio indicava le gesta di eroi cavallereschi. Raccontava le prodezze del Cid Campeador. Poi finì col raccontare storie più private. E nel secolo XVII è spesso all’origine di molti drammi, soprattutto di Lope de Vega, per esempio del bellissimo Caballero de Olmedo. Ha una struttura metrica che si trasmette di secolo in secolo, ottonari con assonanze nei versi pari. Il testo moderno di questo romance mescola invece rime vere e proprie e assonanze. E il romance è una storia privata di quartiere. Un amore che senza colpa di nessuno finisce.

Primero la cita lejana de Abril,
tu oscuro
balcón, tu antiguo jardín,
más tarde las cartas de pulso febril
mintiendo que no, jurando que s
í.

Romance de barrio, tu amor y mi amor,
primero un querer, después un dolor,
por culpas que nunca tuvimos,
por culpas que debimos sufrir los dos.

(Dapprima l’appuntamento lontano di Aprile,
il tuo oscuro balcone, il tuo antico giardino,
più tardi le lettere di polso febbrile
mentendo che no, giurando che sì.

Romance di quartiere, il tuo amore e il mio amore,
dapprima un amarsi, dopo un dolore,
per colpe che mai non avemmo,
per colpe che dovemmo soffrire tutti e due).

L’ultimo “riflesso” è tra Debussy (Claire de lune, dalla Suite Bergamasque) e Duke Ellington, con un brano che dà il titolo a tutto il cd: Reflections (in D), riflessi (in re maggiore) – tra parentesi le parole che dal titolo sono state espunte.

Un viaggio, un’avventura, che libera il cervello da griglie, caselle, etichette. Il filo rosso ce lo regala, splendido, luminoso, Marco Fumo. Una lezione d’interpretazione, di che cosa sia un’interpretazione, e come, anzi, qualunque esecuzione non può essere altro che un’interpretazione: anche l’esecuzone cattiva, sbagliata, asettica, menzogneramente oggettiva (suono ciò ch’è scritto, dicono molti; ma è una cosa che non è possibile: quale piano rispetto a quale forte?), anche l’esecuzione furba, cialtronesca, resta sempre un interpretazione, un’interpretazione appunto cattiva, sbagliata, asettica, menzogneramente oggettiva, furba, cialtronesca.

Marco Fumo abolisce i confini di genere. Non è che un tango, perché è un ballabile, si debba suonare con minore accuratezza di un valzer di Chopin. L’accuratezza deve essere la stessa. La differenza sta altrove. Ed è una differenza d’interpretazione, l’interpretazione che coglie le differenze di genere. Mi sono trovato molto spesso a disagio quando, per esempio, grandi soprani, senza fare nomi, affrontano il repertorio afroamericano, spirituals, jazz vero e proprio. Lo stesso disagio che provo quando sento un tenore sparare le canzoni napoletane. Si sente che, tanto i soprani che i tenori, agiscono in un campo che non è il proprio. Per esempio, dimenticano, diciamo così, di lasciare perdere l’impostazione melodrammatica della voce, l’impostazione vocale alla quale sono abituati e che devono impostare per cantare Verdi o Wagner. Devono cantare a voce nuda, che sia uno spiritual o una canzone napoletana, e non sanno o non vogliono farlo. Anche i pianisti incorrono nello stesso sbaglio quando escono dal repertorio “classico”. Oddio! Spesso i pianisti, a dire il vero, vanno fuori strada anche solo se, invece di suonare Rachmaninov, devono suonare Haydn. O Bach. Ecco, Marco Fumo, invece, ci fa percepire la differenza dei generi – il suo Clair de lune è mirabile per discrezione di fraseggio e delicatezza di tocco, il suo Scarlatti da manuale – ma in Joplin, Troilo, Arolas e, naturalmente, Duke Ellington, c’è un altro clima. Ecco: si tratta proprio di questo, di atmosfere diverse, ciascuna, in sé, con il suo fascino, la sua bellezza. E soprattutto: che grande esercizio di libertà, anche mentale, passare da un genere all’altro! Quando ascoltate questo cd non state a impazzire per capire che cosa è che cosa, chi è il compositore, che genere di musica ascoltate. Abbandonatevi, con la testa e con il corpo, completamente, semplicemente, all’ascolto, e godete. Sarà una liberazione anche per voi. Come se spezzaste le catene di una schiavitù. Che non sono solo catene musicali, ma catene mentali secolari che noi italiani ci teniamo strette addosso: che non conta la cosa, ma di chi è, da che parte sta; non conta la verità di un’affermazione, la bellezza di un’idea, ma chi la dice, chi la propone. Guelfi e ghibellini. Giusti e sbagliati. Furbi e sfigati. Personaggio che conta, tipo che non è Nessuno. Ma vogliamo smetterla, una buona volta? Ascoltiamo Marco Fumo. Abbiamo molto da imparare da lui.

