martedì 17 maggio 2016

Schoenberg, Pierrot Lunaire, Anna Clementi e Andrea Vitello



SCHÖNBERG, PIERROT LUNAIRE
PORTERA, RED MUSIC
ANNA CLEMENTI
ENSEMBLE BIOS / ANDREA VITELLO
CONTINUO
Ascoltarlo, oggi, il Pierrot Lunaire di Schoenberg sembra quasi musica romantica. E, in parte, lo è. Lo è almeno il principio che la musica debba essere espressiva. Non vi rinuncerà nemmeno Webern, capace di chiedere in partitura ausdruckvoll (espressivo) al violinista che in quel punto sta suonando una sola nota. Semplicemente stava mutando il concetto di espressività. L’espressione non è più la manifestazione di un sentimento personale, del personaggio o dell’autore, ma la connotazione di una situazione. Non è più il singolo a dire il proprio dolore, o la propria gioia (più raramente), ma il poeta, il drammaturgo, il compositore che guardano la sofferenza del singolo, e la rappresentano, senza commentarla, guardano le smorfie, i contorcimenti, l’agonia del singolo, ma senza commuoversene. Nella letteratura tedesca un simile atteggiamento ha radici profonde. Si riscontra già nelle poesie di Heine e nel teatro di Büchner. Non a caso proprio un dramma di Büchner Berg prese a soggetto della propria opera, anzi il testo stesso del dramma: Woyzeck, che per un refuso dell’edizione posseduta da Berg, diventa Wozzeck.  L’anno in cui nasce il Pierrot Lunaire segue di tre anni l’Elektra di Strauss. Il clima è quello. Schoenberg chiede all’interprete di non immedesimarsi con il personaggio beffardo, maligno, anche cattivo, di Pierrot. E a distanziare ogni tentazione di recitazione realistica o di canto sentimentale, escogita il sistema dello Sprechgesang, alla lettera “canto parlato”. Monteverdi chiamava il suo melodizzare teatrale “parlar cantando”. Le intenzioni sono quasi le stesse: isolare l’emotività del canto, racchiuderlo nel continuo del parlato, non della melodia. Ma per Monteverdi l’intenzione è di giungere alla radice sonora del linguaggio, alla musicalità immanente della parola. Come poi per Debussy. O per Musorgskij. Schoenberg, invece, vuole sradicare la parola dal suo sostegno musicale, distanziarla dalla sua fascinazione emotiva. Qualcosa in musica, che si potrebbe confrontare al ”correlativo oggettivo” di Eliot. La poesia non sta, insomma, nell’ “espressione” di un’emozione, di un sentimento (con buona pace di Benedetto Croce), bensì nella rappresentazione neutrale di una situazione. O di un concetto. E la musica, allora, diverrebbe l’eco estraniata di qualcosa che si può rappresentare, ma non esprimere. In parole povere, i sentimenti sono incomunicabili, ma la loro rappresentazione, o piuttosto la rappresentazione dei loro effetti sul corpo, sulla voce, possono mostrarsi sulla scena, o in un cabaret: e farsi espressione, ma espressione esasperata. Che poi si chiamerà espressionismo. Questa musica ha molto del cabaret, dell’estraniazione, dell’allucinazione del cabaret. Le poesie di Albert Giraud (pseudonimo di Émile Albert Kayenberg), poeta simbolista belga, una sorta di fratello minore di Maeterlinck, non sono un granché. La traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben le fa sembrare più belle, o quanto meno più incisive. La raccolta Pierrot Lunaire ne comprende 50, Schoenberg ne sceglie 21, tre volte sette, in modo da costruire tre parti uguali di 7 pezzi ciascuna. Come Bach, Schoenberg è un patito di numerologia. Aspetta a pubblicare la partitura, in modo che abbia il numero di opus 21. Posseggo un prezioso LP, in vinile, dunque, della Philips, in cui lo stesso Schoenberg dirige il suo Pierrot Lunaire. La voce, indicata come “récitante” è quella di Stiedry Wagner. I musicisti sono Rudolf Kolisch, violino e viola, Stefan Auber, violoncello, Eduard Steuermann, pianoforte, Leonard Posella, flauto e ottavino, Kaliman Bloch, clarinetto e clarinetto basso. Il disco fa parte di una collana di “Hommages”. Gli altri cinque sono a Pablo Casals, Alberti Schweitzer, Joseph Szigeti, Bruno Walter, Clara Haskil. E’ un’incisione molto istruttiva. Schoenberg è ritmicamente implacabile, come pretende nelle note della partitura. Ma più tollerante sull’adeguamento allo Sprechgesang dell’interprete vocale. Anche in questo si rivela la sua profonda natura di musicista. E Anna Clementi? Al primo ascolto non volevo credere alle mie orecchie. L’adeguamento è totale. Non so quanto abbia influito essere figlia di uno dei più grandi compositori del secondo novecento italiano, Aldo Clementi, che del rigore della scrittura, e dunque anche, naturalmente,  dell’interpretazione, aveva fatto il suo principio inderogabile.  