lunedì 30 settembre 2019

Due Don Giovanni a Roma







Roma, Teatro dell’Opera, Don Giovanni, 27, 28, 29 settembre, 1, 2, 3, 4, 5, 6 ottobre
Roma, Teatro di Villa Torlonia, L’empio punito. 28, 29 settembre, 1, 2, 3 ottobre

Nel sublime duetto tra Don Giovanni e Zerlina, “Là ci darem la mano”, il cui tema fu nei primi decenni dell’Ottocento una specie di tormentone, la figura ideale del tema amoroso, o piuttosto del tema della seduzione, Chopin vi compone sopra una serie di splendide variazioni, che lo rivelarono a Schumann, e Kirkegaard ci costruisce sopra tutta un’ermeneutica dell’esistenza, vi identifica la seduzione stessa della musica, come arte dell’istante, come stadio estetico della vita, ebbene, in quel bellissimo duetto, a un certo punto, Don Giovanni insinua un invito tutt’altro che estetico, anzi materialissimo, esprime il desiderio di possedere sessualmente Zerlina, e dice: “Quel casinetto è mio; soli saremo, / E là, gioiello mio, ci sposeremo”. Evidente l’allusione. Ma è importante, teatralmente, che resti un’allusione. Anche perché, nel corso dell’opera, tutti i desideri sessuali di Don Giovanni saranno tutti uno per uno frustrati: il catalogo di Leporello è una vanteria o riguarda il suo passato. Graham Vick ha finto, invece, che Don Giovanni dicesse a Zerlina: “Quel casinetto è mio; soli saremo, / E là, gioiello mio, noi scoperemo”. Tornano metrica e rima. 

 

Ma così non scrive Da Ponte e così non fa cantare Mozart Don Giovanni. S’intuisce, anche nel testo originario, che il seduttore vuole portare là dentro Zerlina, per abusarne. Solo che il linguaggio non è uno strumento neutro. E permette, sia a Da Ponte sia a Mozart, di restare nella zona delle allusioni, zona che, come tutti sanno, riesce assai più seduttiva della realtà. Non è dunque solo questione di bon ton. Tutto lo spettacolo immaginato da Vick sembra, invece, volere esplicitare ciò che nel testo è solo alluso. E via denudamenti, don Giovanni e Leporello si spogliano e si cambiano i vestiti sulla scena, Don Giovanni, anzi, esce in mutande, all’inizio, inseguito da Donn’Anna. Si riveste in fretta. Ammazza il padre di Donn’Anna a bastonate. Né alla fine sprofonda nell’inferno, ma esce tranquillamente da una porta laterale per poi, durante il sestetto, rientrare e accomodarsi sul ramo di un albero a guardare le smanie di quei poveri moralisti defraudati che cantano la giusta punizione del dissoluto. E’ forse il momento più mozartiano della messa in scena, questo Don Giovanni che guarda i sopravvissuti alla sua scomparsa. Nel teatro di Mozart raramente si troverebbe un finale che chiuda i conti della vicenda. Probabilmente solo nel Flauto Magico. Ma il Flauto Magico è una fiaba iniziatica. Nell’Idomeneo abbiamo la rabbia di Elettra delusa. Nel Ratto dal Serraglio le parole di Selim insinuano in Costanza il dubbio che Belmonte possa non essere il suo sposo ideale: “Cerca di non pentirti un giorno di avere rifiutato il mio amore”. Nelle Nozze di Figaro non è solo la coppia Conte Contessa a vedersi frantumato il sogno d’amore. Cherubino – e il Conte lo ha capito – non è quel fanciullo che sembra. E la stessa Susanna è poi davvero insensibile alle seduzioni del Conte? La gelosia di Figaro è ingiustificata? In Così fan tutte, poi, il gioco delle coppie, lo scomporle e il ricomporle, lascia le coppie com’erano all’inizio? Altro momento in cui Vick sembra rappresentare con un’intuizione profonda il senso dell’azione è quando, verso la fine, dopo l’aria di Donn’Anna, “Non mi dir, bell’idol mio, / che son io crudel con te”, i due escono di scena ciascuno dalla parte opposta: il loro amore è già quasi una separazione, non è quello dell’inizio. Ha qualcosa di funebre. Prefigura quasi una morte, come suggerisce Sergio Sablich. 

 

Ma il resto dello spettacolo non ha quasi nulla della inafferrabile ambiguità mozartiana. Più che un’inadeguatezza all’azione, colpisce l’inadeguatezza alla musica, al dramma immaginato da Mozart: più che da Ponte – il cui libretto ha molti difetti - a costruire personaggi e dramma è, infatti, la musica. E poi, che senso ha il braccio michelangiolesco di Dio che scende a prendersi Don Giovanni, ma la cui mano finisce strappata proprio da da Don Giovanni? La statua del Commendatore non è un ammennicolo trascurabile di scena, ma l’intervnto decisivo dell’azione. Di chi dice Leporello che fa “ ta ta ta”? O che “con la marmorea testa fa così così”?

