lunedì 24 settembre 2018

Muta Imago: Combattimento







Muta Imago: Combattimento

A volte il teatro è qualcosa che va fuori del teatro. Ma proprio perché la rappresentazione ci scaraventa in un oltre, in un altro, è in realtà teatro. Il teatro è sempre un oltre, un altro dalla rappresentazione. Come quando Sigismondo, nella Vita è sogno di Calderón de la Barca riflette che nella vita tutti sognano ciò che sono. La riflessione nasce dalla sua esperienza, ha creduto di uscire dalla torre dove vive prigioniero e di trovarsi nel palazzo del re, riverito, onorato. Ma gli hanno detto ch’è stato un sogno. In quel momento lo spettatore si chiede quanto ci sia di irreale anche nella propria vita. Ecco allora che il personaggio di Sigismondo in quel momento è sé stesso e altri da sé stesso: l’azione si svolge in Polonia, ma lo spettatore la riferisce a sé stesso, in Spagna, in Italia, in Francia, in Inghilterra. L’individuale, come spiega bene Aristotele, si fa universale. Ma forse, questo, non vale solo per il teatro. E’ questa anche la sostanza, la natura della poesia, della musica, dell’arte. E’ il nodo in cui si condensa, in ogni attività umana, il significato, qualunque significato, è quanto accade ogni volta che ci confrontiamo con la natura del linguaggio. Il linguaggio nomina l’assente. Quando dico “la città di Londra” e lo dico in una casa di Madrid, Londra non c’è, ma è presente nel linguaggio, nella parola che la evoca. Il teatro, in ogni rappresentazione, ci presenta l’assente, l’altro, che noi riferiamo sempre a noi stessi.

Questa, comunque, non vuole essere né una critica teatrale né la recensione di uno spettacolo di danza o, più esattamente, di teatro-danza. Sono, invece, queste righe, nient’altro che riflessioni trasversali sulla natura del teatro, sul senso di fare teatro oggi. Trasversali perché partono da un avvenimento concreto, da una rappresentazione reale, che ho visto a Roma. Non ci si meravigli, però, dell’arditezza del proposito: a volte si mira il tiro più in alto del bersaglio per essere certi di colpirlo. Del resto, già dal primo studio scientifico sul teatro, la Poetica di Aristotele, si coglie un aspetto essenziale del genere: che esso è azione. Non è dunque la scrittura di un testo, che poi viene recitato sulla scena, o la partitura di una musica che accompagni la recitazione. Sia detto chiaramente, e non ci si strappi le vesti per qualche alloro deturpato, per qualche gloria detronizzata, ma si ha teatro solo quando si assiste alla recita, si ha musica solo quando se ne ascolta l’esecuzione. La scrittura, sia quella verbale che quella musicale, e cioè il testo letterario, la partitura, non sono, per restare nell’ambito della teorizzazione aristotelica, che teatro e musica in potenza: l’atto è la recita, l’esecuzione. L’opera letteraria, un copione. La partitura, un appunto, l’indicazione scritta per la realizzazione sonora.

Se non si entra in questa prospettiva da cui osservare il fenomeno, non si capisce che cosa si stia vedendo, che cosa si stia ascoltando; anzi, ancora più radicalmente, non si capisce che cosa e perché si reciti, che cosa e perché si suoni. Il teatro e la musica - ma anche la danza - hanno in comune il fatto che ciò che sembra il punto terminale, cioè la scrittura, la concezione, il disegno dei movimenti, sono invece solo la premessa per la realizzazione di ciò che chiamiamo teatro, musica, danza. La scrittura è un appunto per la memoria. Prima che venisse scritta, la poesia si è trasmessa di bocca in bocca, per via esclusivamente orale. Ciò non significa che la scrittura sia indifferente, trascurabile, o secondaria. Il valore letterario di un testo non è affatto indifferente alla qualità della recita di un dramma. E ancora meno indifferente alla riuscita dello spettacolo è l’organizzazione drammaturgica degli eventi. La precisione con cui sono segnate sul pentagramma le indicazioni per l’esecuzione, la complessità stessa della concezione strutturale di una musica, non sono affatto indifferenti alla bellezza della musica che si ascolterà. Il lavoro di preparazione, gli esercizi di abilità nei movimenti del corpo, la fantasia e l’invenzione di nuove fantasmagorie gestuali, non sono indifferenti alla perfezione di una danza. Ma è il risultato finale che conta, e conta anche se solo immaginato nel momento in cui si legge il copione, la partitura, si considera il disegno dei gesti. Wagner, questo, l’aveva capito benissimo. Il dramma non è il libretto e nemmeno la partitura, ma l’attuazione sulla scena, in cui confluiscono insieme testo letterario e partitura, raccordati dalla coreografia, vale a dire dalla realizzazione di una drammaturgia.

Tutte queste riflessioni mi sono venute, come scrivevo più sopra, guardando uno spettacolo visto a Roma, nell’ambito della rassegna Short Theatre, presentata nello spazio della Pelanda, all’ex-mattatoioio di Testaccio: Cambattimento, ideato e realizzato da Muta Imago, una compagnia teatrale che lavora tra Roma e Bruxelles. La regia è di Claudia Sorace, la drammaturgia, sia teatrale sia musicale, di Riccardo Fazi. Attrici, e insieme danzatrici, o qualcosa di più, di diverso, direi creatrici, persone, nel senso etimologico del termine, e cioè maschere, in questo caso maschere rituali, o per dirla all’inglese con termine onnicomprensivo, performers, del bellissimo spettacolo sono due giovani donne, bravissime, coinvolgenti, affascinanti: Annamaria Aimone e Sara Leghissa. Lo spettacolo, dopo Roma, gira per l’Italia. Chi può dunque trovarselo vicino casa, vada a vederlo. 

 

Le musiche, scelte da Riccardo Fazi, il drammaturgo dello spettacolo, funzionano un po’ come il supporto ritmico di tutta l’azione. Esse sono:

1) Exotourisme - Soiré
2) Chancha via circuito - Quimey Neuquén (Pedro Canale)
3) Cumbia en moog - Cumbia de sal
4) Exotourisme - Happening en abyme
5) Ennio Morricone - L'arena
6) Ennio Morricone - Il ritorno di Ringo

Ma si sbaglierebbe a giudicare il senso e il valore dello spettacolo dal senso e dal valore di queste musiche. Esse sono, appunto, solo un supporto, una guida ritmica, una sottotraccia dell’azione, il sottotesto del testo, che in questo caso è lo spettacolo. Impariamo a vedere anche in una rappresentazione teatrale un testo. E come ogni testo, anche la rappresentazione teatrale ha sottotesti, citazioni, associazioni, suggerimenti, allusioni. Qualche parola delle canzoni si associa inaspettatamente, e visionariamente, violentemente, ai gesti delle due attrici e danzatrici, spiazzano lo spettatore, lo distolgono dall’immediato per inserirlo in un campo più vasto di significati. Come quando si chiede di lasciare libera l’associazione delle immagini o delle parole a un’immagine e a una parole di partenza. Come quando ci si sottopone al test di Rorschack. Allora il senso non andrà cercato nella corrispondenza tra parola e gesto, bensì nel campo delle suggestioni, dei suggerimenti, delle emozioni che ogni accostamento potrà suscitare nello spettatore.

All’inizio le due attrici (le chiameremo da ora in poi sempre così, attrici, soltanto attrici, non perché siano davvero solo “attrici”, ciò limiterebbe il campo della loro azione teatrale, ma proprio perché nel termine c’è la radice della parola che dice l’azione, il dramma – che è poi dire azione in greco -, all’inizio, dunque, le due attrici si confrontano l’una accanto all’altra, l’una con l’altra, l’una contro l’altra, e stanno ritte, in atto di sfida, ogni tanto si guardano. Indossano solo calzoncini e maglietta, neri. Per terra, sulla scena, giacciono diversi oggetti, piume, copricapi piumati, una lunga asta flessibile, stesa sul pavimento, che subito una delle due attrici impugna, potrebbe essere la spada della Forza che si vede in Guerre Stellari. E a una guerra ci prepara il confronto delle due donne. “Combattimento indaga il concetto di amore come guerra”, chiarisce nelle note di sala il drammaturgo. Si pensa subito, anche per via del centenario, al Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi. Del resto già Tasso nell’episodio del cavaliere cristiano che sfida il guerriero musulmano, ignorando che sia invece la donna amata armatasi da cavaliere, gioca sull’ambiguità del duello come lotta amorosa. I due si stringono, si abbracciano, si divincolano, si confrontano con l’intento reciproco di uccidersi, ma se si scoprissero, se si togliessero l’elmo, si vedessero in faccia e si riconoscessero, è a un’altra morte che penserebbero. Nel linguaggio poetico rinascimentale morire, infatti, è sinonimo di venire (che anch’esso è una metafora, un termine dal senso figurato), avere un orgasmo. Un bellissimo madrigale del IV Libro comincia proprio con un’esplicita allusione all’atto di eiaculare: “Sì, ch’io vorrei morire”. E più avanti il madrigale esplode in interiezioni erotiche; “Ahi, bocca! Ahi, lingua!” per concludersi con il riaffermare l’attacco di propositi espliciti di eiaculazione: “Sì, ch’io vorrei morire”. In francese, del resto, l’orgasmo si chiama “petite mort”.