Ma certo è che qui ci si sente appunto trascinati in un immaginario cabaret, la voce sembra custodita in una teca di cristallo sul quale piombi di striscio l’occhio di bue delle luci di scena. Si pensa anche al prologo della Lulu di Alban Berg. L’estraniamento è dunque totale. Ma proprio per questo l’efficacia espressiva immensa. La voce è piccola, acuta, appunto, si pensa a Lulu. Ma penetra il cervello come uno spillo implacabile. Le parole sono sillabate una per una, con dizione inequivocabile, percepibile. E’ un tedesco bellissimo (chi sa perché i nostri connazionali pensano che il tedesco sia una lingua dura, sgradevole, ferrigna: la lingua di Goethe, di Mörike, di Rilke, di George, di Benn, di Celan? intonata da Schubert, da Schumann, da Wolff?). Schoenberg non fa eccezione. E Anna Clementi vi affonda dentro insieme con rigore e con passione. E’ già musica il suono della lingua, che senso ha intonarla? Meglio dirla con l’accenno di un tono, colto e subito lasciato, come una Sängerin, o piuttosto una Schauspielerin, che irrompa dal cabaret di una Berlino Jugendstil!  E invece no. E’ la Berlino di oggi. E Schoenberg, sulla sua bocca, con la sua voce,  è un nostro contemporaneo. Ogni pagina di questo capolavoro ci trafigge. Ascoltate il numero che s’intitola Valse de Chopin (n. 5). L’intelaiatura contraffatta  di un rarefatto, ma intricato contrappunto, non riesce a mascherare del tutto l’affinità spirituale con La Valse di Ravel, posteriore di soli 7 anni. Ma in mezzo c’era stata l’ecatombe della Grande Guerra. Preannunciata da Schoenberg, constatata da Ravel, si respira la fine di un mondo. O, due numeri dopo, Der kranke Mond, la luna malata. Un flauto, la voce, che finisce tremando. Il brano chiude la prima parte. La seconda si apre con  Die Nacht, la notte. Il pianoforte introduce con suoni gravi, cupi, l’atmosfera del pezzo. La voce tocca qui vertici di recitazione espressionistica. O il numero 19, Serenade, lo struggente violino che precipita nel vuoto, la voce che, subito dopo, cade. Ma i pezzi vanno ascoltati con grande raccoglimento uno per uno. In ognuno la realizzazione del programma di distanziamento espressivo per ottenere il massimo di efficacia rappresentativa, si raffina, procede. E in ognuno si ammira il grande controllo di ogni musicista. Anna Clementi  risalta tanto più, in questo controllo, quanto più gli strumenti la fasciano, la sostengono con un tessuto musicale egualmente controllato. Bravissimo, Andrea Vitello, a tenere insieme tutta la compagine. Non una sbavatura, non una distrazione, un’approssimazione. Tutto al punto in cui deve essere, anche nei momenti di maggiore foga. L’Ensemble Bios  (Giuseppe Bruno, pianoforte, Luciano Tristaino, flauto e ottavino, Marcello Bonachelli, clarinetto e clarinetto basso, Alberto Bologni, violino e viola, Jacopo Francini, violoncello nel Pierrot Lunaire, sostituito da Carlo Benvenuti per l’altro brano del cd, Red Music), segue, realizza pienamente le intenzioni del direttore. Talora, in certi brani, il furore sembra condurli fuori strada, esasperare  l’interpretazione. Ma si tratta di un’esasperazione voluta, controllata. E qui sta la loro bravura, la loro efficacia d’interpreti. Tutto il lavoro si fa ammirare sia per l’intelligenza della lettura sia per l’efficacia delle rappresentazioni musicali. Nel cd è contenuta anche la Red Music di Andrea Portera, compositore fiorentino nato nel 1973. Si divide in tre pannelli: 1. Sonatina (tribute to Prokofiev) 2. Carillon, (... thinking Shostakovich) 3. Untitled (Hommage an Rostropovich). Le avanguardie darmstadtiane sono lasciate alle spalle, anche se non dimenticate. L’interesse di questa musica sta proprio nella rinnovata innocenza di reinventare un modo di rendere la musica di nuovo rappresentativa. Un filo sotterraneo, perciò, la unisce forse al Pierrot Lunaire, se non altro l’organico. Gli echi del neoclassicismo prokofieviano, nella Sonatine,  però, e le ombre della Quarta di Šostakovič, nel secondo pannello, i giochi ironicamente sopracuti ma sopraffatti infine dai suoni gravi del violoncello del senza titolo finale alludono, chi sa, a fantasmi non ancora placati.