Non appare invece inadeguata la compagnia di canto. Nessuno svetta per qualche grande personalità drammatica o vocale, ma tutti appaiono appropriati alla parte che devono recitare. Tutti, è vero, anche, un tantino sotto ciò che la parte richiede da loro, ma probabilmente a ingrigire le loro prestazioni sono la regia e la conduzione musicale. Il fatto è che appaiono, mediocri, quasi spenti. A cominciare dal Don Giovanni di Alessio Arduini, perfetto, questo sì, fisicamente, nel ruolo. Un po’ meno vocalmente. Tutto a posto, tutto benissimo cantato e meglio recitato. Ma manca appunto l’ambiguità, indefinibile, certo, ma che si sente mancare: così come non emerge la nobiltà del personaggio: che senso ha fargli mangiare gli spaghetti con le mani. Che il servo si sieda a tavola con lui c’è già nel dramma di Tirso de Molina, ma il libretto di Da Ponte non lo fa supporre. E nel Sttecento le distizioni di classe sono più nette che nel Seicento. O comunque si avvertono di più. Nello spettacolo ciò non si vede. Forse per un eccesso di realismo – e in un teatro come questo il realismo è sempre la scelta sbagliata. Di fronte a lui, la Donna Elvira di Salome Jicia non si erge come controparte morale della sua amoralità. Appare subito troppo dimessa, forse anche per l’abito da suora che Vick le impone, anticipando una scelta che avrebbe dovuto rivelarsi solo nel finale. Anche la Donn’Anna di Maria Grazia Schiavo, vocalmente ineccepibile, non dimostra quell’energia, direi anzi quella violenza emotiva e volitiva insieme, quell’ambiguità sentimentale, che il personaggio richiede. Juan Francisco Gatell, da parte sua, disegna un Don Ottavio energico, deciso, e canta la sua sublime aria con una delicatezza e tenerezza ammirevoli. Affidato alle sole voci, il terzetto delle maschere riesce uno dei momenti più indovinati dello spettacolo. La coppia Masetto Zerlina appare, invece, piuttosto incolore, non ben caratterizzata. Sotto tono anche il Leporello di Vito Priante. Nient’affatto terribile o imponente il Commendatore di Antonio di Matteo.

E veniamo così alla conduzione musicale della complessa e difficilissima partitura: Jérémie Rhorer. La sua lettura mozartiana è corretta, perfino delicata in molti punti. Ma, come nel resto, si desidera invano una maggiore ricchezza di sfumature, maggiore ambiguità nell’intonazione delle frasi musicali, maggiore libertà espressiva e maggiore libertà di tempo. E’ apparso dominante un tono medio né tragico né leggero, che eguaglia tutti i momenti dell’azione. Don Giovanni è un’opera buffa - “dramma giocoso”, com’è indicato nel libretto, è, nel gergo teatrale del Settecento, un sinonimo di opera buffa – è dunque sì un’opera buffa, ma nella quale però si mescolano i generi del tragico e del comico, questo mescolamento non è venuto fuori.

Poco da dire sulle scene monocrome di Samal Blak e sugli scialbi costumi di Anna Bonomelli. Anche il gioco delle luci, mosso da Giuseppe Di Iorio, non è sembrato particolarmente inventivo e suggestivo, forse per adeguarsi al mezzo tono imposto dalla regia di Vick. Applausi quasi trionfali per tutti gli interpreti, alla prima, ma sonori fischi e fragorosi buh per la regia. Una volta tanto, giustificati.

Ma il Don Giovanni al Teatro dell’Opera non era il solo “burlador” dei teatri romani, in questo primo affacciarsi dell’autunno. Al Teatro di Villa Torlonia, infatti, per il Reate Festival, la cui inaugurazione si è però, come di consueto, avuta appunto a Roma e non a Rieti, in collaborazione con l’Accademia Filarmonica Romana è andato in scena L’empio punito di Alessandro Melani, un melodramma andato in scena la prima volta a Roma nel 1669 al Teatro di Palazzo Colonna in Borgo. Il libretto è di Giovanni Filippo Apolloni su brogliaccio o canovaccio di Filippo Acciaiuoli. Ma la fonte è una “comedia” del 1616, di Tirso de Molina (ormai è accertata l’attribuzione): El burlador de Sevilla y convidado de piedra, il beffatore di Siviglia e convitato di pietra, l’incunabolo del mito di Don Giovanni. Acciauoli e Apolloni trasportano però la vicenda dalla Spagna e dall’Italia barocche nell’antica Grecia, in Macedonia, nei boschi che circondano la capitale Pella. E’ una trasposizione infelice, perché il mondo greco, sia pure rivisitato da un drammaturgo seicentesco, ha poco a che vedere con salvezza e dannazione in termini cristiani. L’empio è punito, come Da Ponte e Mozart puniscono il dissoluto. Ma Da Ponte e Mozart lasciano intatta l’ambientazione sivigliana di una Spagna cattolica. La religione dei greci puniva altri generi di empietà che quelli sessuali. 

 

Tuttavia, superato l’impaccio dell’ambientazione arcadica, poi la vicenda si svolge fluidamente come nel dramma di Tirso (in spagnolo è chiamato “comedia”, che è un termine analogo all’inglese play, e al tedesco Spiel: indica la rappresentazione teatrale, non il genere). Alessandro Melani si avvia già a definire le forme del melodramma come saranno nel secolo seguente, ma i “recitativi”, che non sono ancora quelli che saranno nel melodramma del Settecento, conservano ancora, come accadeva nel melodramma delle origini, una forza espressiva pari a quella delle arie. Cesare Scarton ha scelto, anche lui, come Graham Vick, un’ambientazione moderna. In questo caso, felice. Perché attenua l’incongruità dell’ambientazione nella Grecia antica. La scena, di Michele Della Cioppa, è molto semplice, e quasi astratta. Piani sghembi che arieggiano un mondo dissestato, frantumato, pannelli scorrevoli, sui quali sono disegnate figure astrattamente vegetali. I costumi, di Anna Biagiotti, sono abiti moderni, o addirittura da entreneuse di locali notturni. Anche qui, però, perché abolire il monumento dell’ucciso? Non far vedere la sua statua? D’accordo l’astrazione, ma la statua è elemento indispensabile dell’azione, che altrimenti non ha senso.

