NOTE IN MARGINE SULLE MAZURKE DI CHOPIN INTERPRETATE DA
ALBERTO NONES
CONTINUO
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Dalle note precedenti sui due cd incisi da Alberto Nones,
che contengono l’interpretazione di tutte le mazurke di Chopin, potrebbe sembrare che il pianista abbia risolto
tutti i problemi dell’interpretazione delle mazurke. Non è, naturalmente, così,
perché nessun pianista, nemmeno il più grande, può risolvere tutti i problemi
interpretativi di pagine così complesse come le mazurke di Chopin. Ogni interpretazione
è la proposta di una lettura, e tale lettura mette in rilievo taluni aspetti
della pagina interpretata, lascia in ombra altri Faccio un esempio grandissimo:
ritengo che le Variazioni Diabelli di
Beethoven registrate da Sviatoslav Richter a Praga, in un concerto, siano a
tutt’oggi l’interpretazione più interessante e bella di questa pagina sublime.
Richter legge Beethoven come incunabolo della modernità, s’intravedono Chopin,
Brahms, Schoenberg, Bartók. E perfino lo Stravinsky neoclassico (Richter in fondo
nasce da lì!). Qualcuno potrebbe obiettare che questo sia uno stravolgimento di
Beethoven. Se lo è, allora sono uno stravolgimento di Wagner anche il Parsifal e il Ring bayreuthiani di Boulez. Ogni interpretazione è sempre, di
fatto, uno stravolgimento. Anche quella che si propone la “fedeltà assoluta”.
Ma fedeltà a che cosa? alla partitura? e quanto è fedele alle intenzioni del
compositore un piano rispetto a un pianissimo, a un mezzo piano? come si fa a
stabilirlo? Colui che viene sempre presentato come campione della fedeltà,
Toscanini, in realtà non lo è nemmeno lui. Un esempio tra mille: l’attacco
strumentale del brindisi, nella Traviata,
richiederebbe un piano. Toscanini attacca fortissimo. Fu rimproverato a Boulez di avere accelerato
i tempi del Parsifal. Ma se si confrontano i suoi tempi con quelli
della prima rappresentazione diretta nel 1882 da Hermann Levi, sotto il
controllo di Wagner, si scopre che il primo atto diretto da Levi dura un’ora e
47 minuti, diretto da Boulez un’ora e 35 minuti, dunque una durata assai
simile. Knapperbutsch lo faceva durare un’ora e 56 minuti, e siamo sempre nei
limiti, più o meno, della prima rappresentazione. Il più lungo, invece, contro
ogni aspettativa, è quello di Toscanini: due ore e 6 minuti. Ciò vuol dire che noi, oggi, siamo ormai avvezzi
a tempi più dilatati. Per curiosità di cronaca, il Fidelio più breve fu quello di Furtwaengler a Vienna, un direttore
che passa per lento. Tutto questo per dire che un’interpretazione va ascoltata
non per controllare quanto corrisponda alle nostre idee e aspettative, bensì per
capire che cosa ci proponga di nuovo o di consueto. Lo stesso principio
metodologico vale anche per queste mazurke
di Chopin interpretate da Alberto Nones. Aggiungo qui qualche osservazione. E mi
scuso per le digressioni. Ma fanno parte, appunto, della discussione sulla
critica, sul metodo di una critica. Avrei voluto
scrivere, anche, e diffusamente, di qualcuna delle mazurke (soprattutto, per
esempio, dell’op. 50, e in particolare della n. 3, pagina visionaria e
allucinata, nella rievocazione del contrappunto bachiano). Ma mi è sembrato di
appesantire il testo. Magari, forse, un’altra volta ci ritorno sopra, in un’antologia
dell’interpretazione chopiniana. Talune soluzioni interpretative proposte da
Nones mi paiono, tuttavia, ancora irrisolte, e come potrebbe essere
diversamente? Immagino il senso d’inadeguatezza che ciascun interprete, che non
sia un inguaribile narciso, possa provare quando affronta pagine di così
intricata complessità strutturale. Ma il contrasto dinamico tra certi pp e
certi ff mi appare talora troppo brusco. Il rubato, qui e là, troppo esibito,
poco fluido, poco naturale. Ma sarebbe cercare l’umido in una tazza di tè. Il
risultato complessivo è mirabile. E il messaggio arriva. Quello, appunto, della
complessità tremenda di ciascuna pagina, del frammento di ciascuna pagina, la
fatica di accostare qualcosa che sembra quasi inaccostabile, e infine il
tormento, quasi una sofferenza intellettuale, prima che emotiva, di fare
emergere un sommerso dolorosissimo dalla leggerezza della danza, che invece di
nasconderlo lo fa affiorare nel suono, nel ritmo, ora esitante ora deciso, più
efficacemente, che se lo gridasse spavaldamente in un empito eroico (ci sono le
polacche, per questo, ma anch’esse
non evitano - anzi! - l’ellissi, la reticenza, il sussurro sommesso). Insomma: queste
mazurke, oltre ad affascinare, a
illuminare la mente, commuovono. Se posso confessarlo, vi ho riconosciuto il
“mio” Chopin. Vale a dire la ricerca di esprimere l’inespresso, il non scritto.