Fiano Romano, 17 maggio 2016

lunedì 16 maggio 2016

Altre note sulle mazurke di Chopin interpretate da Alberto Nones



NOTE IN MARGINE SULLE MAZURKE DI CHOPIN INTERPRETATE DA ALBERTO NONES
CONTINUO
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Dalle note precedenti sui due cd incisi da Alberto Nones, che contengono l’interpretazione di tutte le mazurke di Chopin, potrebbe sembrare che il pianista abbia risolto tutti i problemi dell’interpretazione delle mazurke. Non è, naturalmente, così, perché nessun pianista, nemmeno il più grande, può risolvere tutti i problemi interpretativi di pagine così complesse come le mazurke di Chopin. Ogni interpretazione è la proposta di una lettura, e tale lettura mette in rilievo taluni aspetti della pagina interpretata, lascia in ombra altri Faccio un esempio grandissimo: ritengo che le Variazioni Diabelli di Beethoven registrate da Sviatoslav Richter a Praga, in un concerto, siano a tutt’oggi l’interpretazione più interessante e bella di questa pagina sublime. Richter legge Beethoven come incunabolo della modernità, s’intravedono Chopin, Brahms, Schoenberg, Bartók. E perfino lo Stravinsky neoclassico (Richter in fondo nasce da lì!). Qualcuno potrebbe obiettare che questo sia uno stravolgimento di Beethoven. Se lo è, allora sono uno stravolgimento di Wagner anche il Parsifal e il Ring bayreuthiani di Boulez. Ogni interpretazione è sempre, di fatto, uno stravolgimento. Anche quella che si propone la “fedeltà assoluta”. Ma fedeltà a che cosa? alla partitura? e quanto è fedele alle intenzioni del compositore un piano rispetto a un pianissimo, a un mezzo piano? come si fa a stabilirlo? Colui che viene sempre presentato come campione della fedeltà, Toscanini, in realtà non lo è nemmeno lui. Un esempio tra mille: l’attacco strumentale del brindisi, nella Traviata, richiederebbe un piano. Toscanini attacca fortissimo.  Fu rimproverato a Boulez di avere accelerato i tempi del Parsifal.  Ma se si confrontano i suoi tempi con quelli della prima rappresentazione diretta nel 1882 da Hermann Levi, sotto il controllo di Wagner, si scopre che il primo atto diretto da Levi dura un’ora e 47 minuti, diretto da Boulez un’ora e 35 minuti, dunque una durata assai simile. Knapperbutsch lo faceva durare un’ora e 56 minuti, e siamo sempre nei limiti, più o meno, della prima rappresentazione. Il più lungo, invece, contro ogni aspettativa, è quello di Toscanini: due ore e 6 minuti.  Ciò vuol dire che noi, oggi, siamo ormai avvezzi a tempi più dilatati. Per curiosità di cronaca, il Fidelio più breve fu quello di Furtwaengler a Vienna, un direttore che passa per lento. Tutto questo per dire che un’interpretazione va ascoltata non per controllare quanto corrisponda alle nostre idee e aspettative, bensì per capire che cosa ci proponga di nuovo o di consueto. Lo stesso principio metodologico vale anche per queste mazurke di Chopin interpretate da Alberto Nones. Aggiungo qui qualche osservazione. E mi scuso per le digressioni. Ma fanno parte, appunto, della discussione sulla critica, sul metodo di una critica. Avrei voluto scrivere, anche, e diffusamente, di qualcuna delle mazurke (soprattutto, per esempio, dell’op. 50, e in particolare della n. 3, pagina visionaria e allucinata, nella rievocazione del contrappunto bachiano). Ma mi è sembrato di appesantire il testo. Magari, forse, un’altra volta ci ritorno sopra, in un’antologia dell’interpretazione chopiniana. Talune soluzioni interpretative proposte da Nones mi paiono, tuttavia, ancora irrisolte, e come potrebbe essere diversamente? Immagino il senso d’inadeguatezza che ciascun interprete, che non sia un inguaribile narciso, possa provare quando affronta pagine di così intricata complessità strutturale. Ma il contrasto dinamico tra certi pp e certi ff mi appare talora troppo brusco. Il