REFLECTIONS
marco fumo
ODRADEK ODRCD 524




1termine portoghese che significa lamento o pianto .
2loc. angloamericana (stride, camminare a grandi falcate+piano, pianoforte) usata in italiano come sm. Stile pianistico jazz sorto a Harlem verso il 1920. Eredita dal ragtime la struttura e i ruoli delle due mani (la sinistra fornisce bassi, spinta ritmica e armonie con un continuo “um-pa um-pa”; la destra ricama melodie e abbellimenti), cui aggiunge l' improvvisazione e la pronuncia ritmica swing. Ne fu caposcuola J.P. Johnson, seguito da T. “Fats” Waller e Willie “the Lion” Smith. Ebbe schiere di praticanti negli anni Venti, quando risuonava nelle case di Harlem dove si tenevano feste private. Sebbene fosse usato per il ballo e l'intrattenimento, lo stile stride piano è musica d'arte, non folk, eseguita da veri virtuosi, dotati di grande preparazione tecnica e teorica. Esso ha influenzato anche molti pianisti dei decenni successivi (Duke Ellington, Earl Hines, , T. Wilson, A. Tatum)

venerdì 20 dicembre 2019

Elegy, Pina Napolitano interpreta Schoenberg e Bartók







Ma in quanti e quali recessi può nascondersi l’ottusità di un pregiudizio ideologico! Pre-giudizio, appunto. Prima, o fuori, cioè, del giudizio. Continuo a leggere, costernato, giudizi secchi di condanna per opere, musicali, letterarie, figurative, che non ubbidiscano a una predeterminata idea d’avanguardia, da una parte e, sulla stessa opera, dall’altra, di un’identica e secca condanna perché invece troppo d’avanguardia. Per esempio: il concerto op. 42 per pianoforte e orchestra di Schoenberg. Troppo nostalgicamente espressionistico, per alcuni, gli avanguardisti; troppo sgradevole, dissonante, per altri, i nostalgici del paradiso perduto della tonalità. Per entrambi gli schieramenti, e per opposti motivi, nessuno in realtà che riguardi l’opera, un’opera fallita, sbagliata.

Ma se uscissimo, finalmente, da questi pre-giudizi? Se la smettessimo, una buona volta, di giocare a guelfi e ghibellini? La domanda corretta da porsi è, infatti, non se l’opera ubbidisca a modelli, bensì: è scritta bene, è scritta male? È coerente? Ha una sua logica costruttiva? Se sì, è un’opera riuscita. Se no, qualunque sia la sua impostazione, è un’opera non riuscita. A mio avviso è un capolavoro. Ma non perché rinuncia, come sembra (ma non è vero), al rigore seriale e appaia più accattivante di altre opere. Non rinuncia, in realtà, a nessun rigore, perché il problema del rigore, dell’ubbidienza a un modello, nemmeno se lo pone: qual è, di fatti, il rigore di una scrittura seriale? evitare le terze, le seste? Schoenberg non si è mai posto rigide barriere, muri prescrittivi non scavalcabili. E perfino un compositore maniacalmente costruttivo come Boulez confessa poi di porsi impedimenti e regole difficili per il piacere di infrangerli. E’ un po’ come quando negli esercizi di armonia si proibiscono le quinte parallele. Il che ha una senso solo in una scrittura polifonica, e di fatti quando i compositori vogliono uscirne non osservano il divieto. Ma se escono lo fanno consapevolmente. Sta qui il punto: le quinte non devono nascere da una scrittura distratta o disattenta o inesperta, ma solo dalla volontà di usarle. Ecco allora che, per esempio Mozart e Chopin vi ricorrono, qualche volta. Non sono l’eccezione che conferma la regola. Lo fanno perché lo permette il piano compositivo che si sono scelti, il percorso di scrittura che hanno programmato.

Il concerto schoenberghiano segue, del resto, una propria originalissima idea di riesame di tutti i parametri storici della composizione, almeno da Brahms e Wagner in poi; a parte questo, l’ascoltatore non prevenuto, né nel senso di un’adesione alle avanguardie né nel senso di un rifiuto di ciò che travalichi l’eufonia di un’immaginaria tonalità mai storicamente esistita, seguirà con crescente interesse e partecipazione – eh sì! anche quella, emotiva, viscerale, istintiva – perché no? - che poi anche l’istinto, l’emozione non è irriflessivo, automatico, ma è il frutto di cultura, di educazione, di formazione individuale – seguirà, dico, con emozione, con partecipata emozione, questa che è un’avventura talmente carica di storia musicale da far venire le vertigini, a cominciare dall’attacco: Brahms, forse? primo concerto per pianoforte? Wagner, Tristano? Per favore, buttiamole nella spazzatura le nostre attese di come dovrebbe essere la musica che ascolteremo e abbandoniamoci a scoprire invece com’è.

Sto ascoltando l’interpretazione di Pina Napolitano, insieme alla Liepāja Symphony Orchestra diretta da Atvars Lakstīgala (cd Odradek). Incisione splendida, anzi entusiasmante. Accostamento illuminante con il Terzo Concerto di Bartók. I due concerti sono quasi coevi, del 1944 Schoenberg, dell’anno seguente Bartók. Tutti e due attaccano con un a solo del pianoforte (come il Quarto di Beethoven! un caso?), ma Bartók sostiene il pianoforte con una fascia sonora proposta dai violini secondi e dalle viole. Pina Napolitano queste memorie musicali sembra sprigionarle dalle dita, dal tocco, ora morbido, ora duro, dalla libertà del fraseggiare, dall’abbandono al canto, quando si deve cantare, dal distacco quasi analitico di una successione armonica, quando a prevalere nella pagina è la pura costruzione armonica degli accordi o l’incatenarsi contrappuntistico delle frasi. Apparentemente Bartók, tuttavia, a differenza di Schoenberg non sembra uscire dai parametri tonali. Ma che tonalità è? Senza andare troppo indietro, quella di Liszt, ungherese come lui? No, non è Liszt. Anche Šostakovič e Prokofiev, anche Janáček, restano in ambito tonale, se ci si pensa. E allora? Allora, le funzioni armoniche non hanno la stessa interdipendenza, interrelazione che avevano, che so, in Schubert. Cambiano di epoca in epoca, anzi da compositore a compositore nella stessa epoca.