I ruoli vocali sono anch’essi modernizzati, e forse è questo l’aspetto più discutibile della messa in scena. Acrimante, di fatti, com’è chiamato il Don Giovanni greco, avrebbe dovuto essere un castrato, probabilmente un sopranista. E’ invece il baritono Mauro Borgioni, bravissimo e si mostra dunque adeguato alla parte. Il Catilinón o il Leporello grecizzato, cioè il servo di Don Giovanni, qui di Acrimante, si chiama Bibi ed è un pirotecnico, esplosivo Giacomo Nanni. Irresistibile il ruolo en travesti di Delfa, un esuberante Alessio Tosi. Giustamente dignitoso, solenne, il Re di Macedonia Atrace impersonato da Alessandro Ravasio. Carlotta Colombo dà voce a Cloridoro e Michela Guarrera alla sua amata amante Ipomene, entrambi assai espressivi. La donna Elvira di turno, la moglie infelice di Don Giovanni-Acrimante, che si chiama Atamira ed è figlia del re di Corinto, è nobilmente interpretata da Sabrina Cortese. Ma tutta la compagnia dimostra grande disinvoltura nel recitare cantando i difficili personaggi di un melodramma seicentesco.



Le fila della complessa partitura sono tenute, con duttilità e intelligenza, da Alessandro Quarta. Il teatro era pieno, e a tutti gli interpreti sono state tributate ovazioni entusiastiche. Se Roma fosse una città meno distratta, e l’Italia un paese meno smemorato, uno spettacolo come questo che ripropone per la prima volta in epoca moderna un melodramma del Seicento, otterrebbe ben altra risonanza, sarebbe gridato sulla stampa di ogni città. I francesi hanno messo in repertorio tutto il loro teatro barocco, musicale e no, i tedeschi hanno in repertorio i contemporanei compositori italiani Luigi Nono, Luciano Berio, che da noi sono quasi scomparsi da teatri e sale di concerti, e a Berlino o a Stoccarda o a Brema, per non dire di Zurigo, Monteverdi, o Rossi, o Cavalli, si vedono e si ascoltano più frequentemente che da noi. Che cosa sta accadendo a questo paese? Di che cosa osa così chiassosamente vantarsi se ha dimenticato e trascura il suo passato? I giornali sono diventati ormai poco più di un’agenzia pubblicitaria o di un megafono dei potenti d turno. Nelle scuole si può ottenere la maturità pur ignorando chi sia stato Gesualdo, o Luca Marenzio. Alfieri è uno scocciatore che ha l’ossessione della libertà e di scrivere orridi versi. Se pure sanno che le sue tragedie e le sue commedie sono scritte in versi. Giovanni Filippo Apolloni è il successore teatrale di Giacinto Andrea Cicognini che scrisse libretti per Cavalli e per Cesti. Ma chi se ne rammenta? L’Italia di oggi è frivola e vanitosa, la sua frivolezza – scambiata per leggerezza, che è tutt’altra cosa – non le fa vedere le cose di cui per davvero dovrebbe menare vanto, e perciò si perde dietro le sciocchezze e precipita nel buco irrimediabile dell’assoluta insignificanza. Dalla quale chi sa quando usciremo.

domenica 29 settembre 2019

Bach, cantate e arie per basso





La casa discografica Arcana ha pubblicato un cd tutto bachiano, le cantate e tre arie per basso. E’ quasi la replica di un’incisione pubblicata dalla Harmonia Mundi nel 1991, e ripubblicata dieci anni dopo, vi mancano le tre arie. Philippe Herreweghe dirigeva la Chapelle Royale. Canta, splendidamente, il basso Peter Kooy. Nella nuova incisione dell’Arcana, Alfredo Bernardini dirige il complesso Zefiro, e alle tre cantate BWV 82, 158, e 56, si aggiungono tre arie dalle cantate BWV 20, 26 e 181. Canta il baso Dominik Wörner. Bernardini, sempre con Zefiro, ci aveva regalato l’anno scorso una non esaltante edizione dei Concerti Brandeburghesi. Questa volta, invece, ci prende e ci commuove. Il confronto con Herreweghe poteva mostrare la corda. Rischiare una sconfitta. Invece questa nuova interpretazione delle tre cantate si fa ascoltare con partecipazione, grande partecipazione, intellettuale ed insieme emotiva intensissime. Fin dall’attacco della sublime (si potesse, si dovrebbe dire sublimillima!) cantata BWV 82, Ich habe genug, ne ho abbastanza. L’ingresso della melodia dell’oboe, una melodia dolente e lamentosa, lunga, lunghissima, interminabile, ci introduce subito in quel clima, così tipico di Bach, di confronto con il pensiero della morte. Di che cosa ne ha, infatti, abbastanza, chi canta? Della vita. Ho preso il Salvatore, la speranza del giusto, tra le mie avide braccia. Nella cantata BWV 161, di cui esistono due versioni, Komm, du süsse Todesstunde, Vieni, o dolce ora della morte, Bach lo esprime chiaramente, con una serenità che ricorda le riflessioni di Epicuro, che la morte non è da temere, ma da aspettare con calma, tranquilli: il giusto non ha nulla da temere. Ancora più chiaramente lo esprime nel corale che dettò al suo allievo, segretario e genero Altnickol, che costui collocò a coronamento dell’Arte della fuga: Vor deinen Thron tret’ ich, davanti al tuo trono vengo. Riscrittura di Von höchsten Nöthen, De profundis. Bach toglie l’angoscia, e vi colloca la speranza, l’attesa. Ma sono musiche non comprese in questa incisione, dedicata alla voce di basso. Questa la cronaca. Ma veniamo alla musica.