rubato, qui e là, troppo esibito, poco fluido, poco naturale. Ma sarebbe cercare l’umido in una tazza di tè. Il risultato complessivo è mirabile. E il messaggio arriva. Quello, appunto, della complessità tremenda di ciascuna pagina, del frammento di ciascuna pagina, la fatica di accostare qualcosa che sembra quasi inaccostabile, e infine il tormento, quasi una sofferenza intellettuale, prima che emotiva, di fare emergere un sommerso dolorosissimo dalla leggerezza della danza, che invece di nasconderlo lo fa affiorare nel suono, nel ritmo, ora esitante ora deciso, più efficacemente, che se lo gridasse spavaldamente in un empito eroico (ci sono le polacche, per questo, ma anch’esse non evitano - anzi! - l’ellissi, la reticenza, il sussurro sommesso). Insomma: queste mazurke, oltre ad affascinare, a illuminare la mente, commuovono. Se posso confessarlo, vi ho riconosciuto il “mio” Chopin. Vale a dire la ricerca di esprimere l’inespresso, il non scritto. L’antica teoria estetica indù (dhvanaloka) direbbe che la poesia sta proprio nell’inespresso, nel non detto, il sostrato che sorregge il testo di ogni poesia. In musica è forse il cuore della pagina, per esempio, tra gli altri, anche per Haydn e, soprattutto, per Schubert, e non parliamo di Schumann. Ma il punto di riferimento, per tutti, compositori e interpreti, resta Bach. In particolare, oltre all’irrinunciabile Clavicembalo ben temperato (ma quando ci decideremo a chiamarlo col suo vero titolo: tastiera ben temperata? dunque qualsiasi tastiera, non solo il clavicembalo), le Partite. L’allemanda della quarta, in re maggiore, è probabilmente il modello di molte pagine di Schumann. Da quell’allemanda si arriva alle Bagatelle di Beethoven, e ci si apre un mondo visionario, come se Beethoven contenesse già lo sviluppo di ciò che avrebbero detto i romantici e poi soprattutto Schoenberg. Insomma, è sbagliato dire che un compositore anticipa un altro, è vero esattamente il contrario: i compositori sviluppano le intuizioni di chi li ha preceduti. E’ questa la tradizione, non l’imitazione di un modello perfetto. In tal senso gli ultimi trii di Haydn sono un vulcano di idee, vi si riscontrano già i modelli della musica di Schubert, compresa l’immediata alternanza modale sulla tonica, maggiore-minore (ma se ne sentirà stimolato anche Beethoven nel quartetto op. 130). Forse gli zingari della campagna ungherese e austriaca, che Haydn ascoltava dal castello di Eszterháza e Schubert nelle Heuriger dei dintorni di Vienna, offrivano, già prima che a Liszt, anche a loro, evocazioni irresistibili. Come, appunto, accade a Chopin per le mazurke contadine, ascoltate nelle sortite di villeggiatura estive, o quelle cittadine dei salotti di Varsavia. C’è ancora un altro aspetto da mettere in risalto. Albero Nones fa bene a trascurare una maniera considerata tipicamente polacca, ch’è invece spesso leziosa, ma piace tanto a certi pianisti alla moda e a troppi dilettanti. In Chopin non c’è mai nulla di lezioso. Anzi, più spesso la sua musica suona aspra, urticante. E Nones lo mette bene in evidenza. A qualcuno potrà sembrare talora troppo rude, troppo rozzo. Ma solo a chi confonde la fierezza con la rozzezza, il non finito michelangiolesco con l’abbozzo frettoloso.  