Ma tutto questo, nella rappresentazione, è invece la premessa, il sottinteso, cui si allude solo nel titolo: Combattimento. La rappresentazione esplora altri territori. Appena una delle due attrici comincia a indossare qualcuno degli oggetti piumati che giacciono per terra, la fantasia vola agli sciamani dell’Africa, o dell’Asia, o piuttosto dell’America Centrale, ai Maia, agli Aztechi. Si pensa al Serpente Piumato, che salva dal dolore. Ai sacrificati dai quali si estrae il cuore che dà vita al Sole. Ma poi anche l’altra attrice indossa le piume, si copre la testa con un copricapo piumato. E allora le attrici si confrontano come due galli, la vittoria dell’uno significherà la morte dell’altro. Il combattimento è per la vita, è la vita, che eguaglia alla fine i contendenti, li denuda, li spoglia delle piume, li mostra nudo corpo che respira, che ansima, si accoppia, si disgiunge, si disgrega, fragile carne che muore. Quasi ci si sorprende, poi, a rivederle alla fine sorridenti, le due attrici, a vederle che s’inchinano e ringraziano il pubblico per gli applausi.

Per circa 50 minuti, dunque, la vita l’abbiamo vista agire – eh già! azione, di nuovo, dramma, teatro – sotto i nostri occhi. Ci siamo, anzi, sentiti toccati da un senso della vita che ci sconvolge, che ci è sembrato dapprima estraneo, ma poi via via più intimo, più terribile. Lassù, sulla scena, quelle due agitate marionette – eh sì! sembravano anche questo, marionette: perché no, Kleist, Pentesilea? – marionette che si contorcevano, convulse, su sé stesse, marionette che eravamo noi, e rappresentata noi vedevamo lassù la nostra stessa vita. Freud, questo, lo chiamerebbe transfert. Aristotele, meno psicologico, ma più concreto, perché va più a fondo nella natura del rapporto che l’uomo ha con la propria vita, del rapporto che con la vita ristabilisce il teatro, la chiama catarsi, purificazione, e cioè riconoscimento del male da cui ci liberiamo. Ecco, uno spettacolo così, senza parole, con i soli gesti, ci riconduce, per la sola forza dell’azione, al gesto primario della vita: che è respirare. Il respiro, per tutto lo spettacolo, comincia, dapprima circoscritto e raccolto in uno sguardo, e poi si evolve, si espande, significa tante cose, finisce. Si coniuga, anche, con altri respiri. Vi si rispecchia. Ma è sempre lo stesso gioco: quello della vita e della morte, dell’amore che unisce e dell’amore che distrugge. Dell’amore che è anelito di annientamento, l’immedesimamento con l’altro che è anche, però, l’eliminazione di sé stesso nell’eliminazione dell’altro.

Lucrezio, questo incontrarsi e scontrasi degli amanti, questa reciproca distruzione scatenata dal desiderio d’immedesimazione, lo racconta insuperabilmente nel quarto libro del De rerum natura. Gli amanti aspirano a una congiunzione, a una penetrazione irreversibile dell’uno nell’altro, a un’immedesimazione che non potranno mai raggiungere, mai attuare, e che convulsamente, spasmodicamente, oggi diremmo nevroticamente, ripetono e ripetono ancora all’infinito nella speranza di raggiungerla, ma ciò che raggiungono è solo il reciproco annientamento, la reciproca distruzione. Come se per gli amanti l’unico vero esito dell’amore fosse suicidarsi: il suicidio attuato da entrambi proprio nell’atto stesso di amarsi. Si dice dormire insieme, ma, se ci pensate bene, ciascuno dorme da sé, per sé solo, senza percepire il sonno dell’altro.

Sta qui la domanda, the question, direbbe Amleto, sta qui rappresentato il terribile dell’esserci, l’inestricabile groviglio dell’esistenza. Il teatro, rappresentandolo, questo groviglio, pronunciandola, questa domanda, non ci dà nessuna risposta, non può, nessuno può, nemmeno un dio, se potessimo ascoltarlo, ma ci fa capire come formularla, questa domanda che chiede, esige la soluzione dell’enigma. Edipo rispose: l’uomo. Il teatro continua a darci questa stessa risposta, da sempre: l’uomo. Ma non è una vera risposta. E’ sempre di nuovo l’enigma della Sfinge, ma questa volta formulato non più come un indovinello, bensì con la chiarezza, anzi con l’evidenza, della visione, della realtà: in una parola, della rappresentazione. Se è vero che l’uomo è l’unico animale che possieda il linguaggio, e che il linguaggio è l’unico strumento con cui l’uomo conosce il mondo, allora il teatro è la rappresentazione del mondo, perché tutto ciò che mostra è il linguaggio con cui racconta il mondo. O meglio, il racconto che mette tutte le carte sulla tavola. Ciascuna un enigma, nessuna una risposta. Eppure l’enigma che la Sfinge pose ad Edipo e l’enigma che il teatro ci rappresenta sulla scena hanno in comunque questo: che si risponde a rischio della vita. Una partita all’ultimo sangue, vale a dire all’ultimo significato. Non rispondere, non trovare risposta, è il rischio che si corre non solo sulla scena, ma nella vita. E la scena rispecchia proprio questo rischio.

Fiano Romano, 24 settembre 2018


venerdì 21 settembre 2018

Otto poesie di Silvina Ocampo




OTTO POESIE DI SILVINA OCAMPO


Otto poesie di Silvina Ocampo, notevole scrittrice argentina del secolo scorso, che occupa quasi tutto per intero. Moglie di Bioy Casares e amica di Borges, era, insieme alla sorella Victoria, fondatrice della rivista Sur, il centro intellettuale di una Buenos Aires in pieno fermento artistico, teatrale e letterario., oltre che musicale. Il testo spagnolo va pronunciato con la pronuncia argentina, e dunque s, c, z equiparate in un comune suono s, e y seguita da vocale e la doppia l (ll) seguita da vocale, pronunciate come la j francese di Jean o, meglio, inglese di James. Tale pronuncia è essenziale per la correttezza delle rime: caza e casa (caccia e casa), per esempio, fanno rima, che sarebbe impossibile con la pronuncia iberica. Bioy Casares racconta che quando annunciò a un amico che si sarebbe sposato (casar) questi disse: non sapevo che ti piace andare a caccia (cazar). Gli argentini, giustamente, ci tengono a difendere le caratteristiche della loro lingua e a distinguerla dallo spagnolo della Spagna. Come gli statunitensi, del resto, del loro inglese (american english) rispetto ai britannici. Silvina Ocampo, poi, adotta anche la coniugazione e i pronomi tipici dei parlanti argentini: seconda persona vos, invece di tu, vos sabés, tu sai, invece di tu sabes degli spagnoli. Diversi anche gli imperativi: llevame eso, in Spagna llévame eso. Portami quello. E’ diversa anche, come si è detto sopra, la pronuncia della ll: argentino jevàme (j di James), spagnolo gliévame (traslitterazione italiana).