L’aria dell’attacco è in do minore, ma come era consuetudine l’armatura in chiave è di si bemolle: si bemolle nella notazione tedesca1 è B, Bach. La simbologia numerica, armonica, alfabetica, percorre tutta l’opera di Bach. E’ una pratica che ha radici lontane, sia nella tradizione musicale sia in quella letteraria. Si pensi solo al gioco sulla parola Laura, scritta anche l’aura, nella poesia del Petrarca. O le allusioni dei madrigalismi. In Bach i giochi numerici, alfabetici, i madrigalismi, assumono una valenza intima, spirituale. Religiosa. L’effetto sull’ascoltatore è però così intenso non per questa segreta crittografia, ma per la particolare maniera di costruire, sempre, la composizione. Il contrappunto non è per Bach un artificio al quale ricorrere di quando in quando, ma la struttura stessa della musica. Direzione orizzontale e verticale della costruzione si corrispondono. In altri termini l’armonia è sempre il risultato di un incontro di più voci, anche quando sembra impostata sul basso continuo. Semplicemente, per Bach, il basso è la melodia con cui si combinano le melodie superiori. Da qui il valore sempre melodico della condotta delle parti. Tutte le parti cantano, e cantano sempre. A ciò si aggiunge che spesso la voce superiore, come in questo caso, si lancia in numerose fioriture, e gli abbellimenti non sono mai un puro ornamento della melodia, ma assumono una funzione espressiva. La bellezza sovrana di queste lunghissime melodie si vorrebbe che non si arrestasse mai. Ma è proprio il prolungarsi della fioritura ad accrescere l’intensità del canto, si direbbe una sorta di struggimento della bellezza, di tenerezza infinita del canto. Se ne resta catturati, ingoiati. Vi si naufraga dentro. E come per il poeta di Recanati questo naufragare è di una dolcezza estrema. Ma poi proprio in questa dolcezza del naufragio, in questo sprofondare dentro la dolcezza del canto, sta il significato profondo della melodia: Komm, du süsse Todesstunde.

Grazie, Alfredo Bernardini. Grazie, Dominik Wörner. E’ la dolcezza di cui questo nostro mondo attuale così rumoroso, così sgradevole, così urticante, ha bisogno. Il Ruscello di Eisenach è il mare in cui tutti noi vorremmo naufragare.

Johann Sebastian Bach, Cantatas and Aris for Bass
Dominik Wörner
Zefiro
Alfredo Bernardini

Fiano Romano, 29 settembre 2019
1Non si faccia confusione, come spesso fanno gli italiani, tra notazione tedesca e notazione anglosassone, entrambe alfabetiche, ma mentre nella notazione anglosassone la B indica semplicemente il si, e se si deve poi specificare se si bemolle bisogna aggiungervi un flat, B Flat, nella notazione tedesca invece la B indica solo il si bemolle, il si naturale è espresso dalla lettera H. Pertanto il nome Bach è si bemolle, la, do, si naturale.

mercoledì 25 settembre 2019

La letteraturizzazione della vita







La letteraturizzazione della vita

Nel 1932 il grande linguista e critico letterario Leo Spitzer scrive un breve ma densissimo saggio sulla Dorotea di Lope de Vega1, saggio che, al suo solito, non è solo il commento di un capolavoro letterario, ma l’indagine della natura stessa dello scrivere, di che cosa sia veramente la letteratura, di che cosa sia fare letteratura. E conia un’espressione di straordinaria efficacia critica, die Literarisierung des Lebens, alla lettera: la Letteraturizzazione della vita. La traduttrice italiana del saggio, che appare per i tipi di Lithos (Roma, 2015), Maria Borriello, ricorre a una perifrasi meno ostica: Vita in forma di letteratura. Più digeribile, forse, dal lettore italiano, ma a mio avviso fa perdere il senso forte, anche filosofico, di riflessione estetica, dell’espressione tedesca: la letteraturizzazione della vita. Non si tratta infatti di trasferire l’esperienza biografica personale in una forma letteraria, bensì, più radicalmente, di trasformare la vita stessa in materia letteraria. Viene in mente un bellissimo aforisma di : “Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano “forma” come contenuto. come “la cosa stessa”. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la nostra vita”2.

Ed è quanto, in fondo, fa ogni scrittore. Roberto Gigliucci, che scrive la prefazione, lo mette bene in evidenza. Alla base c’è la consapevolezza della falsità della scrittura rispetto alla verità della vita, che poi sarebbe la verità del fatto che ogni vita finisce, che vivere ha in sé intrinseco anche il concetto, anzi il fatto, di morire, e questa distanza, ch’è anche falsità, della pagina, dalla vita, e dunque dalla morte, crea una Spannung, una tensione, tra scrittura e realtà. Tra “l’orrore della morte e lo splendore del discorso” scrive Gigliucci. E continua: “Sembra non rimanere spazio a una considerazione della realtà che non sia sfigurata dalla bellezza e dall’orpello sfavillante. Ma proprio perché questa estetizzazione è in effetti uno sconciamento, risulta evidente che il poeta barocco (astrazione pericolosa, forse meglio dire Lope) compie consapevolmente una sublimazione sull’abisso (Spannung), ritiene di interpretare la realtà della disillusione attraverso l’artificio spennellato sul materiale infelice”. O, come dice nel suo saggio Spitzer: “La Dorotea di Lope è un ossario di decadenza umana, sul quale la visione barocca del senso della bellezza ha versato la sua lucentezza dorata”.

Ma siamo sicuri che si tratti solo dell’arte barocca? “Eppure qui risiede il nucleo operativo proprio della poesia cinquecentesca: la prassi sublimante, se non metafisico-simbolica, che è un passo verso il moderno in letteratura, a nostro avviso. Versare gemme sulle ferite è un modo di riportare la realtà della lacerazione in un universo letterario, in una estasi di piena adeguatezza, nient’affatto in una contraddizione d’inadeguatezza”, conclude Gigliucci. Spitzer, all’inizio del saggio, pone un esergo, che è un frammento di dialogo tra due personaggi della Dorotea: “Clara: ¿Quien te lo ha dicho? / Marfisa: Yo lo he leido”. (Clara: Chi te lo ha detto? / Marfisa: Io l’ho letto). Ecco, il punto sta tutto qui. Ciò ch’è detto non è la realtà della vita, ma appunto la sua dizione o, più precisamente, la sua scrittura: l’ho letto.