Ecco, dunque, che cosa intendo per pre-giudizio: aspettarsi che l’opera si adegui a un modello, ma non a quello magari predisposto dall’autore, bensì a quello che, da parte di chi ascolta (o legge, o guarda) si è scelto come inappellabile riferimento, sia questo modello ispirato alla nostalgia dell’irreversibile passato oppure a un’astratta idea di rigore avanguardistico. Nessun artista, nemmeno il più mediocre, il più corrivo, il più commerciale, si adegua al modello che chi si accosta all’opera si aspetta: tra ascoltatore e musicista, tra lettore e scrittore, tra osservatore e pittore, si inserisce sempre qualche sorpresa, qualche deviazione, che il musicista, lo scrittore, il pittore sbattono sul pentagramma, sulla pagina, sulla tela, per disorientare chi ascolta, chi legge, chi guarda. E bisogna cogliere proprio la sorpresa, la deviazione, per comprendere il senso dell’opera: se ne proverà allora un piacere ancora maggiore che se l’opera accondiscendesse a tutte le predisposte attese del fruitore. In una parola, chi si accosta a un opera d’arte non deve sovrapporsi all’artista, ma deve sforzarsi di capire che cosa l’artista vuole proporgli. Deve dimenticare il proprio io per entrare nell’io dell’artista. Che è tra l’altro la regola fondamentale di qualunque ascolto, anche interpersonale, anche nella vita quotidiana, anche nell’amicizia, in famiglia, nell’amore. Tanto più dunque con un artista. Vogliamo smetterla, dunque, di imporci sempre all’opera e ai nostri simili come inguaribili, infantili, insopportabili, spocchiosi Narcisi, autosufficienti e soddisfatti solo dalla propria autistica insensibilità? Vogliamo finalmente capire che la bellezza, il “valore”, non sta quasi mai nel soddisfacimento dei propri appetiti, bensì nella scoperta di ciò che l’altro offre al nostro appetito, in una parola non nella scoperta di noi, bensì dell’altro? Vogliamo finalmente afferrare la realtà che solo quando capisco quanto l’altro è diverso da me e dunque chi sa proprio per questo più attraente, perché ancora sconosciuto, solo allora capisco veramente anche me stesso, la complementarietà dell’altro a me stesso e, più profondamente, la mia complementarietà non solo a lui, ma al mondo? Vogliamo finalmente godere dell’immenso, inesauribile godimento di regalarci ciascuno all’altro ciò che si è? E come faccio ad abbandonarmi al piacere dell’altro, che mi può dare l’altro, se non mi sforzo di conoscerlo quest’altro?

Formidabile, poi, anche il Bartók che in questo cd ci propone Piana Napolitano. Si ascolti l’affondare in regioni armoniche apparentemente statiche, in realtà più insidiose delle sabbie mobili, che sorprende l’ascoltatore nelle prima battute dell’adagio religioso, per poi tuffarlo in una tempesta senza ritorno, che non sia ancora, di nuovo l’alveo di un’immobilità irrequieta. E’ l’inimitabile capacità di Bartók di immergerci in un’ossimoro musicale, in una sorta, cioè, di silenzio musicale, di sospensione delle attese, perché in realtà tutte le attese sono in allerta e tutto può accadere. Sublime! Straordinaria Pina Napolitano a restituircelo, così immobile e insieme inquieto, così carico di attese inespresse, ma che proprio perciò si fanno per così dire l’espressione di un’unica insondabile attesa, forse, l’ultima, quella senza ritorno. Anche di Bartók dissero, scrissero, dicono, scrivono, che nel terzo concerto ammorbidisce le proprie asprezze armoniche, attenua le asperità ritmiche. E per lo stesso motivo: accondiscendere ai gusti più conservatori del pubblico americano. E se invece fosse, per i due esiliati, un ripiegarsi su sé stessi? L’Europa naufragava in una catastrofe incommensurabile. E con essa l’utopia di una cultura sovranazionale. La mescolanza di popoli e di culture degli USA, di quell’utopia non erano nemmeno l’ombra, celava anzi in sé una diversa, ma non meno aggressiva forma di nazionalismo. E d’intolleranza. Nessuno che si fosse proclamato apertamente ateo o anche solo agnostico ne sarebbe potuto diventare il Presidente: la Costituzione comincia nominando Dio. Il laico Bartók come l’ebreo Schoenberg, scacciati dal furore nazista in Europa, non avevano trovato qui la promessa utopia realizzata. Fermenti di divisione e di odio, sotto la cenere di una guerra civile mai veramente superata, covavano anche lì. Presto una nuova divisione del mondo sarebbe venuta a chiarire le posizioni, di nuovo il giusto e l’ingiusta dall’una o dall’altra parte, fossero Washington o Mosca, Pechino o Parigi. E allora quella sintesi del dolore musicale come si era venuto concentrando nell’ultimo secolo, appariva più che come un nostalgico sguardo al paradiso perduto – non c’era mai stato nessun paradiso, nemmeno per l’aereo Mozart – come una bottiglia nell’oceano: salvatemi, se potete. Sia Schoenberg sia Bartók. Entrambi sotto il segno dell’unica ancora che possa legarci a una realtà sopportabile: la libertà, del proprio cervello, più che del proprio corpo. Ammesso che senza un corpo si possa disporre di un cervello.

Ai due concerti sono associati, come due intermezzi, l’Accompagnamento per una scena cinematografica di Schoenberg e l’Elegia sinfonica di Krenek, che dà il titolo al cd. Intelligente, sensibile, la lettura di Lastīgala è lucida, limpida, quanto la scrittura di Schoenberg e di Krenek.

Elegy
Schoenberg - Bartók – Krenek
Pina Napolitano
Liepāja Symphony Orchestra
Atvars Lastīgala, dir.