Apparentemente, queste poesie sembrano molto classiche. L’influsso “modernista” si sente, però, nell’imprevedibilità degli accostamenti metaforici. Così come il distacco, si direbbe la freddezza, delle confessioni sentimentali. Abilissimo il dominio della prosodia e l’uso delle rime, e delle assonanze (più diffuse nella poesia di lingua spagnola che in italiano) spesso assimilate a una vera e propria rima. Del resto il romance in ottonari, fin dal Medioevo, si regge sulle assonanze dei versi pari. Ed è usato prevalentemente come verso del dialogo nel teatro. La varietà e libertà metrica e l’uso delle rime costituisce anzi un carattere distintivo del teatro spagnolo, rispetto alla scena inglese o francese, e rappresenta un aspetto non secondario del suo fascino e della sua musicalità. La vida es sueño (La vita è sogno) di Calderón de la Barca o El perro del hortelano (Il cane dell’ortolano) di Félix Lope de Vega y Carpio devono molto della loro straordinaria bellezza poetica e della loro efficacia teatrale proprio alla duttilissima, libera, meravigliosa varietà metrica e musicalità delle rime. Nella poesia di Silvina Ocampo questa tradizione costituisce una sorta di sottotesto. Nessuna citazione esplicita. Ma leggendo si è continuamente rinviati a versi famosi di una lunga e straordinaria tradizione poetica come quella spagnola. Per esempio, come non pensare a Teresa di Ávila, nel sonetto “Quiero morir si de mi vida no hallo” (voglio morire se della mia vita non trovo): “Vivo sin vivir en mí 
y tan alta vida espero, /que muero porque no muero” (vivo senza vivere in me e così alta vita spero, / che muoio perché non muoio). Ma i nomi che si potrebbero fare sono molti. Compresi, ai due estremi delle Americhe, il nicaraguense Rubén Darío, in qualche modo padre dei modernisti, e il cileno Pablo Neruda. Ma senza dimenticare gli spagnoli Antonio Machado e la densa, intensissima, esperienza umana e poetica di Pedro Salinas (“Hoy estoy besando un beso; / estoy solo con mis labios” - sto baciando un bacio: / sto solo con le mie labbra). Per non parlare di un’altra grande poetessa argentina, Alfonsina Storni, morta suicida nel 1938, a 46 anni, buttandosi e affogando nel mare di Mar del Plata, soggiorno estivo anche di Silvina Ocampo, nella sua Villa Silvina.
Perché ritorno a questi poeti? La poesia di ogni poeta è inimitabile. Tanto più se di epoche diverse. I petrarchisti non sono Petrarca. Ma qualcuno si avvicina alla sua grandezza. Almeno due: Giovanni della Casa e Shakespeare. A parte, a sé, Michelangelo e John Donne. Ma questi poeti americani e spagnoli ci dicono ancora oggi una cosa essenziale: che non c’è poesia senza musica. Alfonso Berardinelli scriveva qualche settimana fa, sul Sole24Ore, che certi poeti italiani di oggi gli fanno rimpiangere endecasillabi e rime. Be’, allora leggiamo questi endecasillabi di Silvina Ocampo, ascoltiamo queste sue rime. Chi sa che non si riesca e riscoprire una musica segreta anche della poesia italiana di oggi.

Fiano Romano, 21 settembre 2018





1. A veces te contemplo en una rama,
en una forma, a veces horrorosa,
en la noche, en el barro, en cualquier cosa,
mi corazón entero arde en tu llama.

Y sé que el cielo entre tus labios me ama,
que el aire forma tu perfil de diosa
de oro y de piedra, sola y orgullosa,
que nadie existirá si no te llama.

Entre tus manos quedaré indefensa,
no viviré si no es para buscarte
y cruzaré el dolor para adorarte,

pues siempre me darás tu recompensa,
que es mucho más de lo que te he pedido
y casi todo lo que habré querido.




2. Los delfines no juegan en las olas
como la gente cree.
Los delfines se duermen bajando hasta el fondo del mar.
¿Qué buscan? No sé.
Cuando tocan el fin del agua
despiertan bruscamente
y vuelen a subir porque el mar es muy profundo
y cuando suben ¿qué buscan? No sé.
Y ven el cielo y les vuelve a dar sueño
y vuelven a bajar dormidos,
y vuelven a tocar el fondo del mar
y se despiertan y vuelen a subir.
Así son nuestros sueños.


3. Nos iremos, me iré con los que aman,
dejaré mis jardines y mi perro
aunque parezcas dura como el hierro
cuando los vientos vagabundos braman.

Nos iremos, tu voz, tu amor me llaman:
dejaré el son plateado del cencerro
aunque llegue a las luces del desierto
por ti, porque tus frases me reclaman.

Buscaré el mar por ti, por tus hechizos,
me echaré bajo el ala de la vela,
después que el barco zarpe cuando vuela

la sombra del adiós. Como en los fríos
lloraré la cabeza entre tu mano
lo que me diste y me negaste en vano.




4. Qué ángel te librará de la tristeza
y te despertará un precioso día
sin memoria de lo que te afligía
y te dirá al oído: "Escucha y cesa

tus llantos. En mis brazos no te pesa
la lentitud del tiempo ni la impía
delación de los hombres. Eres mía,
ya no eres de este vano mundo presa.

Asómate a esta fúlgida ventana
por tu dicha adornada. Ya el dolor
se marchitó como una larga flor

cuya sabiduría al fin te sana
al disolverse porque se convierte
en polvo, en ilusión, en otra suerte".




5. Quiero morir si de mi vida no hallo
la meta del misterio que me guía,
quiero morir, volverme ciega y fría
como la planta que fulmina el rayo.

Si lo que ansío decir es lo que callo,
y si he de aborrecer lo que quería
sin asco y sin vergüenza hasta este día,
si todo lo que intento es mero ensayo,

será porque he vivido de mentiras.
Por no morir quiero morir. El viento
que suena entre los muros con sus liras

o el hibisco bermejo, o el fragmento
de la luna, siempre algo, hasta mi queja,
me deslumbra y me deja más perpleja.


6. Quisiera ser tu predilecta almohada
donde de noche apoyas tus orejas
para ser tu secreto y ser las rejas
de tu sueño: dormida o desvelada

ser tu puerta, tu luz cuando te alejas,
alguien que no trató de ser amada.
Huir de la ansiedad que está en mis quejas,
poder a veces ser lo que soy, nada,

no tener nunca miedo de perderte
con variación y honda infidelidad,
jamás llegar por nada a concederte

la tediosa y vulgar fidelidad
de los abandonados que prefieren
morir por no sufrir, y que no mueren.


7. Si la verdad se vuelve una mentira,
si se vuelve dolor la dicha aviesa,
si se vuelve alegría la tristeza
con sus falsas promesas cuando expira,

si la virtud a la cual en vano aspira
mi vida frustra la habitual promesa,
si el corazón de odio o de amor me pesa
y al helarse cual mármol, aún suspira.

Si no pude enmendarme al recibir
la ingratitud de los que más he amado
ni pude ensombrecerme al eximir

de mi cariño a los que me han colmado,
será porque los dioses me han herido
del inocente horror de haber nacido.


8. Si soy en vano ahora lo que fui,
como la blanda y persistente arena
donde se borra el paso que la ordena,
no he sufrido bastante, amor, por ti.

Ah, si me hubieras dado sólo pena
y no la infiel intrépida alegría
tu crueldad no me lastimaría,
no podría apresarme tu cadena.

Quiero amarte y no amarte como te amo;
ser tan impersonal como las rosas;
como el árbol con ramas luminosas

no exigir nunca dichas que hoy reclamo;
alejarme, perderme, abandonarte,
con mi infidelidad recuperarte.


1. A volte ti contemplo in un ramo,
in una forma, a volte orribile,
nella notte, nel fango, in qualunque cosa,
intero il mio cuore arde nella tua fiamma.

E so che il cielo tra le tue labbra mi ama,
che l’aria forma il tuo profilo di dea,
di oro e di pietra, sola e orgogliosa,
che nessuno esisterà se non ti chiama.

Tra le tue mani resterò indifesa,
non vivrò se non è per cercarti
e incrocerò il dolore per adorarti,

perché sempre mi darai la tua ricompensa,
che è molto più di ciò che ti ho chiesto
e tutto quasi di ciò che avrò amato.


2. I delfini non giocano con le onde
come crede la gente.
I delfini dormono scendendo fino al fondo del mare.
Che cercano? Non lo so.
Quando toccano la fine dell’acqua
si svegliano bruscamente
e tornano a salire perché il mare è molto profondo
e quando salgono, che cercano? Non lo so.
E vedono il cielo e li ripiglia il sonno
e tornano a scendere addormentati,
e tornano a toccare il fondo del mare
e si svegliano e tornano a salire.
Così sono i nostri sogni.