Chopin usava spesso, suonando, aggiungere fioriture. Come lo facevano i cantanti nelle arie. E prima di Chopin, lo faceva Mozart. Siamo, infatti, sicuri che la scrittura di Mozart, così asciutta, e per noi così moderna, che ama distanziare singole note nei registri lontani, soprattutto col pianoforte, penso al Concerto in la maggiore K. 488, tempo lento, coda, vada eseguita così asciutta e non vada invece riempita con arpeggi, scalette che coprano la distanza? E Bach, se suonato al pianoforte, dovrà rinunciare ad ogni sfumatura dinamica? Ma allora che senso avrebbe la scelta del pianoforte, invece che del clavicembalo? E il fraseggiare bachiano, che sappiamo liberissimo sul clavicembalo, dobbiamo irrigidirlo in una metrica rigorosa, quando è eseguito col pianoforte, come pretendono certi interpreti e soprattutto certi insegnanti di conservatorio? Nones aggiunge fioriture nella melodia di una delle mazurke, non so se registrata da un manoscritto o da un’edizione che non conosco, o se inventata lì per lì da Nones stesso. Ci stanno benissimo. Lo faceva anche Wanda Landowska con Mozart. Se l’interpretazione potesse risolvere tutti i problemi dell’interpretazione non ci sarebbe interpretazione. L’Iliade che leggiamo noi oggi non è quella che scrisse e recitava Omero, nemmeno se la leggiamo in greco. Quanto al folk, siamo rimasti a lungo schiavi di un equivoco. Nemmeno Bartók ha mai pensato di “restituire” con il pianoforte, il quartetto, l’orchestra, l’”autentica” musica popolare. Non c’è niente di più inautentico che la ricerca dell’autentico, scrive Adorno. E siamo d’accordo con lui, su questo. Ossessiona i mediocri senza personalità. Ma anche Bartók, invece, vedeva nei procedimenti della musica popolare non melodie o ritmi da imitare, ma possibilità e libertà che la tradizione colta si era lasciata per strada. Nei procedimenti, dunque, e non nelle melodie belle e fatte o nei ritmi prefigurati. E questo fa già Chopin. Come faranno Smetana e Dvořák, Musorgskij e perfino Čajkovskij. Una volta, tanti anni fa, scrissi, nella recensione di un concerto, che Beethoven era insensibile alla musica popolare, perché aveva armonizzato i canti popolari scozzesi come se fossero canti di qualsiasi popolo, senza carattere nazionale. Salvatore Sciarrino me lo rimproverò. Mi disse che Beethoven aveva trasferito su un altro piano, su un’altra consapevolezza, procedimenti che lo interessavano proprio perché diversi dalla tradizione colta, ma li aveva poi assimilati a questa tradizione. Insomma Beethoven non fa cattivo folklore. Aveva ragione e mi sono ricreduto. Del resto, lo stesso Sciarrino ha rielaborato, e meravigliosamente, le canzoni da battello veneziane e le canzoni di Cole Porter. Nemmeno Chopin è tentato dalla riproduzione del folklore, in un momento in cui, invece, i romantici, poeti, musicisti, pittori, idealizzavano il popolo come sorgente e modello d’ogni espressione del bello. Il compositore attento, consapevole, non rinuncia mai, invece, all’elaborazione “colta” di tutto ciò che il mondo dei suoni, dal canto degli uccelli al fischio dello zappatore (ah! Leopardi!), dallo sbattere degli sportelli dei treni (penso a Carducci, ma anche ai mottetti di Montale) alle canzonacce di San Remo, gli porta alle orecchie. Ma la personalità del poeta, del compositore, sta appunto nell’elaborazione “colta”, consapevole, di quanto lo suggestiona, non nella riproduzione pappagallesca di supposti “autentici” canti popolari. In questa trappola, per esempio, si è guardato bene dal cascare un musicista colto, attento, come Roberto De Simone. La Nuova Compagnia di Canto Popolare è, per nostra fortuna, una sua personalissima reinvenzione del canto popolare napoletano, e non lo scimmiottamento di chi sa quale popolarità immaginaria. E’ sempre accaduto. Si pensi alle messe polifoniche rinascimentali su un canto goliardico osceno come “L’homme armé”, dove si parla di “armi” che s’infilano davanti e di dietro. Qualcuna di queste messe è sublime. Ma del popolare non ci restituisce nemmeno l’ombra. Sto, tuttavia, divagando. Ma non troppo. Un’ultima notazione. Ciò che sembra emergere da questo Chopin delle mazurke è soprattutto la profonda, inguaribile, anche se dolcissima, tristezza dell’esiliato. Ma può darsi, chi sa, che ogni artista è a suo modo un esiliato. Ed è questo suo comunicarci un esilio che ci commuove, noi perenni esiliati del mondo.