José Manuel Blecua lo scrive splendidamente nell’Introduzione all’edizione critica (Madrid, Cátedra, 2013) dell’ “azione in prosa” di Lope: “Lope no podía venir de más lejos: venía del fondo de sí mismo a contemplarse en puro espectáculo. Desde sus galerías interiores se asoma a ver pasar al juvenil Lope, convertido en una criatura de arte, en ese Fernando un poco alocado; pero, de cuando en cuando, deja oir su voz de viejo, aconsejando o razonando, impregnando a veces todo de una honda melocolía o de ese fino humor que no le abandonó ni en los momentos más desesperados. De aquí deriva eso tono de desengaño y melancólico, de que después hableremos, que trasmina toda la obra, pero que sólo al final se deja sentir con toda su gravedad. De aquí también el fino humor que se delsiza riente, paralelo también a la melancolía. El humor de un hombre que puede asomarse a su pasado y puede verse, sin mucha tortura, convertido en un puro espéctaculo de sí mismo. Y esto es La Dorotea: el espectáculo que Lope crea consigo mismo y para sí mismo.” (Lope non poteva venire da pìù lontano: veniva dal fondo di sé stesso per contemplarsi come puro spettacolo. Dalle sue gallerie interiori si affaccia a vedere passare il Lope giovanile, convertito in una creatura d’arte, in quel Fernando un po’ sventato; ma, di quando in quando, lascia udire la propria voce di vecchio, consigliando o ragionando, impregnando a volte tutto di una profonda malinconia o di quel fine umorismo che non lo abbandonò nemmeno nei momenti più disperati. Da qui deriva quel tono di disinganno e di malinconia, di cui dopo parleremo, che penetra tutta la sua opera, ma che solo alla fine si lascia sentire con tutto il suo peso. Da qui anche il fine umorismo che scivola ridente, parallelo anche alla malinconia. L’umorismo di un uomo che può affacciarsi al suo passato e può vedersi, senza troppa tortura, convertito in un puro spettacolo di sé stesso. E questo è La Dorotea: lo spettacolo che Lope crea con sé stesso e per sé stesso).

Lo spettacolo di sé stesso. Sta qui tutto il nodo dell’operazione letteraria. Il nodo, anzi, di tutta la letteratura, di ciò che è la letteratura. In fondo, a pensarci bene, l’operazione che Lope compie nella Dorotea, rievocando un amore giovanile mai dimenticato, non è tanto diversa da quella che compie Dante nella Vitta Nuova. Anche lì il poeta si affaccia a guardare la propria giovinezza, si direbbe quasi a guardare il periodo, ormai concluso, della propria “scapigliatura”.

In margine: Lope chiama “acción en prosa”, azione in prosa, la Dorotea, per sfuggire alla proibizione di scrivere per il teatro, e di pubblicare teatro, indetta, per ordine di Filippo IV, dalla Junta de Reformación nel 1625. Di fatto è una commedia in cinque atti o una novella in forma dialogica, alla maniera della Celestina. Lope vi rievoca l’amore giovanile mai dimenticato per l’attrice Elena (leggere: Eléna) Osorio. Amore tempestoso, interrotto e ripreso, in cui entrano anche mercimoni, cavalieri danarosi, e il disprezzo per il giovane poeta squattrinato da parte della madre dell’attrice. Per questa madre avida e spietata, che vende la figlia al miglior offerente, Lope manifesta disprezzo e disgusto, è il personaggio più negativo dell’opera, l’unico forse senza ripensamenti o pentimenti per la propria abiezione morale. Dorotea-Elena è, invece, un personaggio vivissimo, complesso, modernissimo. Lo spettacolo della propria vita è messo in scena insieme con disinganno e distacco, con uno stile fluidissimo, meraviglioso, una prosa degna del suo contemporaneo Cervantes. Ma resta in bocca l’amaro di una vita incompiuta, di un amore interrotto, o meglio: finito, come tutti gli amori, senza spiegazioni e senza colpe, o con colpa di tutti e il ricordarlo, invece di lenire le ferite, le inacerbisce. Come scrive lo stesso Lope in quegli anni, per un altro amore finito, ma questa volta perché la donna, un’altra attrice, muore, e prima di morire diventa cieca e pazza: ya no tienen lágrimas mis ojos, non hanno ormai lacrime i miei occhi.

Oggi si fa un gran parlare di autofiction, se sia proficuo per la letteratura abusarne. Ma - santa pace! - e se tutta la letteratura non fosse in realtà che una sterminata, interminata e interminabile, operazione di autofiction? Chi è Don Chisciotte per Cervantes o Faust per Goethe o Amleto e ancora più Prospero per Shakespeare? Non è detto che l’autofiction debba essere necessariamente autobiografia. E, anzi, a volere andare in fondo, la stessa autobiografia non è mai la vita raccontata così com’è, com’è davvero avvenuta, ma è la vita come chi la scrive se l’è rappresentata a sé stesso per raccontarla agli altri. Anche le autobiografie apparentemente più sincere danno spazio all’invenzione pura e semplice: Le Confessioni di Sant’Agostino e di Rousseau, Poesia e Verità di Goethe (notare la finezza del grande poeta, dell’immenso scrittore: non la pura verità della propria vita, bensì la Poesia e la Verità, dove la poesia sta tanto per la vocazione letteraria dello scrittore quanto per l’invenzione, ugualmente letteraria, della stessa Verità: nel Viaggio in Italia, sorta di continuazione di Poesia e Verità, la figura della “bella Milanese” è figura totalmente inventata o, almeno inventata così come Goethe la racconta), e la bellissima Vita scritta da esso di Alfieri.