3. Ce ne andremo, me ne andrò con quelli che amano,
lascerò i miei giardini e il mio cane
anche se sembrerai dura come il ferro
quando i venti vagabondi bramano.

Ce ne andremo, la tua voce, il tuo amore mi chiamano:
lascerò il suono piatto del campanaccio
anche se arrivo alle luci del deserto
per te, perché le tue frasi mi reclamano.

Cercherò il mare per te, per i tuoi sortilegi,
mi butterò sotto l’ala della vela,
dopo che il battello salpi quando vola

l’ombra dell’addio. Come quando fa freddo
piangerò la testa nella tua mano
ciò che mi desti e mi negasti invano.


4. Che angelo ti libererà dalla tristezza
e ti sveglierà un prezioso giorno
senza memoria di ciò che ti affliggeva
e ti dirà all’orecchio: “Ascolta e cessa

i tuoi pianti. Tra le mie braccia non ti pesa
la lentezza del tempo né l’empia
delazione degli uomini. Sei mia,
non sei più di questo vano mondo prigioniera.

Affàcciati a questa fulgida finestra
per la tua felicità adornata. Ormai il dolore
s’è marcito come un lungo fiore

la cui saggezza finalmente ti risana
al dissolversi perché si converte
in polvere, in illusione, in altra sorte.


5. Voglio morire se della mia vita non trovo
la meta del mistero che mi guida,
voglio morire, diventare cieca e fredda
come la pianta che brucia il fulmine.

Se ciò che anelo dire è ciò che taccio,
e se devo aborrire ciò che amavo
senza schifo e senza vergogna fino a questo giorno,
se tutto ciò che mi prefiggo è puro tentativo,

sarà perché sono vissuta di menzogne.
Per non morire voglio morire. Il vento
che suona tra i muri con le sue lire

e l’ibisco vermiglio, o il frammento
della luna, sempre qualcosa, perfino il mio lamento,
mi abbaglia e mi lascia più perplessa.


6. Vorrei essere il tuo prediletto cuscino
dove di notte appoggi le tue orecchie
per essere il tuo segreto ed essere le grate
del tuo sogno: addormentato o svegliata

essere la tua porta, la tua luce quando ti allontani,
qualcuna che non cercò di essere amata.
Fuggire dall’ansia che c’è nei miei lamenti,
potere a volte essere ciò che sono, niente,

non avere mai paura di perderti
con variazione e profonda infedeltà,
non arrivare mai per niente a concederti

la tediosa e volgare fedeltà
degli abbandonati che preferiscono
morire per non soffrire, e che non muoiono.


7. Se la verità diventa una menzogna,
se diventa dolore la felicità obliqua,
se diventa gioia la tristezza
con le sua false promesse quando spira,

se la virtù a cui invano aspira
la mia vita frustra l’abituale promessa,
se il cuore per odio o per amore mi pesa
e al gelarsi come marmo, ancora sospira.

Se non potei emendarmi ad incassare
ingratitudine da chi più ho amato
né potei rattristarmi all’esentare

del mio affetto chi me ne ha colmato,
sarà perché gli dei mi hanno ferita
con l’innocente orrore di essere nata.


Se sono invano adesso ciò che fui,
come la vana e persistente sabbia
dove si cancella il passo che la misura,
non ho sofferto abbastanza, amore, per te.

8. Ah, se mi avessi dato solo pena,
e non quell’infedele intrepida gioia
la tua crudeltà non mi farebbe male
né potrebbe catturarmi la tua catena.

Voglio amarti e non amarti come ti amo;
essere impersonale così come le rose;
come l’albero con rami luminosi

non esigere mai felicità che oggi reclamo:
allontanarmi, perdermi, abbandonarti,
con la mia infedeltà ricuperarti.


mercoledì 5 settembre 2018

Debussy, scoperte del centenario, tre cd







DEBUSSY, Centenary Discoveries
Vocal Works. Piano Works, Transcription by Debussy.