Odradek ODRCD339
1 cd


venerdì 13 dicembre 2019

Roma, I Vespri Siciliani








Il senso dello spettacolo si coglie dal balletto del terzo atto. Quello che nasce come divertissement diventa il nodo che chiarisce il messaggio della vicenda. Quanti, alla prima, hanno disapprovato questo momento si sono chiusa la possibilità di capire quale interpretazione la regista Valentina Carrasco abbia voluto offrirci dei Vêpres siciliennes di Verdi. Ormai Pina Bausch avrebbe dovuto abituarci a decodificare segni e simboli della danza moderna. Evidentemente non è così. Il grand-opéra prevede al suo interno uno o più episodi di balletto. La tradizione italiana confinava il balletto alla fine del melodramma, come divertimento finale, dopo la conclusione della rappresentazione del melodramma. La tradizione francese incorpora il balletto nella drammaturgia dell’opera. Il balletto non è, insomma, un momento esornativo, un divertimento, ma parte stessa dell’azione. Ciò, perché il teatro francese ha sempre privilegiato l’unità drammaturgica degli elementi che compongono l’azione sulla prevalenza di uno di essi. In altre parole, il pubblico francese non dimentica mai di assistere a un’opera teatrale, ed è la drammaturgia dunque il fattore che conferisce unità all’opera. Ecco perché in genere il significato dell’azione coreografica si collega al significato della vicenda. O, metaforicamente, al rapporto tra rappresentazione e vita. Nella Gioconda di Ponchielli, che nasce in un momento nel quale il melodramma italiano ha assorbito più di un elemento dell’opera francese, la Danza delle Ore stabilisce proprio questo rapporto tra rappresentazione della vicenda e rappresentazione della sua metafora quasi filosofica, lo scorrere del tempo. Qui, nei Vespri, Verdi porta in scena, come metafora, le Quattro Stagioni. Il tempo, in tutti e due i casi, mette in evidenza l’unità temporale della drammaturgia. La Gioconda, comunque, nasce 21 anni dopo i Vespri. Va in scena alla Scala di Milano nel 1876, lo stesso anno in cui Wagner inaugura il primo Festival di Bayreuth con la rappresentazione dell’Anello del Nibelungo. Verdi, compositore e drammaturgo sperimentale come pochi altri, è attratto dal grand-opéra non solo per il richiamo internazionale che un’opera siffatta riscuote, ma proprio per sperimentare un nuovo tipo di drammaturgia. Poteva riposare sugli allori, dopo il successo europeo della Trilogia, ma rischia un nuovo tipo di teatro. Lo stesso grand-opéra, dopo di lui, non è più come prima, perché Verdi v’immette tutta l’esperienza precedente della drammaturgia melodrammatica italiana, anche se, con e dopo Rossini, il melodramma italiano aveva assorbito già molto dell’opera francese. 

 

Valentina Carrasco, aiutata per il balletto, da Massimiliano Volpini, immagina il balletto come un’azione che rievoca o, meglio, riassume il significato della vicenda. Le stagioni diventano ciascuna un personaggio, e l’azione coreografica rende visibile il trauma della loro esistenza. Naturalmente ciò non sarebbe stato possibile con le forme e lo stile del balletto classico, e qui soccorre l’esperienza di Pina Basch che ha reinventato la danza come rappresentazione dell’oggi. Chi non abbia visto o compreso il lavoro di Pina Bausch può pensare che i gesti, sconvolgentemente nuovi, attuali, anche rivoltanti, comunque scardinanti ogni concezione classica del balletto, possano essere compiuti da chiunque, anche da un inesperto di balletto, da chi non abbia affrontato il duro lavoro di studio che richiede la danza. Niente di più sbagliato. Solo una severa formazione nell’arte della danza permette al danzatore di realizzare quei movimenti, che sono calcolati punto per punto. Si aggiunga a ciò la musica bellissima, travolgente, sinfonicamente interessantissima, che Verdi compone per questo balletto, e si potrà capire come l’effetto insieme estraniante e coinvolgente sia una folgorazione. Ma ciò è stato reso possibile perché tutta la concezione della messa in scena è una riscrittura della drammaturgia verdiana.

La rivolta che scoppiò a Palermo il lunedì dell’angelo del 1282, ai vespri, è già in Verdi metafora di un popolo che si libera dal dominio straniero, diventa dunque nello spettacolo romano, per la Carrasco, la rappresentazione di qualunque lotta per la libertà, oggi, nel mondo. Le nude, geometriche e petrose scene di Richard Peduzzi collocano l’azione dentro una cava, in una città senza tempo, di oggi, ma potrebbe essere anche l’antico Egitto, o l’Egitto di oggi, o la Palestina, e s’immagina dentro un paesaggio arido. E all’oggi rinviano anche i sobri costumi di Luis F. Carvalho, le divise militari, i jeans di Arrigo, l’abito attillato di Elena.



Ma la scena e la regia da sé non avrebbero prodotto l’impatto intenso che ha provocato questa rappresentazione sul pubblico della prima, salvo i soliti inguaribili contestatori, se l’interpretazione musicale impressa alla partitura da Daniele Gatti non si fosse retta su una assai lucida lettura della drammaturgia musicale verdiana e su un’esasperata forza espressiva del ritmo e della melodia. Le più che quattro ore di spettacolo sono filate via come un soffio, inchiodando il pubblico alle poltrone. Si sente dire, e si legge scritto, che quest’opera di Verdi è un sacrificio concesso al grandf-opéra, ma che l’opera è discontinua, lenta, noiosa, qualcuno dice, e scrive perfino, ch’è brutta. L’interpretazione di Gatti, che trova un riscontro perfetto sulla scena, dimostra che invece l’opera è concepita con una straordinaria unità d’intenti, è di una tensione drammatica continua, a volte addirittura esasperata, e non fa cadere nessun momento della musica, e dunque dell’azione, nel vuoto.