Ed a questo mira il saggio di Spitzer: a chiarire quale Spannung, quale tensione, determini la distanza o la vicinanza di una pagina alla vita che descrive, ogni volta che la pagina viene scritta, ogni volta cioè che la vita viene scritta, che si fa letteratura. Un grande conterraneo di Spitzer, anche lui innamorato della poesia spagnola, ne aveva fatto insieme lo stigma e l’enigma della propria opera così come della propria vita: Hugo von Hofmannsthal. Ma c’è anche qualcosa di più, inoltre, in questo saggio, che l’ombra di Walter Benjamin. C’è la riflessione, in quegli anni cruciale e costante, sulla modernità, non tanto come qualcosa che spezza la continuità della storia, come un’arte che nega l’arte del passato, bensì come il disvelamento della natura stessa dell’arte, di qualsiasi arte, di qualsiasi tempo. Siamo infatti così sicuri che un quadro di Vermeer sia poi, nella sua natura, così diverso da un quadro di Mondrian?

La riflessione estetica di Spitzer è resa comunque possibile dalla configurazione tutta particolare della letteratura spagnola, anzi di tutta l’arte spagnola. Essa parte, fin dalle origini, come riflessione sulla letteratura, come riflessione sull’arte. Il Don Chisciotte ne è l’emblema più noto e più significativo, un romanzo che nasce come riflessione sul poema eroico. Ma non il solo. Il gioco di realtà e finzione, di entrare e uscire dalla pagina come un entrare e uscire dalla vita percorre tutta la letteratura di lingua spagnola fino ad oggi. Borges non scrive per caso in spagnolo. E, alle origini del barocco, Lope è uno scrittore assai attento ai meccanismi con cui si costruisce un’opera letteraria, un drammaturgo estremamente consapevole della natura del teatro, un poeta che ha penetrato a fondo la scrittura della poesia, in una parola il modo e il senso di fare della letteratura. Ma questo è un altro discorso. E ci sarà il modo e il tempo di affrontarlo.

Fiano Romano, 25 settembre 2019
1Die Literarisierung des Lebens in Lope‘s „Dorotea“ Bonn und Köln, L. Röhrscheid, 1932. Trad. it. Vita in forma di letteratura nella Dorotes di Lope de Vega, Roma, Lithos, 2015.
2. Nietzsche, Frammenti postumi dell’epoca del Caso Wagner. Corsivi e virgolette sono di Nietzsche.

sabato 21 settembre 2019

Maurizio Baglini Project 2019: Beethoven, i Concerti




Uscire dal Teatro di Villa Torlonia, a Roma, dopo avere ascoltato il Terzo e il Quinto Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven, uscire dalla Villa, fare alcuni passi per Via Spallanzani, fino alla macchina, salirvi, accendere il motore e sentire alla radio, cominciato da poco, l’Adagio della Quarta Sinfonia di Mahler, non è solo un tuffo nella musica che ha raccontato un secolo di Europa, ma ci si sente stringere il cervello, l’utopia sprecata, la speranza delusa, l’immancabile ripetersi catastrofico della storia. Come se i bombardamenti francesi di Vienna, i campi di sterminio tedeschi continuassero, assumessero la ferocia del perenne rifiuto dell’altro che sembra dominare da millenni l’evoluzione del primate narcisisticamente autoproclamantesi sapiens. Il concerto beethoveniano chiudeva i giorni del Maurizio Baglini Project. La sinfonia mahleriana, diretta da John Axelrod, chiudeva le giornate di MITO.

Tornavo a casa. La sinfonia mi ha seguito fino a Monterotondo. Poi ho spento la radio. Il paradiso infantile cantato con così dolce struggimento da Mahler, rendeva per contrasto più brutale l’inferno di oggi. Ma già durante il concerto pensavo a quell’uomo solo, sordo, che sfidava gli odi del mondo invocando la fratellanza di tutto il genere umano. Il Terzo concerto op. 37 nasce molti anni prima ed è una pagina contraddittoria, tumultuosa: un primo tempo di disperazione assoluta, un largo di dolorosa interiorità, e quel rondò finale in cui la volontà, solo la volontà, non il cuore, impone una via di uscita, che non è il raggiungimento della pace, ma il rifiuto di cedere al dolore, all’ingiustizia che trionfa. 

 

Carlo Guaitoli questa contraddizione, così tipicamente beethoveniana, sembra quasi accarezzarla frase per frase: dall’energica entra delle scale al tema scandito per ottave parallele, interrotte subito da un accordo dissonante. E poi il canto, dolcissimo, struggentissimo, che sembra, per Guaitoli, la cifra dominante del concerto. Più che contrasti netti, Guaitoli sembra inseguire alternanze di uno stato d’animo costante: l’irrequietudine del sentimento si fa irrequietudine della forma, o più probabilmente viceversa, quel proporsi perennemente variata di una stessa idea è l’irrequietezza stessa della forma che cerca di fissare un pensiero musicale che corrisponda ad una inafferrabile inquietudine. La lunghissima cadenza, composta a concerto ultimato, riassume tutti questi atteggiamenti. Che è lo stigma del comporre per Beethoven fin dall’op. 1. I Trii op. 9, per archi, sono già la prefigurazione degli ultimi quartetti. Le due sonate op. 27, le sonate op. 30 per violino e pianoforte, la seconda sinfonia op. 36 composta simultaneamente al terzo concerto, rispecchiano tutte un clima di catene che si spezzano, di prigione formale da cui si evade. Eppure la scrittura non ha una sbavatura, un momento d’incertezza. Ci sono anzi punti d’invenzione orchestrale nuovissima. Indimenticabile il rispondersi del flauto e del fagotto nel Largo. O il disegno della testa del tema ripetuto come uno spettro, prima che il pianoforte riproponga il tema del rondò. Scrittura strumentale avveniristica, che preannuncia Čajkovskij (Bella addormentata), Mahler (Quarta Sinfonia, appunto). O meglio, di cui sia Čajkovskij sia Mahler si ricordano. 