Fiano Romano 16 maggio 2016

sabato 14 maggio 2016

Malacarne, Peppino Impastato, Amore Noi Ne Avremo



Di Peppino Impastato si è parlato a lungo, a proposito e a sproposito (a sproposito soprattutto da chi voleva e vuole farsi bello di cose che non ha né incoraggiato né fatto). Ma è un esempio di resistenza e di lotta al malaffare trionfante ancora pur troppo di un’attualità costrittiva. Come, prima di lui, per esempio, anche se in modo diverso, Gobetti. Il malaffare, in Italia, sta sempre là, c’è, e continua ad essere trionfante. Proprio su questa attualità gioca Malacarne, Peppino Impastato, Amore Noi Ne Avremo, lo spettacolo di e con Consuelo Cagnati e Andrea Maurizi, per il Teatro delle Condizioni Avverse, visto recentemente a Casperia, in provincia di Rieti. Parte dell’incasso sarà utilizzato per il restauro del bel teatro di Casperia. Lo spettacolo ha avuto il premio ARCI TEATRO, come “miglior regia”, nel concorso nazionale “Avanti Attori”, del 2012. Malacarne, dunque, gira da qualche anno ed è stato visto in molti teatri e luoghi di molte città. Queste vogliono essere, pertanto, solo alcune note in margine. Prima di tutto sulla regia: di Consuelo Cagnati. Modernissima. Interessante l’uso di più piani teatrali, registrazioni dell’epoca, rievocazione dei fatti, rielaborazione di testi in chiave di commedia dell’arte. Proprio questa teatralizzazione di tutti gli elementi evita il tono di un manifesto politico, o la noia di una propaganda che metterebbe in pace la coscienza individuale, ma lascerebbe il tempo che trova. Invece, il distanziamento teatrale, evitando l’immediatezza del messaggio, lo rende più penetrante. Come a dire: non è qualcosa che accadde nella Sicilia di tanti anni fa, e che è stato risolto e digerito. E’ qualcosa che accade ancora. Il conto, umano e politico, è ancora aperto. L’estraniamento teatrale ci mostra proprio questa permanente attualità. La maschera, che vediamo sulla scena, è quella che ghigna ancora nelle campagne e nelle città d’Italia, che si beffa di noi nel nostro Parlamento.  Come mai, per esempio, siamo ancora qui a combattere il problema del caporalato, soprattutto nelle campagne del Sud, per la manodopera degli immigrati, senza averlo non dico risolto, ma nemmeno affrontato? come mai i mille problemi del paese si affrontano strillando nei talk show televisivi, ma mai seriamente nella realtà, con provvedimenti concreti? e l’enumerazione dei problemi irrisolti del paese potrebbe continuare. Uno spettacolo però deve essere giudicato per quello che è: spettacolo. E Malacarne lo è. Proprio per questo fa pensare. Fa riflettere. Suscita problemi. Ma lo fa teatralmente. Non è né un manifesto politico, né una propaganda elettorale. E’ teatro. E come ogni teatro è anche politica, riflessione politica. Le scene più efficaci sono, non a caso, proprio quelle che si allontanano di più, apparentemente, dalla realtà, quelle meno realistiche, quelle che ricostruiscono una commedia dell’arte moderna. O l’ascolto delle registrazioni della radio dell’epoca. La distanza le rende attuali. Infine, la voce, indimenticabile, della madre. Il figlio glielo stanno uccidendo ancora, continuano a ucciderlo ogni giorno, le leggi che non sono state fatte, le mafie che non sono state sconfitte, i collusi che occupano i seggi del Parlamento, che girano indisturbati tra di noi. La casa dell’assassino di Peppino Impastato stava di fronte alla sua. Pensiamoci! A Roma andavamo a bere un caffè in locali gestiti da mafiosi, magari proprio vicino al Parlamento. E mafiosi ci vendono vestiti, dirigono supermercati dove compriamo carne, frutta e verdura. Che fare? Eh, sì! Che fare? Se lo chiedeva già Lenin. E prima di lui, Černičevskij. Ce lo chiediamo anche noi, oggi. Bravi Consuelo Cagnati e Andrea Maurizi a ricordarcelo, un’altra volta. L’italiano è un popolo che dimentica facilmente.
Fiano Romano, 13 maggio 2016

Chopin, mazurke, pianista Alberto Nones



CHOPIN, complete MAZURKAS.
Pianoforte, Alberto Nones.
CONTINUO
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Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le situazioni.
E’ manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa – una forma.
Ludwing Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 2.014, 2.022