Il cast, più che per singole prestazioni di spicco, si mostra ammirevole per l’omogeneità interpretativa, l’aderenza della recitazione alla musica. Ma non si può dimenticare, tra gli altri, tutti ottimi, l’intensa Elena di Roberta Montagna, il riflessivo e tormentato Monfort di Roberto Frtontali, l’eroico Henri di John Osborn e il cupo Procida di Michele Pertussi. E la prestazione dell’Orchestra, del Coro del Teatro. Ma un particolare elogio va tributato al Corpo di ballo, diretto da Eleonora Abbagnato. La sicurezza dei nuovi mezzi necessari alla realizzazione della danza moderna è eccezionale. Tutto il terzo atto, la scena della festa, il balletto delle Stagioni, è da antologia. Ma anche gli altri momenti, in cui è visualizzata la violenza del dominatore sui dominati, e soprattutto sulle dominate, è ammirevole. Splendido, davvero, questo corpo di ballo. Da non perdere, tutto lo spettacolo!



 
TEATRO DELL'OPERA DI ROMA


Les vêpres siciliennes

Musica di Giuseppe Verdi
Grand-Opéra in cinque atti
Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier

Prima rappresentazione assoluta, Teatro dell’Opéra di Parigi, 13 giugno 1855
Prima rappresentazione al Teatro Reale dell’Opera di Roma 3 ottobre 1940

DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA Valentina Carrasco

MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE Richard Peduzzi
COSTUMI Luis F. Carvalho
LUCI Peter Van Praet
COREOGRAFIA Valentina Carrasco e Massimiliano Volpini

PERSONAGGI E INTERPRETI
Guy de Montfort Roberto Frontali / Giorgio Caoduro 17
Le sire de Béthune Dario Russo
Le comte de Vaudemont Andrii Ganchuk*
Henri John Osborn / Giulio Pelligra 17
Jean Procida Michele Pertusi / Alessio Cacciamani 17
La duchesse Hélène Roberta Mantegna / Anna Princeva 17
Ninetta Irida Dragoti*
Danieli Francesco Pittari
Thibault Saverio Fiore
Robert Alessio Verna
Mainfroid Daniele Centra

*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

ORCHESTRA, CORO E CORPO DI BALLO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
Con la partecipazione degli allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
In lingua originale con sovratitoli in italiano e inglese

PRIMA RAPPRESENTAZIONE
Martedì 10 dicembre, ore 18.00
REPLICHE
Venerdì 13 dicembre, ore 19.00
Domenica 15 dicembre, ore 16.30
Martedì 17 dicembre, ore 19.00
Giovedì 19 dicembre, ore 19.00
Domenica 22 dicembre, ore 16.30

ANTEPRIMA GIOVANI
Sabato 7 dicembre, ore 18.00

Mahler al pianoforte




Con ritardo mi occupo di un interessante concerto tenutosi al Teatro di Villa Torlonia, per la stagione di Roma Tre Orchestra, domenica 8 dicembre. Il duo pianistico Labor Limae, i giovani pianisti Andrea Feroci e Francesco Micozzi, ha interpretato la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler trascritta per pianoforte a quattro mani da Otto Singer jr., applauditissimo, alla fine dell’esecuzione. Giustamente, non solo per l’immane fatica, ma per l’intelligenza dell’interpretazione. Era, prima dell’invenzione de grammofono, e anche oltre, una pratica assai diffusa, quella di suonarsi a casa il repertorio sinfonico trascritto per pianoforte.

L’ho fatto anche io, nei miei anni giovanili. Ricordo con gratitudine e affetto una dolce, simpatica signora viennese che viveva a Fiume, che tutti chiamavano Tante Zerline, Zia Zerlina – e il nome dice tutto sull’amore della sua famiglia per la musica – con la quale suonavamo insieme, oltre alle sonate di Mozart, alla musica di Schubert, anche le sinfonie di Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert e, soprattutto, Schumann, il compositore da lei preferito. Ma anche Johann Strauss e Lehár. In Italia l’esperienza del repertorio sinfonico e operistico passava, invece, soprattutto attraverso le prestazioni delle bande musicali. Non mancavano, tuttavia, anche esperienze come quella delle borghesie tedesca, ungherese e inglese. In Ungheria, anzi, come mi disse una volta Pressburger, il pianoforte non era difficile vederlo anche nella casa di un contadino. Gli stessi compositori, fino al Novecento inoltrato, facevano sentire le proprie nuove composizioni suonandole al pianoforte. Altro fatto è suonare queste trascrizioni in concerto. E non è affatto un’esperienza da trascurare o da sottovalutare, con disprezzo snobistico. Ci sono pianisti, per esempio, che suonano in concerto le bellissime trascrizioni lisztiane delle sinfonie di Beethoven.