Warner Classics 0192296915192
3 cd

Luigi Ronga, che fu mio professore di Storia della musica all’Università di Roma, La Sapienza, era solito dire che la musica di Debussy, per nitidezza, precisione, ma anche per fondamentale ed essenziale linearità della scrittura, per l’inaudita libertà del contrappunto, per la naturalezza della tavolozza sonora (il “suono di natura” mahleriano al confronto sembra artefatto), per il gioco dei timbri, sul pianoforte, e in orchestra, per la duttilità nell’assecondare la metamorfica qualità della voce e degli strumenti, non trovava confronti, in tutta la storia della musica occidentale, che nella musica di Mozart. Un paradosso, una boutade, può darsi. Ma che coglie l’impressione immediata di misura, di rifiuto degli eccessi, che la musica di Debussy suscita nell’ascoltatore. Ma anche per l’incredibile varietà e molteplicità dei mondi sonori, dei diversi e anche opposti aspetti e forme dell’espressione, dal drammatico all’elegiaco, dal tragico al comico e perfino al buffonesco, con cui è conquistato e rapito anche l’ascoltatore ingenuo. E infine per la rara capacità di mescolare diversi livelli di stile, da quello alto, anzi altissimo, sublime, della tradizione classico-romantica, alla musica dei caffè, della strada, dei cabaret. Il primo, e forse anche il più grande, dei compositori che aprono la stagione della nuova musica del Novecento. Opportunamente, dunque, la Warner Classics pubblica, nell’anno del centenario della morte, un cofanetto di 33 cd, in cui è registrata l’intera opera di Debussy. Ma non è questo cofanetto che qui voglio segnalare, bensì un altro, di 3 cd, in cui sono raccolte pagine giovanili e tarde, inedite o poco note, e inoltre interessantissime trascrizioni per pianoforte di alcune partiture nate per l’orchestra o per pianoforte a quattro mani, il tardo, e bellissimo, Jeux, poème dansé (giochi, poema danzato1), 1912.13 (l’anno del Sacre di Stravinskij!), o Khamma, légende dansé (Khamma, leggenda danzata), 1911-12. Ma anche partiture d’altri compositori, la Seconda Sinfonia di Saint Saëns, una deliziosa Humoresque en forme de valse di Joachim Raff (1893), il nono dei Dodici brani per pianoforte a quattro mani per piccoli e grandi bambini op. 85 di Schumann. Splendido pianista, Jean.Pierre Armengaud. Troppo lungo l’elenco di tutti gli interpreti, tutti comunque all’altezza del compito, soprattutto il Choeur de chambre de Namur, il tenore Cyrille Dubois, gli altri tre pianisti Philippe Cassard, Olivier Chauzu, Jonathan Fournel, i baritoni Philippe Estèphe e Jean Christophe Lanièce. Non sempre controllata, invece, la voce del soprano Natalie Pérez. Ma le scoperte, le perle si trovano tra le musiche vocali (il primo cd). Diane au bois, comédie lyrique (Diana nel bosco, commedia lirica), 1885-87, un frammento in cui già s’individuano le linee di una melodia vocale che nasce dalle parole. Gli abbozzi e i frammenti (1908-17) per un dramma musicale tratto dalla Caduta della casa Usher di Poe. Debussy non riuscì mai a completarlo. Ma è segno di quanto lo attraessero le storie cupe, inesplicabili. E in fondo come il tema fondamentale di tutta la sua musica sia il confronto con la morte. Ma come raccontare la morte attraverso la musica? La prima idea che viene alla mente è il silenzio, perché il silenzio è la cessazione della musica, dunque una pausa. E di fatti Debussy pensa al silenzio. I preludi Des pas sur la neige (passi sulla neve) e Canope (canopo) nascono e affondano nel silenzio. Il silenzio è però anche il bacino da cui nascono il linguaggio e la musica e in cui linguaggio e musica si annientano. Ma la pausa è ancora musica, è ancora inserita nel respiro ritmico della musica. Il silenzio che voglia rappresentare la fine della musica, l’annientamento della musica, la morte, deve uscire via dalla musica, starne fuori. Nel Pelléas et Mélisande, nel quinto atto, Mélisande muore. Debussy vuole farne sentire il trapasso, cogliere l’attimo in cui la fanciulla cessa di vivere. Mélisande muore quando il vecchio Arkel ha appena finito di dire: “Mais la tristesse, Golaud, mais la tristesse de tout ce que l’on voit. Oh! Oh!” (ma la tristezza, Golaud, la tristezza di tutto ciò che si vede. Oh! Oh!) . In quel punto Mélisande muore, e la musica si arresta, Debussy colloca, allora, una corona sulla stanghetta divisoria della battuta, proprio al numero 36, in partitura, del quinto atto. Bisogna far sentire la cessazione della musica, non una pausa. Ma la cessazione di ogni suono. L musica finisce e comincia un’altra. Non tutti i direttori ci riescono. Boulez è perfetto. E poi, dopo il silenzio, dopo la morte, la musica, la vita, ricomincia. Le cameriere, che erano entrate silenziose, attorniano il corpo della morta. Arkel chiede: “Qu’y a-t-il?” (Che c’è?). Gli confermano che Mélisande è morta. E il vecchio commenta: “Je n’ai rien entendu. Si vite, si vite. Elle s’en va sans rien dire” (Non ho sentito niente. Così di fretta. Così di fretta. Lei se ne va senza dire niente). Poco prima di morire Mélisande aveva detto: “Comme nos ombres sont grandes ce soir!” (come le nostre ombre sono grandi stasera). Ombre che appaiono e scompaiono, gli uomini. Non so Debussy, ma certamente Maeterlinck pensava a un verso famoso di Pindaro: sogno di un’ombra, l’uomo. Del Pelléas esitono più registrazioni. Naturalmente nessuna è compresa in questo cofanetto, perché l’opera è già inserita nel cofanetto che contiene tutte le opere. Quanto a me, per il Pelléas, ho un debole per le incisioni di Boulez e di Abbado. Nessuna, però, nemmeno queste due, lo confesso, mi sembra restituire pienamente il tono parlante della vocalità debussiana. E’ un po’ lo stesso problema anche di Monteverdi. Bisognerebbe trovare, infatti, cantanti talmente colti e di dizione così discreta, raffinata, da avere introiettato con naturalezza la poesia francese da Villon e Charles d’Orléans a Verlaine e Mallarmé, per Debussy, e quella italiana da Petrarca a Giovanni della Casa, Guarini, Ariosto, Tasso, per Monteverdi. E che abbiano, inoltre, conditio sine qua non, dimenticato le lezioni di canto ricevute in conservatorio, dimenticato le Santuzze e i Turiddu, in cui spesso tendono a trasformanre anche i personaggi di Gounod, Massenet, Bellini, Donizetti e Verdi. E parlino perciò cantando, trovino, anzi, nel canto il respiro del parlato. C’è comunque un brano, anzi due, in questo cofanetto, che mi sembrano le perle più preziose: e sono la prima versione (1898) di due delle tre Chansons de Charles d’Orléans per coro misto a cappella. Qui, come in parte, ma solo in parte, nell’Hommage à Rameau per pianoforte, Debussy fa prova di una miracolosa assimilazione dei linguaggi musicali del passato. Nessuna imitazione, nessun neoclassicismo, nessuna accademia, ma la naturalezza prodigiosa di una polifonia moderna che sembra la inevitabile prosecuzione dell’antica. Ecco: prosecuzione, non imitazione. Insomma, non la Sinfonia Classica di Prokofiev o il Pulcinella di Stravinskij, ma una pagina totalmente nuova, totalmente reinventata, che non riproduce gli stilemi dell’antico ma ne ha assimilato con perizia ineguagliabile i procedimenti compositivi. Sta qui la particolarità e la novità del rapporto di Debussy con il passato, ma anche con la musica del suo tempo, la canzone parigina, la canzone di strada, il rag, il jazz, la canzone napoletana (nelle Colline di Anacapri), mai assunta, questa musica, com’è, ma sempre destrutturata e ricostruita da capo, assimilata alla propria personalissima invenzione musicale. Si è parlato, a volte, a mio avviso sbagliando il bersaglio, di una sorta di personale neoclassicismo debussiano. Soprattutto a proposito delle ultime Sonate per più strumenti. Ma, come si è detto, Debussy non è mai neoclassico. Perché qualunque suggestione musicale gli arrivi, la trasforma subito in qualcosa d’altro, la rende irriconoscibile come re-invenzione del passato e ne fa materia di una musica nuova. Una specie di Cézanne della musica. Anche le ombre della pittura del passato, per esempio Piero della Francesca, sono deformate, trasfigurate, in figure di un’invenzione radicalmente nuova. Il Novecento, il secolo breve, come qualcuno l’ha definito, si è ormai concluso. Molti compositori, anche grandissimi, sono consegnati alla sua storia. Debussy sfugge all’incasellamento. Ci parla ancora un linguaggio nuovo, un linguaggio ancora da scoprire. Ancora la sua musica feconda le idee dei nuovi musicisti. In questo, forse, il confronto che Ronga stabiliva con Mozart, può avere un senso.

Fiano Romano, 4 settembre 2018
1In francese il termine poème significa sia poema, come in italiano, che poesia. I Poèmes en prose di Baudelaire sono naturalmente poesie in prosa. Ma Omero, Ariosto hanno scritto poèmes che sono in italiano poemi. E in questo caso i giochi sono giochi di un poema in cui, con la danza, si raccontano sulla scena le schermaglie amorose di tre giocatori di tennis.

martedì 4 settembre 2018

Debussy, oggi







Appunti per una riflessione sulla musica di Debussy, oggi

Racconta Paul Valéry1 che in uno dei martedì letterari a casa di Mallarmé aveva incontrato una volta anche il pittore Paul Degas. Nervosissimo. Degas spiega che aveva perso tutta la giornata per scrivere un sonetto. Valéry annota che tra parnassiani e simbolisti il sonetto era di moda e che Degas ne aveva scritto qualcuno di “admirable”. Degas si dichiara sconfitto da un mestiere “ingrat”, come quello di scrivere. Sottinteso: meglio dipingere. E aggiunge: “Et cependant, ce ne sont pas les idées qui me manquent ...” (e tuttavia non sono le idee a mancarmi). Mallarmé sorride, e dice: “Mais, Degas, ce n’est point avec des idées que l’on fait des vers … C’est avec des mots”. (Ma, Degas, non è affatto con le idee che si fanno versi … è con le parole. La sottolineatura è di Valery).
Qualcosa di analogo afferma Debussy quando dice di comporre con i suoni, e non con le note. In realtà ciò è sempre avvenuto, i musicisti hanno sempre immaginato e creato suoni. L’analisi era lasciata ai teorici. Pitagora. Aristosseno. Ma l’invenzione della scrittura musicale fu una rivoluzione, come lo era stata per la poesia e come lo sarà più tardi la stampa per i libri. Sulla carta posso scrivere anche ciò che la memoria non tratterrebbe. L’invenzione si fa ancora più efficace con l’introduzione, nel XIV secolo, in Francia, da parte dei musicisti dell’Ars Nova (e il nome è tutto un programma: oggi questa musica la chiameremmo d’avanguardia), con l’introduzione di valori più piccoli nella suddivisione delle durate delle note, il che permette una capillare articolazione della melodia e del ritmo. Debussy dunque non fa che ricordare che la musica è, prima di tutto, suono.



Ma il suono è essenzialmente affidato alla memoria. Un suono, infatti, una volta emesso, primo o poi s’estingue. La melodia, pertanto, che è una successione di suoni, non è una realtà sperimentabile come un quadro, una statua, ma se ne ha la percezione via via che si va formando e la si afferra tutta solo quando si conclude, quando l’ultimo suono si è estinto. Di fatto la melodia è una costruzione della memoria. Hegel osserva (nelle lezioni Estetica) che per questo la musica agisce profondamente nella nostra interiorità, misura il nostro tempo interiore, ci comunica l’emozione di vivere nel tempo, nel suo tempo, il tempo della musica. Per questo stimola così fortemente la nostra autocoscienza. Il discorso hegeliano – il più acuto mai fatto sinora sulla natura della musica – s’inserisce nel panorama delle relazioni che le arti hanno con i sensi. La pittura è legata alla vista e ci propone la nostra esperienza della visione. La scultura al tatto, è la nostra esperienza del volume, dello spazio. Poi ecco l’architettura e la musica, che hanno in comune il fatto di non riferirsi a un oggetto, ma a una forma. Il contenuto di un tempio è la forma del tempio. E così il contenuto di una musica non è l’emozione che suscita, ma la forma in cui si lascia percepire. Le proporzioni di una costruzione sono il vero contenuto della costruzione, non la sua destinazione, tempio, casa, palazzo. E così le proporzioni di una musica sono il suo vero contenuto, non che canti qualcosa o susciti qualche emozione. Il che non vuol dire che l’architettura prescinda dalla sua funzione e la musica dalle sue apparenti comunicazioni: un testo, una sollecitazione emotiva. Tant’è vero che sullo stesso testo si possono costruire canti di senso diverso o addirittura opposto. Rossini (il musicista prediletto da Hegel) ha scritto sette versioni di un’arietta metastasiana, dalla versione tragica a quella buffa, nostalgica, distaccata. Eppure le parole restano le stesse. Il testo (dal Siroe) dice:

Mi lagnerò tacendo
della sorte amara,
ma ch’io non t’ami, o cara,
non lo sperar da me.