 

Maurizio Baglini affronta, dopo, il Quinto Concerto op. 73. Qui il gioco della forma sembra prevalere sull’irruenza del sentimento. Ma ne siamo sicuri? Intanto Baglini sceglie un’altra via: esaspera i contrasti. Ma soprattutto mette bene in rilievo la perpetua trasformazione caleidoscopica delle idee musicali. Il concerto è così quasi un manuale della variazione. I temi si assomigliano perché in realtà tutti derivano da un’unica idea. E tuttavia l’idea si manifesta in forme diversissime. Idea dominante sembra quello delle scale, nel primo tempo assumono un ruolo prepotente, esclusivo. Ma in realtà servono a circoscrivere il campo armonico. Nel terzo concerto l’intonazione arpeggiata della triade. Qui la enunciazione di tutta la scala. I due concerti sono anche in relazione armonica, il Terzo è nella relativa tonalità minore della tonalità maggiore del Quinto: do minore, mi bemolle maggiore. Tonalità massonica. Le tre entrate brillanti del pianoforte all’inizio del concerto hanno lo stesso valore di scansione triadica di un’iniziazione che avevano i tre accordi che attaccano l’ouverture del Flauto Magico, anch’essa in mi bemolle maggiore. Massimiliano Caldi tiene insieme tutte le fila, dell’orchestra – romatreorchestra – e del pianoforte, con grande equilibrio. Sala stracolma, successo trionfale per tutti. E alla fine un bis delizioso: i due pianisti, Carlo Gaitoli e Maurizio Baglini interpretano un valzer di Brahms. Una leggerezza carica di memorie. 

 

Nei giorni precedenti Axel Trolese aveva interpretato il Quarto Concerto di Beethoven, e Maurizio Baglini insieme al violoncello di Silvia Chiesa, le cinque Sonate per violoncello e pianoforte. Un’infezione virale mi ha impedito di parteciparvi. Ma certo avranno degnamente completato il quadro così intenso di questo concentratissimo ritratto beethoveniano.

lunedì 16 settembre 2019

Maurizio Baglini Project 2019: Beethoven

La trascrizione di musiche da uno strumento a un altro, dalla voce allo strumento, anima la vita musicale di tutte le culture. Si può perfino dire che fu strumento di modificazione e ristrutturazione delle forme musicali. Alcune inventandole di sana pianta. Si pensi alle trascrizioni organistiche trecentesche della Messa di Machaut e alle trascrizioni rinascimentali per liuto e altri strumenti o complessi di strumenti di chansons francesi e di madrigali. Nasce anzi proprio da queste trascrizioni la consapevolezza di una diversità intrinseca della scrittura musicale per strumento. Canzoni e ricercari sono un primo tassello verso un’autonoma scrittura strumentale. E spesso capolavori non inferiori alle fonti vocali da cui derivano e dalle quali spesso divergono inventando nuovi adattamenti della linea vocale alle esigenze dello strumento. La trascrizione percorre dunque tutta la storia della musica, sia occidentale sia di altre culture. E non ha solo funzione divulgativa, come in parte per esempio la trascrizione per banda, nell’Ottocento, di brani musicali famosi, soprattutto del melodramma. La trascrizione, infatti, stimola adattamenti, trasformazioni, genera spesso nuove forme.

E non riguarda solo la musica. In ogni arte esiste la pratica di copiare, trascrivere, variare. Si pensi ai disegni, alle copie di pitture importanti, che suppliscono la funzione della fotografia, quando ancora non c’era, ma sviluppano anche tecniche pittoriche nuove, impostazioni costruttive nuove. O in letteratura, lo stimolo di un’opera fortunata, il romanzo epistolare francese, per esempio, spinge Goethe a scrivere il Werther, e il Werther, in Italia, genera sia lo Jacopo Ortis di Foscolo, sia i Pensieri d’amore di Monti. E’ dunque snobismo sterile storcere il naso, come alcuni ancora fanno, alle trascrizioni di Liszt. Come se non esistessero, prima, le trascrizioni bellissime di Bach da Vivaldi, talora perfino superiori all’originale trascritto. Dalle trascrizioni dei Capricci di Paganini, Liszt ebbe l’idea di svilupparle in ciò che poi divennero gli studi trascendentali (titolo italiano è però fuorviante, il titolo francese originale dice Études d'exécution transcendante, studi di esecuzione trascendente). Liszt era troppo compositore, troppo curioso di sperimentare nuovi territori musicali, per arrestarsi alla pura e semplice trascrizione. E si prodiga in parafrasi e variazioni oltre che in trascrizioni vere e proprie. Fu, tra i romantici, quello che forse penetrò più di ogni altro la novità dell’impostazione compositiva di Beethoven, allievo del suo allievo Czerny. Di Beethoven Liszt ha trascritto per pianoforte tutt’e nove le sinfonie. Alla Nona ha dedicato il lavoro più lungo. E’ una trascrizione particolare, non solo perché la Nona Sinfonia beethoveniana è scritta per un organico numeroso, orchestra, coro e voci soliste, ma per l’inaudita complessità della scrittura. Liszt capisce subito che un lavoro letterale di trascrizione è impossibile. La partitura va totalmente reinventata per adattarla al pianoforte.