Ma veniamo al concerto dell’Immacolata, al Teatro di Villa Torlonia. La Quinta Sinfonia di Mahler è una partitura assai complessa, più complessa perfino delle quattro sinfonie precedenti, che pure non sono semplici. Rinuncia, come la Prima, e poi come le due seguenti, Sesta e Settima, e la Nona, all’intervento della voce. Ma in compenso gioca molto sulla varietà dei timbri strumentali. La fantasia musicale mahleriana è fondamentalmente contrappuntistica e pensa contrappuntisticamente anche la strumentazione, che non è pertanto solo una veste sinfonica dell’invenzione musicale, ma una vera e propria immaginazione della musica attraverso la combinazione contrappuntistica dei timbri strumentali dell’orchestra. Cambiando strumento una melodia può cambiare totalmente di carattere. E questo, al pianoforte è irrealizzabile. In compenso il pianoforte esalta il lavoro contrappuntistico della scrittura musicale. Proprio perché operata su un unico strumento, la combinazione contrappuntistica delle voci, che affidata agli strumenti dell’orchestra poteva apparire colore caratteristico, estrosità pittorica, si rivela invece come l’asse portante dell’invenzione. E proprio questo i due bravissimi giovani ci hanno restituito: l’intricata intelaiatura contrappuntistica della partitura sinfonica. 

 

Il successo non poteva mancare, il pubblico ha superato l’ora e un quarto circa dell’esecuzione pianistica di una sinfonia senza battere ciglio, conquistato, affascinato, commosso. Capolavori a domicilio, s’intitola la rassegna di musiche sinfoniche trascritte per pianoforte. Un’esperienza istruttiva. E adesso, che mi venga qualcuno a dire che la musica è frutto di un’ispirazione segreta, invece che il capillare lavoro di scrittura che è, come per qualsiasi arte, del resto, l’ispirazione può dare, come dice Baudelaire, l’idea di partenza, ma tutto il resto è lavoro, paziente, faticosissimo, tenace lavoro.

ROMA TRE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
romatreorchestra
Teatro di Villa Torlonia
Duo Labor Limae
Andrea Feroci, Francesco Micozzi
pianoforte a quattro mani

Gustav Mahler, Quinta Sinfonia trascritta per pianoforte a quattro mani da Otto Singer jr

Domenica 8 dicembre 2019

martedì 3 dicembre 2019

Lo Zen e l'arte di aprire una porta aperta




Bruno Ballardini, Lo Zen e l’arte di aprire una porta aperta.
Milano, Piemme, 2018, pagg. 178, € 17,50

Non sono forse la persona più giusta per scrivere di questo libro, perché della cultura giapponese, e orientale in genere, sono informato solo attraverso traduzioni. Non conosco né il cinese né il giapponese, e pochissimo il sanscrito. Ma fin dagli anni giovanili mi sono interessato delle culture orientali: attraverso le traduzioni italiane, francesi, inglesi, tedesche dei testi filosofici, di poesia, di narrazione, e della vasta letteratura storica e critica, soprattutto francese, sulla cultura cinese (Granet) e le altre culture orientali. Mi è stato però credo sufficiente, per comprendere la differenza di chi parla e scrive di cultura orientale perché la conosce e di chi ne riecheggia solo ciò che la moda del momento gli suggerisce. Bruno Ballardini, già a una prima lettura, mostra di muoversi in territorio familiare. A cominciare dalle “riflessioni pre liminari” (perfetto: prima dei confini, prima de limiti, come chi si addentri in zone sconosciute, dove non ci sono leoni, ma lingue e usanze da conoscere). I riti di passaggio esistono e sono fondamentali in ogni cultura. Significa passare da una zona della vita a un’altra. E a lungo questo passaggio è stato ritualizzato, anche nelle civiltà che consideriamo più “avanzate” (dovremmo però smetterla di considerare barbare o selvagge, le altre!1), per esempio quella greca e romana. Nelle società moderne si parla di maggiore età, quando si diventa cioè maggiorenni e si ha diritto di votare. Osserva Ballardini: “… l’umanità di oggi, persi quei riti, resta sospesa in un’eterna condizione infantile, non avendo più chiaro quando debba avvenire il passaggio nell’età adulta, e senza più una chiara consapevolezza dei ruoli che deve ricoprire nelle varie stagioni della vita, con l’assunzione di responsabilità che comporta” (pag. 5).

In questo libro Ballardini affronta il mondo Zen. L’occidentale lo conosce per stereotipi (ma che cosa l’uomo del tramonto non conosce per stereotipi?). Quando mi sono trasferito nella casa dove adesso vivo, sulle colline del borgo sabino di Fiano Romano, volevo costruire nel mio giardino uno spazio zen, un giardino di pietre. Ancora non l’ho realizzato, perché devo trovare il sistema di non far crescere l’erba senza usare diserbanti. Ma è significativo che tutti i giardinieri che ho consultato – tranne uno, che ahimè! non c’è più! - abbiano commentato la mia richiesta con una scrollata di spalle: ah! quella cosa che non è un giardino ma quattro pietre che non servono a niente, non sono un pavimento, non sono aiuole!