Rossini voleva dimostrare l’assoluta indifferenza della musica ai concetti delle parole. Ci riesce. Ma la realtà poi è più complicata. Teniamo comunque presente, per il discorso che andremo sviluppando, dell’intuizione di Hegel: architettura e musica hanno per contenuto la propria forma. E torniamo a Debussy.
Gli accordi che aprono il primo dei tre Nocturnes per orchestra (1899) ritornano, assai simili, nella Sagra della primavera (che bisognerebbe chiamare piuttosto Rito della primavera) di Stravinskij (l’osservazione è di Dallapiccola, in una nota ai Quadri di una esposizione di Musorgskij), 14 anni dopo. Qual è la caratteristica di questi accordi? Che non sono legati tra loro, non si succedono con logica armonica di soluzione da un accordo all’altro, ma procedono come macchie armoniche autonome l’uno dopo l’altro. L’armonia ha perso la sua funzione strutturante per assumerne una puramente timbrica. Debussy non nasce dal niente. Questa libertà gli viene da lontano. Soprattutto da Chopin. Si ascolti la cadenza del Larghetto del primo Concerto in mi minore op. 11 per pianoforte (in realtà il secondo) o l’attacco della Polonaise-Fantaisie op. 61. L’armonia è già solo colore, timbro. Su questa via Debussy finisce con lo svincolare la costruzione armonica da percorsi obbligati. E’ qualcosa che si potrebbe confrontare con l’abolizione delle geometrie prospettiche nella pittura degli impressionisti, sostituite da sfumature della luce e del colore. Ma il confronto con i pittori impressionisti è fuorviante. Debussy non amava essere definito impressionista, detestava le etichette (meriterebbe un’ovazione plebiscitaria solo per questo), e se mai preferiva sentirsi inserito tra i simbolisti. Simbolista, anzi un caposcuola del simbolismo poetico e teatrale, è Maeterlinck, di cui Debussy mette in musica il Pelléas et Mélisande (1902), ma il testo teatrale, non un libretto, e con pochissimi tagli. L’esempio sarà poi seguito da Richard Strauss con la Salome di Oscar Wilde e l’Elektra di Hofmannsthal, che diventano drammi musicali adottando, con pochi tagli e modfiche, i testi teatrali di Wilde, tradotto in tedesco, e di Hofmannsthal. E infine da Alban Berg, che mette in musica il Woyzeck du Büchner, ma per un refuso della copia in possesso del compositore, verrà chiamato Wozzeck. Berg non corresse mai il refuso, lasciò che l’opera si chiamasse Wozzeck. Da questi brevi cenni si può vedere come Debussy stia all’origine di quasi tutto il movimento della nuova musica europea nei primi decenni del Novecento. Il compositore che gli è più affine è il russo Stravinskij. Ma tra Francia e Russia c’è una lunga affinità, nel romanzo, nella poesia, nella musica, non fosse altro che perché l’aristocrazia e l’intellighentzia (intelligencija) russa parlavano e scrivevano francese. Ravel trascrive per orchestra, e meravigliosamente, i Quadri di una esposizione, sopra citati, che Musorgskij compone per pianoforte. Il romanzo russo, soprattutto Dostoevskij, arriva in Italia attraverso le traduzioni francesi.



Ma Debussy è prima di tutto, e soprattutto, un compositore francese. Nella musica vocale risulta l’approdo di tutta una tradizione che potremmo indietreggiare all’Ars Nova, al Roman de Fauvel, ai trovatori, ai trovieri. Il rapporto tra parola e canto in Francia è molto particolare. Il che è dovuto in gran parte alla natura della lingua francese, nella quale le parole non sono così distintamente scandite come in italiano o in tedesco, ma tendono a inserirsi nel flusso ininterrotto della frase. L’italiano che non conosca la lingua francese pensa che i francesi accentino tutte le parole sulla sillaba finale. E’ solo in minima parte vero. L’accento spicca solo se la parola conclude la frase, ma nel corpo della frase è più tenue. E poi esistono anche accentuazioni “femminili”, vale a dire sulla penultima sillaba, ma con l’ultima muta. Questa e finale muta si sente quando si canta. L’inno nazionale francese, la Marsigliese, comincia con il verso: Allons, enfants de la patrie. Patrie, quando si parla, si sente come patrì. Ma quando si canta o si recita si ascolta patrì-e, con la e finale muta, come da noi nella parlata napoletana (e non a caso la canzone napoletana presenta molte affinità con la canzone francese). Quest’attenzione alla musica del linguaggio non abbandona mai i musicisti francesi. Il fenomeno è evidente, per esempio, come s’è detto, nella canzone. Ancora oggi. Nella canzone italiana la melodia prevarica sulla parola, oppure, se la parola vuole predominare, finisce quasi per abolire la melodia. Nella canzone francese melodia e parola sono sempre in perfetto equilibrio, nessuna prevale sull’altra. Non sto stabilendo un criterio di valore, o affermando che un sistema è migliore dell’altro. Sto solo mettendo in rilievo le differenza strutturali.
Debussy, nel Pelléas, nelle sue chansons, di questa corrispondenza tra musica e linguaggio ne fa quasi un’ossessione, come nel nostro Seicento aveva fatto il grandissimo Monteverdi o fa in Russia Musorgskij, che perciò era adorato da Debussy. Il melodramma italiano, che attecchi in tutta l’Europa, in Francia riscontrò minore successo (salvo poi a rifarsi quando Rousseau elogiò l’opera italiana contro quella francese). Ma il motivo sta proprio nella natura della lingua francese. Profondamente diversa da quella della lingua italiana. E i francesi vollero mantenere un teatro francese, di lingua francese. A differenza di tedeschi e inglesi che adottarono l’opera italiana cantata in italiano e non in tedesco o in inglese. Il che, dopo pochi tentativi, strozzò sul nascere la possibilità di una nascita dell’opera inglese o tedesca. Bisognerà aspettare il romanticismo, Wagner, in Germania (Mozart, Beethoven, Webern non sono ancora determinanti a sancire un predominio dell’opera tedesca su quella italiana), e bisogna aspettare oltre, in Inghilterra, fino al Novecento, a Britten. Ma un teatro di lingua francese significava anche un teatro in cui la musica non prevaricasse l’azione drammatica. Non a caso il melodramma in Francia si chiamò Tragédie lyrique, e l’opera comica Comédie. Ciò ebbe, alla fine, influssi anche sull’opera italiana. La cosiddetta riforma di Gluck non fu in realtà nient’altro che un innesto della Tragédie lyrique nel corpo del melodramma italiano. E partì più dall’italiano Raniero de’ Calzabigi che dal tedesco Gluck. Viene da pensare quasi che l’Europa era più unita quando era divisa in Nazioni tra loro belligeranti che ora che dovrebbe trovarsi confederata in un’Unione.



Questi sono soli appunti, note, di un discorso che meriterebbe più ampia articolazione. Ma spero di avere dato l’idea di quanto Debussy abbia influito sulla musica del Novecento europeo fino alle avanguardie del secondo dopoguerra, se solo si pensa a quanto peso abbia il suono in sé in compositori come Boulez e Berio, ma soprattutto Nono e Stockhausen. Entrano in gioco, naturalmente anche altri parametri. Non ultima l’invenzione della scrittura con i dodici suoni avviata da Schoenberg. Ma se si ascoltano le prima pagine di Schoenberg ci si accorgerà quanto la scrittura orchestrale e perfino pianistica di Debussy abbia peso nella sua scrittura per orchestra e anche per pianoforte. Ma ancora di più tale peso si sente nelle partiture di Alban Berg, fino alla fine, fino al sublime Concerto per violino. La melodia di timbri, di cui fanno sfoggio i tre compositori viennesi, la Klangfarbenmelodie, sarebbe impensabile senza Debussy. Pierre Boulez fa nascere la libertà del melodizzare della nuova musica dall’assolo di flauto che apre il Prélude à l’après midi d’un faune (1894). Il quale a sua volta deve molto all’assolo del corno inglese all’inizio del terzo atto del Tristano di Wagner (1859! non si crede alla data). Il cerchio si chiude. Debussy, che era fortemente nazionalista, e si professava quindi soprattutto francese, e antitedesco, vedeva tuttavia nella partitura del Parsifal (1882) l’incunabolo di tutta la musica moderna.