Alberto Nones affronta in questa incisione un’impresa quasi irrealizzabile. E mi spiego. Le mazurke di Chopin sono il frutto più personale della sua personalissima ricerca musicale. Starei per dire: della sua riflessione musicale. E la comincia subito, dall’inizio, come per i notturni, e le polacche, in certo qual modo perfino con un percorso parallelo: mazurke e polacche ne scrisse fin da ragazzo. Una polacca denota come meglio non si potrebbe il suo “ultimo stile”, uno stile che sembra quasi aprirsi ai modi di un Debussy: la Polonaise-Fantaisie op. 61. Il frammento di una mazurka è il suo ultimo lascito musicale. Scrive Liszt: “D’ora innanzi tutti i destini non sono che i rottami galleggianti di un immenso naufragio. ... Mentre il valzer e il galop isolano i danzatori ... nella mazurka la parte affidata all’uomo non la cede né come importanza né come grazia a quella della danzatrice, e il pubblico è anch’esso della partita”[1]. Si suole arricciare il naso, e liquidare come superflui, i primi quattro capitoli del libro che, nel 1850, Liszt ha dedicato a Chopin, per il fatto che a scriverli è stata soprattutto la mano della sua ultima amante, la principessa polacca Carolyne Sayn Wittgenstein; è, tra l’altro, un’antenata del Ludwig Wittgenstein, il filosofo del Tractatus logico-philosophicus, e, naturalmente, antenata anche del fratello del filosofo, Paul, il pianista che aveva perduto il braccio destro in guerra e per il quale Ravel, ma anche Prokofiev, scrissero un Concerto per la sola mano sinistra. Questo passo, dal capitolo dedicato alla definizione di che cosa sia una mazurka, centra, invece, perfettamente il carattere delle mazurke di Chopin: relitti di un naufragio. Confessa Schubert, in una lettera, che la musica gli pare comunque l’espressione di uno stato d’animo triste, perché anche quando canta la gioia, la canta come memoria di una gioia trascorsa, e dunque finita, irrecuperabile. La musica è sempre memoria, mai sentimento in atto. I sentimenti può suscitarli in chi ascolta, ma solo come reazione all’evocazione che la musica fa di qualcosa che, nel momento in cui la evoca, è trascorso, finito. Il padre della poesia moderna, Petrarca, affida alla memoria ogni forma di poesia, perché comunque racconto di una storia, che sia la storia di un individuo o di un popolo. I Trionfi si aprono con uno dei versi più belli della nostra letteratura, e forse della letteratura europea e del mondo: “Per la dolce memoria di quel giorno”. Bejart ne fece il titolo del suo commovente balletto dedicato alla “memoria” del Petrarca. Una danzatrice in abito bianco si muoveva dall’inizio alla fine sulla scena tra i personaggi del balletto. Era l’unicorno, il simbolo della castità: l’astinenza forzata del desiderio, che innerva e condiziona tutta la vita del Petrarca. Freud la dirà sublimazione. Ma per Petrarca quest’astinenza si fa poesia, canto. Il dolore dell’oggetto perduto o irraggiungibile si fa musica. Qualche secolo dopo, Diderot, assiduo lettore del Petrarca, dirà che la musica, il canto, gli sembrano nascere dal grido, essere anzi la stilizzazione stessa di un grido animale, il grido della perdita originaria. Leopardi individua proprio in questo senso della perdita della felicità, sognata più che realmente posseduta, la sorgente della poesia moderna. Abbiamo percorso un lungo giro, da Liszt, e la Saiyn Wittgenstein, a Leopardi, attraverso Schubert, Petrarca e Diderot, per tornare a Chopin. Ma non a caso. Forse, proprio così, con questo vasto giro, siamo arrivati al nodo emotivo, musicale, e poetico da cui nascono le mazurke di Chopin: la perdita della felicità, esse sono il canto che canta questa perdita. E questa felicità era, per Chopin, la sua Mazowia, la terra in cui era nato e in cui è nata e da cui prende il nome la danza che si chiama mazurka. “Io sono un vero Mazowiano”, scrive all’amico Titus. In quella terra, la felicità è la danza di contadini che si chiama mazurka, vista e ascoltata tante volte da bambino, e riascoltata e rivista nei salotti borghesi di Varsavia. Una danza che in realtà si compone di molte danze: il nome mazur è, infatti, generico, e comprende la mazurka vera e propria, mazurek, danza della regione di Varsavia; la Kujawiak, che nasce invece nella vicina Kujawy, e ha andamento più lento; infine l’Oberek, veloce o velocissima[2].  E’ una danza di ritmo ternario, che prevede l’accento in genere sul secondo o terzo movimento, ma anche talora sul primo. Chopin approfitta di questa varietà di accenti e della coesistenza di più danze nella stessa danza, per farle assumere talvolta, nelle sezioni interne, che possono coincidere col trio, il carattere vero e proprio di un valzer, ma quasi sempre un valzer assai leggero, con accenti appena accennati. Questa mutevolezza d’accenti è l’aspetto più difficile da affrontare, quando si suonano le mazurke di Chopin. Ma non è il solo scoglio. Chopin esaspera nelle danze la sua disposizione a evitare gli sviluppi tematici, le variazioni vere e proprie di un tema (a meno che non siano il soggetto della pagina, come le Variazioni su “Là ci darem la mano” dal Don Giovanni di Mozart). Preferisce la ripetizione o la variante di una stessa figura tematica, spesso brevissima. La frase supera di rado le due battute, e l’accento principale cade quasi sempre all’interno della seconda battuta. Questo attribuisce spesso ai temi delle mazurke l’aspetto di una caduta, di un precipitare nel vuoto. Ma a sua volta il tema, o la frase, sono composto di cellule ritmiche e melodiche minime, talora solo ritmiche, o cenni di melodia. Per esempio all’inizio della danza, a figurare l’introduzione strumentale di un organico contadino, violoncello e violino, cornamusa e violino, o anche il solo battito delle mani, due soli valori si ripetono su un pedale di tonica o di dominante: semiminima seguita da una minima (op. 6 n. 2), oppure minima puntata legata alla semiminima della battuta seguente seguita da due semiminime (op. 7 n3). Come si vede, ciò accade già nelle opere giovanili.  