Ecco, credo che stia qui il nodo della questione. Una cosa non è quello che è, ma quello per cui serve, quello per cui sembra. E soprattutto: quello che io so per cui serve, che io vedo com’è. Per esempio, un quadro. Tutti pensano in genere di vederlo come l’ha dipinto il pittore. Scrive Ballardini: “Un quadro si può guardare, ma in nessun modo potremo avere la stessa visione dell’artista che l’ha dipinto” (pagg. 18-19). Proviamo a metterci da parte. A sospendere il giudizio. A non credere che la mia impressione, la mia opinione corrispondano esattamente alla realtà che le ha suscitate. “Questo non è arte”, dicono i più davanti a un’installazione moderna di un artista. Ma se poi gli chiedi che cosa è l’arte, balbettano. O dicono: il bello, qualcosa che tutti capiscono. Ah sì? Perché naturalmente un milanese, un romano, che non siano mai stati in Africa o non abbiano mai studiato le culture africane, capisce subito il senso, la bellezza di una maschera rituale o di un totem. Capisce ciò che lui crede bello, ciò che lui intuisce del loro significato. Sempre un io, io io io, che guarda, giudica, crede di sapere ciò che vede. Perché l’emozione glielo dice o per ispirazione divina. E se poi uno gli fa osservare che magari l’africano che ha costruito la maschera, il totem, della bellezza proprio non gliene fregava niente, s’incazza. Ma come niente? Lo vedo io ch’è bello! (Si dà anche il caso che qualcuno dica: d’accordo, infatti è brutto). Ecco, questo libro di Ballardini cerca non già di rispondere a queste questioni (è impossibile!) ma di togliere il bisogno di porsele. Perché non hanno senso, perché non sono una ricerca della realtà, bensì un’invasione del proprio io nella realtà. Che senso ha una pietra? Ricordate un bellissimo episodio della Strada di Fellini? Gelsomina e il Matto parlano. Il Matto a un certo prende in mano una pietra e dice: se questa pietra non ha senso, niente ha senso. E se ne va. Gelsomina prende in mano la pietra, la guarda, la rigira, e poi la butta via.

Lo Zen ha molte origini. Una è il Tao, e il principio fondamentale del Tao è che l’essere e il non essere sono la stessa cosa. Il pensiero occidentale – non tutto, a dire il vero, ma quella parte che alla fine ha prevalso – si fonda sul principio di non contraddizione: una cosa non può essere allo stesso tempo sé stessa e il contrario di sé stessa. Per il pensiero orientale, o almeno per una parte del pensiero orientale, sì. E, non troppo stranamente, anche per la fisica quantistica. Allora, chi ha ragione? Ma – obiezione – se invece d’indagare chi abbia ragione e chi no, ci disponessimo a “capire” l’enorme complessità del reale, ad accettare che esistono logiche diverse e che in ogni caso la logica non è la realtà, ma solo uno dei possibili discorsi sulla realtà? Perfino il massimo fondatore della logica, colui che ne ha penetrato profondamente i meccanismi, Aristotele, non ha mai sostenuto che la logica fosse la realtà, bensì solo il funzionamento del pensiero, il sistema con cui il pensiero pensa. E, anzi, nel De Interpretatione va ancora più lontano, e sostiene che noi la realtà la conosciamo solo attraverso il linguaggio, senza linguaggio non c’è conoscenza della realtà. Ma è questo l’unico tipo di conoscenza? Ballardini sembra dirci di no. Ma leggete questo libro, e troverete, come ho già detto, non già la risposta, bensì la liberazione dall’esigenza di una risposta. O, se proprio la si vuole chiamare risposta, ci si troverà disposti ad accettare la molteplicità delle risposte, o, meglio, a non cercare affatto nessun tipo di risposta, perché ciò significherebbe che noi siamo una cosa e la realtà un’altra. Ma ne siamo sicuri? E’ come quando si dice: la natura intorno a noi. Ma la natura non sta intorno a noi, perché noi ci stiamo dentro, ne facciamo parte, noi siamo la natura. Ecco: forse bisognerebbe cominciare a partire da qui. E a capire dunque che il pensiero non è qualcosa di staccato dalla materia, ma è lo stesso pensarsi della materia. Il cervello non è qualcosa separato dal corpo, ma una sua parte, e dunque noi pensiamo con il corpo, con tutto il corpo. Spinoza? Può darsi. Ma che in questo assomiglia tanto a Lao tse. O a Mumon. Ma sono andato troppo oltre. Leggete Ballardini.

1Nel programma ministeriale di storia della musica per i conservatori ancora esiste una “tesina” che recita: “La musica dei selvaggi”!

domenica 24 novembre 2019

Un romano a Marte

 


TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. Teatro Nazionale
Un romano a Marte
Opera per attore, voce recitante, tre cantanti, orchestra ed elettronica
Libretto du Giuliano Compagno
Musica di Vittorio Montalti

Opera vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma

Direttore John Axelrod
Regia Fabio Cherstich

Scene, costumi e video Gianluigi Toccafondo
Luci Camilla Piccioni

Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma

Ilaria Occhini Rafaela Albuquerque*
Ennio Flaiano Domingo Pellicola*
Kunt il Marziano Timofei Baranov*
Un Critico Gabriele Portoghese
Caterina Martinelli Valeria Almerighi

Mimi attori Martha Festa
Jacopo Spampanato
Prima rappresentazione: 22 novembre 2019
Repliche: 23. 24 novembre 2019

*dal progetto “Fabrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera

A quel che sembra, lo spettacolo nasce dalla collaborazione di tutti coloro che l’hanno portato sulla scena: chi ha scritto il testo, chi ha composto la musica, chi tiene insieme le fila della partitura per l’esecuzione, chi ha immaginato la drammaturgia con cui rendere visibile a tutti l’idea del lavoro. In altre parole: il librettista, Giuliano Compagno; il compositore, Vittorio Montalti; il direttore e concertatore, John Axelrod; il regista, Fabio Cherstich. Fantasiosi, indispensabili, le scene, i costumi e soprattutto i vertiginosi video di Gianluigi Toccafondo. Si vede, eccome se si vede, l’accordo. Non so in realtà, a dire il vero, con quanto accordo, con quanta discussione si sia arrivati al risultato finale, ma l’effetto sullo spettatore è di una straordinaria omogeneità, di una lodevole coerenza, visiva e teatrale. Tutto sembra stare dove e come deve stare.