Fiano Romano, 3 settembre 2018
1“Paul Valery, Degas et le sonnet, in Degas Danse Dessin, ora in Oeuvres II, « Bibliothèque de la Pléiade » che , Paris, Gallimard, 1960, pagg. 1207-1209.

domenica 2 settembre 2018

Península Valdés

DINO VILLATICO


PENÍNSULA VALDÉS

Scorribande patagoniche, col ricordo di un tango.



La tonina1 nuotava velocemente verso la scialuppa, il muso a pelo d’acqua sembrava che ci sorridesse, ma giunta quasi a un metro da noi si rituffò nell’acqua, per rispuntare poco dopo con un salto acrobatico dall’altro lato della scialuppa. Il cielo sopra il mare era grigio, le nuvole alte nascondevano alla vista il sole, la cui luce scendeva al mare come un pulviscolo trasparente e luminoso. Ma dopo nemmeno due ore, al momento di approdare di nuovo nel porticciuolo isolato di Punta Pirámides quasi deserto, il cielo s’era già schiarito e il sole brillava alto sull’orizzonte. Risalimmo sul furgoncino color crema che ci aveva portati fin lì, e andammo all’estremità orientale della Península Valdés. Ma già molti libri e troppe guide turistiche parlano delle meraviglie naturali e faunistiche del Parco Nazionale della Península Valdés. Si vedono scorrazzare i guanachi tra gli arbusti alti e spinosi della steppa patagonica, s’intravedono correre e fermarsi d’un tratto le mare, le lepri tipiche della Patagonia, e se si guarda in alto si scorgono volare in cielo, soli o a schiera, uccelli di variopinte e multiformi specie, per lo più rapaci e gabbiani, che si cibano dei cuccioli dei leoni marini o nati morti o ammazzati a beccate (appena arrivati avvistammo appunto sulla riva sabbiosa una torma di gabbiani sbranare un cucciolo di leone marino), ma si avvistano anche altri tipi di uccelli, soprattutto passeri, e l’immancabile e onnipresente teru-teru, così chiamato, con voce onomatopeica, dal monotono intercalare del suo verso: teru teru, teru teru. Dalle acque dei due golfi, nella stagione invernale, sbucano, soffiando acqua dal dorso, le balene, che subito però si rituffano sottraendosi così alla vista impertinente dei turisti che affollano quel bellissimo tratto di mare. Molti parchi naturali si fondano e si aprono ormai in tutto il mondo per proteggere la bellezza dei luoghi (e quelli argentini sono tra i più belli), per preservare l’equilibrio della vita animale e vegetale, per evitare il degrado di un ambiete naturale perfetto, ma la smania di deturpare i luoghi in cui vive o attraverso cui passa sembra propria dell’uomo, irrefrenabile la sua voluttà di snaturare e distruggere il terreno che calpesta.



Il giorno dopo si doveva andare a visitare la colonia di pinguini, circa un milione, che si assembrano a Punta Tombo. Già all’arrivo qualche pinguino della famiglia chiamata Magellano si avvicinava incuriosito, alzando la testa e guardandoci con i suoi due grandi occhi cerchiati, che conferiscono al suo muso l’aspetto di una maschera teatrale, camminano, o piuttosto traballano con le ali ritte sui fianchi come le braccia di un soldato sull’attenti. Ma ci avevano avvertiti di non fissarli troppo a lungo, perché avrebbero potuto riportare lesioni alle vertebre cervicali, col torcere il collo per guardarci, noi bestioni mostruosi alti più di un metro e mezzo, ai loro occhi di eleganti bestiole dalla graziosa statura di 45 cm, al massimo. E soprattutto c’ingiunsero di non toccarli. Li avremmo infettati. Sì, è così, l’uomo infetta gli animali anche solo a toccarli. Il nostro odore per loro è disgustoso, si sarebbe appiccicato come un velo nauseabondo alle loro piume e i compagni dello stormo avrebbero perciò respinto e isolato l’imprudente compagno che si fosse lasciato toccare dall’uomo restandone contaminato, gli altri pinguini non l’avrebbero mai più difeso dall’attacco degli uccelli rapaci e dei leoni marini, e per la tristezza della sua solitudine l’infelice pinguino si sarebbe lasciato morire di fame e i suoi inflessibili compagni avrebbero poi accolto la sua morte come una liberazione. I pinguini magellano sono animali deliziosi. Gridano di paura quando sentono avvicinarsi rumorosamente un gruppo troppo folto di turisti, ma si lasciano avvicinare dall’uomo e si accostano volentieri al visitatore isolato, gli corrono anzi incontro barcamenandosi goffamente, salvo a scappare se lo sfacciato e aggressivo turista fa cenno di toccarlo. Un gruppo di ragazzi in gista scolastica, giorni prima, aveva provocato una tragedia. Uno di loro si era perso tra le dune e i cespugli e aspettando che i compagni lo ritrovassero, per passare il tempo cominciò a giocare a pallone: ma non trovando a propria disposizione un pallone, usò come pallone i pinguini. Ne ammazzò tre, prima che lo ritrovassero. Ma non ci furono per lui spiacevoli conseguenze, nessuna comunque che compensasse, almeno moralmente, l’immeritao destino dei pinguini. Fu sgridato, la stampa esecrò l’episodio, ma nessuno lo rimproverò con troppa severità né tanto meno lo punì per quel misfatto. Si trattava in fondo solo di pinguini, di uccelli. E gli uomini, gli uccelli, li mangiano. Così giustificò il ragazzo, intevistato dal telegiornale, disarmante e sorridente, il professore di ginnastica, tifoso del Boca2, che aveva portato in gita il gruppo. Chi sa, forse gli ufficiali di Videla pensavano lo stesso dei subversivos3 che facevano scomparire. Intervistato da un giornalista inglese, l’inflessibile generale dichiarò una volta, infatti, alla BBC, che loro, i militari al potere, non ammazzavano persone, mica erano criminali! ma toglievano di mezzo solo pericolosi sovversivi e ripulivano la nazione di quella immondizia. Goebbels aveva detto qualcosa di simile, anni prima, quando gli venne chiesto se fosse vero che i nazisti uccidevano gli ebrei. La monotonia con cui i dittatori si somigliano è deprimente.



Ma l’incontro più emozionante non avvenne con questi animali. E non avvenne a Puerto Madryn né a Punta Tombo. Da quasi un mese stavo percorrendo a tappe tutta la ruta 34 che percorre da nord a sud la costa atlantica dell’Argentina, da Buenos Aires fino alla Terra del Fuoco. Paesaggi che si perdono a vista d’occhio, come se l’orizzonte stesse lontano, e si perdesse all’infinito, quasi che la terra volesse imitare la sconfinata immensità del mare. Un paesaggio lunare, per esempio, accoglie l’esploratore che visita, a 165 km da Comodoro Rivadavia, ridente cittadina industriale sull' Atlantico, il Bosco Pietrificato di Sarmiento, sull’altipiano ricco di petrolio che divide la costa atlantica dai primi rilievi delle Ande. Il lago che fornisce l’acqua alla zona e a gran parte della Provincia di Chubut, era quel giorno squassato dai venti, e la superfice dell’acqua appariva scura come il piombo e paurosamente agitata. Un vento gelido e furioso mi tagliava la faccia. Ma non è di questo che voglio raccontare. Così come non voglio raccontare l’emozione di navigare, per la prima volta, il Canale di Beagle a sud di Ushuaia, la città più meridionale del mondo. Bellissima, situata in una baia stupenda, e circondata dalle vette innevate delle Ande, ma luogo deludente perché ormai irrimediabilmente sfigurato dall’invadenza chiassosa e tracotante del turismo di massa, come Venezia, come Praga, Mont Saint-Michel o il Mar Rosso. Ma per fortuna, una volta salpati, il mare si riprende i suoi diritti di elemento selvaggio. Il colore cinereo dell’acqua si confonde col cielo plumbeo che la sovrasta e l’orizzonte sventaglia il fasto maestoso delle cime perennemente innevate delle Ande che precitano scoscese nell’Oceano. Verrebbe voglia di spingersi fino al capo Horn, oltre l’ultimo faro d’America, prima dell’Oceano Antartico, Les Eclaireurs, e anzi spingersi ancora più a sud, fino all’Antartide. Il rientro nel porto fu avventuroso, s’era alzato un forte e gelido vento da sud e il mare d’un tratto diventò pericolosamente agitato. La nave beccheggiava e ballava come se dovesse naufragare. Ci fu chi si sentì male e sparse sul ponte un fiume di vomito nauseabondo. Toccammo il molo, ma una volta messo il piede sulla terra, l’impressione di instabilità durava ancora, sembrava che la terra proseguisse il moto tempestoso del mare e si muovesse becchegiando come fino a poco prima il ponte della nave.