L’antica teoria estetica indù (dhvanaloka) direbbe che la poesia sta proprio
nell’inespresso, nel non detto, il sostrato che sorregge il testo di ogni
poesia. In musica è forse il cuore della pagina, per esempio, tra gli altri,
anche per Haydn e, soprattutto, per Schubert, e non parliamo di Schumann. Ma il
punto di riferimento, per tutti, compositori e interpreti, resta Bach. In
particolare, oltre all’irrinunciabile Clavicembalo
ben temperato (ma quando ci decideremo a chiamarlo col suo vero titolo:
tastiera ben temperata? dunque qualsiasi tastiera, non solo il clavicembalo),
le Partite. L’allemanda della quarta, in re maggiore, è probabilmente il modello
di molte pagine di Schumann. Da quell’allemanda
si arriva alle Bagatelle di
Beethoven, e ci si apre un mondo visionario, come se Beethoven contenesse già
lo sviluppo di ciò che avrebbero detto i romantici e poi soprattutto
Schoenberg. Insomma, è sbagliato dire che un compositore anticipa un altro, è
vero esattamente il contrario: i compositori sviluppano le intuizioni di chi li
ha preceduti. E’ questa la tradizione, non l’imitazione di un modello perfetto.
In tal senso gli ultimi trii di Haydn sono un vulcano di idee, vi si
riscontrano già i modelli della musica di Schubert, compresa l’immediata alternanza
modale sulla tonica, maggiore-minore (ma se ne sentirà stimolato anche
Beethoven nel quartetto op. 130).
Forse gli zingari della campagna ungherese e austriaca, che Haydn ascoltava dal
castello di Eszterháza e Schubert nelle Heuriger dei dintorni di Vienna,
offrivano, già prima che a Liszt, anche a loro, evocazioni irresistibili. Come,
appunto, accade a Chopin per le mazurke
contadine, ascoltate nelle sortite di villeggiatura estive, o quelle cittadine
dei salotti di Varsavia. C’è ancora un altro aspetto da mettere in risalto.