Gli incisi che, ripetuti, finiscono per formare la frase, sono generalmente di due crome seguite da una semiminima, oppure una croma puntata seguita da una semicroma che s’appoggia a una semiminima. Insomma, figure che sono moduli correnti della danza popolare. Chopin non cita né assume quasi mai esplicitamente motivi popolari, ma ne ricostruisce il sistema. Come, per esempio, la ripetizione sempre identica, per più battute, di una frase di due battute cambiandone, sotto, nell’accompagnamento, di battuta in battuta, l’armonizzazione. O viceversa, più raramente, lascia immutata l’armonia e cambia la tonalità, o piuttosto, il modo della frase. E qui veniamo all’altro punto essenziale della scrittura di Chopin: l’armonia modale, che spesso genera addirittura ambiguità tonale. Non è sempre facile, infatti, determinare la tonalità di certi passi, a meno che non si ammettano modificazioni modali. E’ del resto tipico della musica modale evitare sviluppi tematici, sostituiti da ripetizioni della frase, magari spostandola di modo in modo. Tutto ciò per dire che Chopin è molto più attento ai sistemi di costruzione musicale della musica popolare di quanto generalmente si pensi o si affermi. Ma è poi tipica della musica “colta” la rielaborazione. La consapevolezza della rielaborazione, che con gli anni dà sempre maggiore spazio al contrappunto, e addirittura al contrappunto imitato, e perfino all’imitazione perfetta, al canone. La struttura delle mazurke è dunque molto complessa, e proprio questa complessità ne rende difficile l’interpretazione. Alberto Nones ne è pienamente consapevole. Proprio questa complessità dei piani costruttivi cerca, infatti, di restituirci con la sua interpretazione. Senza rinunciare, tuttavia, al principio fondamentale dell’interpretazione di ogni pagina di Chopin, la fluidità del percorso e la libertà del fraseggiare. I diversi piani sonori della costruzione musicale devono offrirsi all’ascoltatore in una mutevolissima arte del tocco, non solo per far sentire i contrasti dinamici da battuta a battuta, ma anche l’evidenza delle voci all’interno del contrappunto. I piani sonori si distinguono anche da sezione a sezione della danza. Se la mazurka parte delicata, il suo trio sarà energico o brillante, e viceversa. Senza, però, che ciò costituisca una regola. Il contrasto dinamico può proporsi anche nel corso dell’esposizione di un singolo tema o di una singola frase. Se poi si considera che talora un vero e proprio tema principale non c’è, ma il tema stesso è formato dal succedersi di piccoli incisi tematici, allora si comprenderà la complessità estrema di queste mazurke. Da una parte si prefigurano la concentrazione, la condensazione costruttiva dei tardi pezzi pianistici di Brahms, e la loro forza emotiva, dall’altra l’intensità esplosiva dei piccoli pezzi pianistici del primo Schoenberg, e infine si pensa già a certe rielaborazioni che Bartók fa di danze slave e balcaniche. Ciò che sorprende dell’interpretazione di Nones è proprio la restituzione sonora, l’evidenza musicale di tale complessità strutturale. La varietà delle soluzioni interpretative corrisponde alla varietà veramente mutevole delle soluzioni formali che Chopin propone nelle sue mazurke. Prepararsi, dunque, con calma all’ascolto, chi può magari con la partitura delle mazurke sotto gli occhi, e si seguano a una a una, con calma, le sorprese della danza, liberando da ogni assillo esteriore la mente, e abbandonandosi al flusso miracoloso di una musica, che, da quando fu scritta e suonata per la prima volta, non cessa di sorprenderci per la sua novità, modernità, originalità, e di commuoverci per la sua condensatissima, esplosiva, intricatissima intensità espressiva. Se non è un vero viaggio al Paradiso, come qualcuno ha scritto della Commedia di Dante (il confronto non paia blasfemo, l’altezza della vertigine poetica è la stessa), questo, che sotto la leggerezza della danza nasconde e racconta molti inferni, è tutta via un viaggio dell’intelligenza verso la grazia finale in cui la mente e il cuore si congiungono, razionale e irrazionale si uniscono a definire i confini della bellezza. Provatevi a distinguere, in queste mazurke interpretate da Alberto Nones, dove finisce l’intelligenza della lettura musicale e dove comincia l’emozione della scoperta di un mondo nuovo. Sono esattamente la stessa cosa.
Fiano Romano, 14 maggio 2016


[1] F. Liszt, Chopin, versione italiana di9 Mary Tibaldi Chiesa, Milano, Genio, 1949, pagg.53-58.
[2] Traggo le precisazioni da Gastone Belotti, Chopin, Torino, EDT/MUSICA, 1984, pag. 191.