Sul lungomare del porto di Ushuaia c’è un vecchio caffè, che una volta, alla fine dell’Ottocento, e nei primi decenni del secolo seguente, era insieme un magazzino e un emporio: si chiama appunto El viejo almacén, il vecchio magazzino. Il bancone, i tavoli, le scansie alle pareti e le suppellettili sono ancora quelle del secolo XIX, o tutt’al più dei primi anni del Novecento, come la grande macchina da cucire sul ripiano della grande finestra che dà sul porto. Sugli scaffali invitano all’allegria bottiglie di vino della Terra del Fuoco e di Neuquén, buonissimo, insieme a una incredibile varietà di bicchieri da birra: la birra argentina, come quelle messicane e spagnole, a differenza della mediocre birra italiana, fanno invidia alla birra belga e tedesca, e la birra della Terra del Fuoco è non solo leggera e gradevole, ma lascia anche in bocca, sul palato, un gusto assai dolce. Nella seconda sala, in fondo, faceva bella mostra di sé un grande tavolo da bigliardo. E’ nel Viejo Almacén che avvenne l’incontro. Dallo stereo del caffè arrivava una canzone, un tango. Una voce rauca e calda di baritono cantava la storia di un uomo seduto al caffè che, in un giorno di pioggia, aspetta una donna. I bicchieri di birra, prima, di vino poi (gli spagnoli e gli argentini amano bere la birra come aperitivo) si accumulano sul tavolo, i portacenere si riempiono, viene infine il momento di bere l’aguardiente5, e l’uomo si ubriaca, di alcol, di sigarette e d’amore, ma la donna non viene. E’ un tango bellissimo. L’enfasi con cui viene esibita la disperazoione non disturba. Anzi cattura, contagia. Non dev’essere diversa la disperazione del pinguino contaminato dall’odore dell’uomo. E’ inoltre tipicamente argentino lo spaesamento, nel tempo, più che nello spazio: il passato rivissuto come perdita irredimibile, e il sentimento d’amore, soprattutto dell’amore irrealizzato o perduto, percepito come una malattia, un avvelenamento del ricordo, una contaminazione della giovinezza, una pazzia indesiderata e immedicabile. E non è detto che sia solo l’amore per una donna. Può essere anche la nostalgia degli amici scomparsi, la tristezza dell’infanzia sparita che si materializza nel budello cieco di una stradina, la perdita di un nonno. Ma tutto questo è spiegazione e non spiega il carattere del tango. Tanto meno del tango ascoltato quel pomeriggio, verso il tramonto, in quel Viejo Almacén di Ushuaia. E mi sovvenne a un tratto di quando bambino, insieme ai miei compagni del colegio6, imparavo a danzare le danze tradizionali argentine, antiche e moderne, il gato, il cuando, la firmeza, la malanda, la milonga, la resbalosa e naturalmente il tango. Tutto ciò avveniva non a Buenos Aires, ma a Bahía Blanca, una cittadina che si trova 650 km a sud di Buenos Aires, ai confini della Pampa, e che nei primi decenni del secolo XX, dal suo porto, Ingeniero White, vide partire le grosse navi da carico che fornivano grano e carne all’Europa affamata. Mio padre era stato chiamato laggiù dalla Universidad de la Plata, a fondare la cattedra di geometria analitica per il Dipartimento distaccato di Matematica. La musica di quelle danze, ora, mi ritornava in mente e mescolandosi col tango che ascoltavo mi spaesava, mi catapultava indietro a 50 anni prima, quando non ero certo un ragazzo felice, come avrei potuto? ma non ero nemmeno così consapevole come oggi della sostanziale e immodificabile infelicità della vita. Quel tango mi restituiva la dolcezza di quegli anni con la tremenda consapevolezza di un mondo perduto, proprio perché nel corto circuito dei ricordi s’intrufolava l’angoscia moderna della nuova musica. Decisi di cenare lì, nel vecchio caffè. Ma chiesi chi fosse l’autore del tango e chi lo cantasse. “Él mismo”, rispose la ragazza che stava al bancone: “Cacho Castaña7: ¡lo compuso y lo canta! ¿Le gusta?” “¡Muchísimo!8.



Non è grande musica. Inutile aspettarsi Discépolo e Gardel. Ma c’è un’aria sinistra che manca al tango storico e manca perfino al malinconico Piazzolla. E’ la musica della desolazione. Della solitudine di un paese che ha subito una mostruosa dittatura, una dittatura che ha fatto sparire 30.000 cittadini, per ripulire la nazione della feccia che l’inquinava, e il presidente che anni dopo avrebbe dovuto riparare i guasti, salvarla dalla rovina di una crisi senza ritorno, e ritornarla ai tempi felici, il presidente Menem, l’ha invece precipitata in una crisi che sembrò irreversibile, l’ha sprofondata nella più atroce miseria di tutta la sua storia, perfino peggio che ai tempi di Rosas9, ha smantellato il sistema ferroviario, isolando così cittadine, villaggi, che solo col treno potevano essere raggiunti, fagocitato e demolito le industrie, assoggettato il paese al capitale staniero come, fino a quel colmo di avidità e cinismo, non era mai successo prima. La donna non arriva. Non può arrivare. L’uomo non lo sa o non vuole saperlo. Chi sa: la donna è forse una desaparecida. L’amante crede invece di essere da lei tradito, di non essere più amato. Sarebbe un dolore meno feroce. La verità lo annienterebbe. Ma quella verità che non si vuole sapere, che non si vuole guardare in faccia probabilmente è l’unica spiegazione dell’assenza: a tradirlo, a non amarlo, e come lui a tradire e non amre tutti gli argentini, è stato qualcuno che ha legato la donna, l’ha scaraventata nella pancia di un aereo e un volta in alto, sul Rio de la Plata, l’ha scarventata di sotto. Il tango non lo dice. E’ concreta solo la desolazione di quel caffè chiamato La Umidità, la solitudine degli anni passati invano. Ma potrebbe essere andata veramente così. La desolazione sta proprio nel fatto che oggi, in Argentina, dietro una tragedia individuale, può sempre celarsi una tragedia collettiva. Ma solo in Argentina?
La voce che cantando si dispera, si dispera per se stesso, per l’abbandono di una donna, ma ascoltandola, quella voce, mi sembra di ascoltare la disperazione di un popolo intero e forse, chi sa, di tutto il mondo. I prossimi venturi potremmo essere proprio noi che ci crediamo scampati. Invece il baratro è là, sempre in agguato, anche se non lo si vede.


Roma, 26 - 28 febbraio 2010.
1 Famiglia di delfini tipici dell’Oceano Atlantico australe, hanno il ventre candidissimo e il dorso nero come la pece.
2 Squadra di calcio di Buenos Aires, rivale del River Plate.
3 Sovversivi.
4 Si pronuncia ruta tres, strada 3.
5 Sorta di grappa.
6 Liceo.
7 Cacho Castaña o Cacho Castagna, nome d’arte di Humberto Vicente Castagna, nato l’11 giugno 1942 nel barrio (quartiere) di Flores, a Buenos Aires. E’ autore della canzone Café la Humedad. Ha composto più di 2500 canzoni, ma ne ha incise solo 500.
8 “Lui stesso”, --- : “lo ha composto e lo canta! Le piace?” “Moltissimo!”
9 Terribile dittatore dell’Ottocento: una prova generale delle dittature del Novecento.