Albero Nones fa bene a trascurare una maniera considerata tipicamente polacca, ch’è
invece spesso leziosa, ma piace tanto a certi pianisti alla moda e a troppi
dilettanti. In Chopin non c’è mai nulla di lezioso. Anzi, più spesso la sua
musica suona aspra, urticante. E Nones lo mette bene in evidenza. A qualcuno
potrà sembrare talora troppo rude, troppo rozzo. Ma solo a chi confonde la
fierezza con la rozzezza, il non finito michelangiolesco con l’abbozzo
frettoloso. Chopin usava spesso,
suonando, aggiungere fioriture. Come lo facevano i cantanti nelle arie. E prima
di Chopin, lo faceva Mozart. Siamo, infatti, sicuri che la scrittura di Mozart,
così asciutta, e per noi così moderna, che ama distanziare singole note nei
registri lontani, soprattutto col pianoforte, penso al Concerto in la maggiore K. 488, tempo lento, coda, vada eseguita
così asciutta e non vada invece riempita con arpeggi, scalette che coprano la
distanza? E Bach, se suonato al pianoforte, dovrà rinunciare ad ogni sfumatura
dinamica? Ma allora che senso avrebbe la scelta del pianoforte, invece che del
clavicembalo? E il fraseggiare bachiano, che sappiamo liberissimo sul
clavicembalo, dobbiamo irrigidirlo in una metrica rigorosa, quando è eseguito col
pianoforte, come pretendono certi interpreti e soprattutto certi insegnanti di
conservatorio? Nones aggiunge fioriture nella melodia di una delle mazurke, non
so se registrata da un manoscritto o da un’edizione che non conosco, o se
inventata lì per lì da Nones stesso. Ci stanno benissimo. Lo faceva anche Wanda
Landowska con Mozart. Se l’interpretazione potesse risolvere tutti i problemi
dell’interpretazione non ci sarebbe interpretazione. L’Iliade che leggiamo noi oggi non è quella che scrisse e recitava
Omero, nemmeno se la leggiamo in greco. Quanto al folk, siamo rimasti a lungo
schiavi di un equivoco. Nemmeno Bartók ha mai pensato di “restituire” con il
pianoforte, il quartetto, l’orchestra, l’”autentica” musica popolare. Non c’è
niente di più inautentico che la ricerca dell’autentico, scrive Adorno. E siamo
d’accordo con lui, su questo. Ossessiona i mediocri senza personalità. Ma anche
Bartók, invece, vedeva nei procedimenti della musica popolare non melodie o ritmi
da imitare, ma possibilità e libertà che la tradizione colta si era lasciata
per strada. Nei procedimenti, dunque, e non nelle melodie belle e fatte o nei ritmi
prefigurati. E questo fa già Chopin. Come faranno Smetana e Dvořák, Musorgskij e perfino Čajkovskij. Una volta, tanti anni fa, scrissi, nella recensione di un
concerto, che Beethoven era insensibile alla musica popolare, perché aveva
armonizzato i canti popolari scozzesi come se fossero canti di qualsiasi popolo,
senza carattere nazionale. Salvatore Sciarrino me lo rimproverò. Mi disse che
Beethoven aveva trasferito su un altro piano, su un’altra consapevolezza,
procedimenti che lo interessavano proprio perché diversi dalla tradizione
colta, ma li aveva poi assimilati a questa tradizione. Insomma Beethoven non fa
cattivo folklore. Aveva ragione e mi sono ricreduto. Del resto, lo stesso
Sciarrino ha rielaborato, e meravigliosamente, le canzoni da battello veneziane
e le canzoni di Cole Porter. Nemmeno Chopin è tentato dalla riproduzione del
folklore, in un momento in cui, invece, i romantici, poeti, musicisti, pittori,
idealizzavano il popolo come sorgente e modello d’ogni espressione del bello. Il
compositore attento, consapevole, non rinuncia mai, invece, all’elaborazione
“colta” di tutto ciò che il mondo dei suoni, dal canto degli uccelli al fischio
dello zappatore (ah! Leopardi!), dallo sbattere degli sportelli dei treni
(penso a Carducci, ma anche ai mottetti di Montale) alle canzonacce di San
Remo, gli porta alle orecchie. Ma la personalità del poeta, del compositore,
sta appunto nell’elaborazione “colta”, consapevole, di quanto lo suggestiona, non
nella riproduzione pappagallesca di supposti “autentici” canti popolari. In
questa trappola, per esempio, si è guardato bene dal cascare un musicista
colto, attento, come Roberto De Simone. La Nuova Compagnia di Canto Popolare è,
per nostra fortuna, una sua personalissima reinvenzione del canto popolare
napoletano, e non lo scimmiottamento di chi sa quale popolarità immaginaria. E’
sempre accaduto. Si pensi alle messe polifoniche rinascimentali su un canto
goliardico osceno come “L’homme armé”, dove si parla di “armi” che s’infilano
davanti e di dietro. Qualcuna di queste messe è sublime. Ma del popolare non ci
restituisce nemmeno l’ombra. Sto, tuttavia, divagando. Ma non troppo. Un’ultima
notazione. Ciò che sembra emergere da questo Chopin delle mazurke è soprattutto la
profonda, inguaribile, anche se dolcissima, tristezza dell’esiliato. Ma può darsi, chi sa, che ogni artista è a suo modo un esiliato. Ed
è questo suo comunicarci un esilio che ci commuove, noi perenni esiliati del
mondo.
Fiano Romano 16 maggio 2016
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