Un marziano a Roma fu un’idea teatrale di Ennio Flaiano, messa in scena nel 1960 al Lirico di Milano da Vittorio Gassman e Ilaria Occhini. E fu un insuccesso clamoroso. Ma la commedia a sua volta nasceva da un racconto del 1954, poi raccolto, insieme ad altri scritti, nel volume Diario Notturno. Non sarà mai possibile sopravvalutare l’importanza di Flaiano nella cultura italiana dell’epoca del cosiddetto boom. Si pensi solo che le sceneggiature di film come La dolce Vita, 8 e1/2, La Notte, portano la sua firma. Dalla sera di quella prima, che fu appunto un fiasco, partono Giuliano Compagno, scrittore del libretto, e Vittorio Montalti, compositore della musica, per questo Un romano a Marte. Ma sarebbe riduttivo immaginare che l’opera (in tutti i sensi, melodramma, opera buffa, commedia per musica) sia speculare al racconto e alla commedia di Flaiano. Lo è solo nel titolo. Che, preso così alla lettera, sarebbe pure sbagliato, perché Marte non è una città ma un pianeta, e dunque sarebbe stato più corretto Un romano su Marte, ma si sarebbe perso il senso speculare con il racconto e la commedia, e inoltre il Marte del titolo non è il pianeta ma un luogo immaginario. Non è il solo “non-sense” del testo. I giochi linguistici, la segmentazione delle parole, anzi, si sprecano, e sono i benvenuti, perché poi ad essi corrisponde una speculare, questa sì, frammentazione del tessuto musicale. E lo stesso impianto drammaturgico non è costruito su una successione ordinata di eventi, ma per accostamento di scene, che si succedono per analogia o per contrasto.



L’effetto è quello di un collage di cui s’intravede la logica, senza riuscire tuttavia a individuarla. I personaggi tranne il marziano – e a suo modo nemmeno quello, perché anche lui già personaggio della commedia di Flaiano – sono persone storiche: Flaiano stesso, Ilaria Occhini, la romana Caterina Martinelli, ammazzata nel 1944 dai nazisti, e alla fine compare, sia pure solo come voce, Tonino Guerra. Il titolo poi ha un sottotitolo tra parentesi: (Ennio e gli altri). Compare, all’inizio, una scena di teatro, un’inserviente che spazza (Caterina Martinelli, interpretata da Valeria Almerighi, presente sulla scena per tutto lo spettacolo, e l’avevamo già vista sbirciare il pubblico ficcando la testa nella fessura del sipario), in mezzo alla scena una sorta di barella con un corpo coperto da un lenzuolo, un morto? Dall’alto, tutto vestito di rosso, vistosamente albino, come lo era Gassmann a Milano, cala Kunt, il marziano. Solleva il lenzuolo, e si alza Ennio Flaiano. Sulla scena circola un esagitato critico (Franco Cordelli?) che non canta, ma parla, parla, spiega l’azione, i fatti, i personaggi, inarrestabile. Elegantissima, tra Elisabeth Taylor e Alida Valli, ma soprattutto sé stessa, nipote di Papini, viso abbagliante di 8 e ½, Ilaria Occhini.

Eh sì, sono quelli gli anni. Si girava Cleopatra, Liz Taylor, e si spettegolava del suo flirt, che flirt non era, con Richard Burton. E Roma, che allora credevamo provinciale, non lo era affatto. Lo è oggi, che si crede moderna, ma è litigata da mafiette, anche politiche, di seconda e terza categoria. Vuoi mettere un Andreotti, un Piccioni, un Fanfani, un Rumor, la banda della Magliana? Il caos allora era caos. Oggi è un perfino non troppo aggrovigliato pasticcio. Questo caos noi vediamo affaticarsi e poi capitolare sulla scena. Era comunque la Roma di Moravia e di Pasolini. Ma anche di Fellini e di Antonioni (L’Eclisse). Ma anche di Fantasmi a Roma, di Pietrangeli e dei Soliti ignoti, di Monicelli.



La musica di Montalti asseconda il collage accostando varie tipologie di teatro musicale, in cui include anche il teatro parlato (il critico, che parla, non canta). Afferma di avere giocato con la parola “opera”, considerandola non il singolare femminile di opera/operae, ma il plurale neutro di opus/operis. E ci sta. Afferma che l’idea gli fu suggerita da Berio. Ma è un’idea che funziona. L’opera, il melodramma, è sempre stato un genere composito, renitente a tutti i tentativi di riforma omologante in un genere compatto e uniforme. Già il fatto che la parola si canti invece di essere detta, la rende bifronte. Poi, agli strumenti si aggiunge anche l’elaborazione elettronica. E perché no? Fin dalle sue origini il melodramma ha assorbito tutti i generi di musica.

Da questo complesso, ma intrigante, coacervo di forme, di sollecitazioni insieme verbali e musicali, nasce uno spettacolo di straordinaria continuità e coerenza. Ma si badi: continuità di senso, non di azione. E gli interpreti ce la mettono tutta a renderlo vivace, attraente. I tre cantanti, Rafaela Albuquerque, Domingo Pellicola e Timofei Baranov, rispettivamente nelle parti di Ilaria Occhini, Ennio Flaiano e Kunt, il marziano, provengono tutti e tre dal progetto “Fabrica”, una scuola di formazione di cantanti attori promossa dal teatro dell’Opera di Roma, che ha per sigla Young Artist Program. Il pubblico, foltissimo, della prima decreta per tutti un caloroso successo.

Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: uno spettacolo così nuovo e così stimolante, perché proporlo solo per tre sere? E perché non portarlo in giro anche in altri teatri? Un tempo i teatri producevano solo opere contemporanee. Se proprio non si vuole tornare a quel felice periodo perché però mortificare le nuove opere con una così scarsa presenza nel teatro di produzione e nessuna diffusione in altri teatri?