La scrittura di Beethoven è attentissima al mezzo adoperato, pianoforte, o altro strumento, quartetto, orchestra, voci. Ma non nel senso con cui di solito è intesa, soprattutto dagli interpreti, la specificità dello strumento. L’interprete tende, per lo più, a subordinare la musica scritta alle prestazioni dello strumento, la giudica più o meno adatta, più o meno caratteristica, a seconda degli effetti strumentali o vocali, se si tratta della voce, che possa ricavarne. Subordina insomma la scrittura musicale alle prestazioni dello strumento. E solo in tal senso giudica una musica o pianistica, o vocale, o violinistica, e così via.

Ci sono poi compositori, anche geniali, che prestano una grande attenzione a questo rapporto tra la scrittura e la sua realizzazione strumentale. Tra i sommi: Rossini e Chopin. Rossini scrive anche musiche di ardua esecuzione per le voci, ma, come prima di lui Handel (e non invece Bach), non viola mai i supposti limiti di ciò che generalmente s’intende per la natura dello strumento, in questo caso la voce. Chopin scava e sperimenta sul pianoforte la realizzazione di una scrittura musicale totalmente nuova. E crea così, sul pianoforte, con il pianoforte, per il pianoforte, un mondo musicale totalmente nuovo e d’inaudita complessità strutturale.

Non così Beethoven, e per certi aspetti nemmeno Liszt, anche se la fama fu di virtuoso del pianoforte, assai più di Chopin. Ma tale apparente indifferenza alla natura dello strumento non va intesa nel senso con cui generalmente si dice che Beethoven è insensibile alla natura dello strumento, alle sue specificità. Perché invece Beethoven lo strumento lo conosce bene, e profondamente, e sa sfidarne le possibilità assai più di quanti non osano superarne quelli che si ritengono, a torto, i suoi limiti o quella che si giudica, ugualmente a torto, la sua natura. Si dice, e si ripete spesso, per esempio, soprattutto da parte degli italiani, inguaribili patiti del bel canto, che anzi ritengono l’unica forma “naturale” di canto, che Beethoven non sa scrivere per la voce. Si dice, e si scrive: per esempio, nella sezione dedicata al teatro del DEUMM, alla voce Fidelio. Una voce dilettantesca, che irrita qualunque studioso serio di musica. Niente di più erroneo, infatti, di ciò che vi si legge, che cioè Beethoven non conoscesse la fragilità dello strumento delicato che sarebbe la voce umana. Quasi testuale: una bestemmia critica, un infondato giudizio di storia musicale.

Beethoven, infatti, non scrive contro la voce, ma nemmeno contro il pianoforte, o contro il violino. Beethoven usa la voce, il pianoforte, il violino per realizzare idee musicali pensate per la voce, il pianoforte e il violino, ma non nel senso di un’esecuzione comoda e abituale, anche nelle agilità e nei virtuosismi, che pure abbondano. Beethoven chiede allo strumento di esibire lo sforzo, la difficoltà, la novità del pensiero musicale, di far sentire che la musica pensa. La voce è spinta fino allo strillo, il pianoforte esaspera la sua natura percussiva (in certi casi sembra prefigurato perfino Bartók), il violino deve mostrare lo sforzo di mantenersi cantabile anche in registri impervi, il violoncello è spinto nei quartetti a suonare all’unisono con il violino. Il che non impedisce a Beethoven di abbandonarsi anche a stupende perorazioni liriche, di tuffarsi nel piacere di un canto dispiegato: il tema delle variazioni dell’ultimo tempo della Sonata op. 109, l’adagio del concerto per violino, la cavatina del quartetto op. 130. Canto di una bellezza che ha pochi eguali in tutta la storia della musica di Occidente.

Da giovane guarda a Haydn e Mozart, non come a modelli stilistici, ma come a maestri d’invenzione musicale, architetti di nuove costruzioni musicali. E a chi doveva guardare, poi? Haydn e Mozart erano i suoi contemporanei più moderni, l’avanguardia di allora, e Beethoven voleva essere musicista d’avanguardia. Ma in ogni caso Haydn e Mozart erano musicisti contemporanei. Si dice e si scrive una sciocchezza quando si dice e si scrive che il giovane Beethoven “imita” Haydn e Mozart, come se fossero musicisti del suo passato e non della sua contemporaneità, come se non fossero anzi i musicisti più moderni della sua contemporaneità. E tuttavia li scavalca, o, forse, meglio, li prosegue, conduce alle estreme conseguenze principi costruttivi che già trova impiegati nelle loro opere, per esempio il continuo lavoro di elaborazione di un’idea musicale dalla partenza semplice, se non addirittura semplicissima. E la necessità di non rinunciare mai a una costruzione contrappuntistica delle parti. Nemmeno quando, apparentemente c’è una melodia sostenuta da un accompagnamento elementare di arpeggi o di accordi. L’accompagnamento, infatti, non è mai tale, ma è sempre concepito come una voce in contrappunto (questo accade anche in Chopin! e il modello di entrambi è Bach).

Liszt di questa complessità di scrittura è consapevole. Anche perché, in parte, è la complessità pure della sua musica. La trascrizione della Nona Sinfonia raccoglie dunque le fila di tutto questo intricato e fitto processo musicale. Liszt accantona l’idea di una trascrizione pedissequa, letterale, e anche per questo abbandona la prima stesura per due pianoforti e si concentra su un’unica tastiera. Ma per reinventare da capo tutta la sinfonia, per scriverla come se la musica fosse destinata al pianoforte. Nessun particolare è sacrificato. Ma tutta la sinfonia acquista una altro, e coerentissimo, aspetto. Comune alla partitura orchestrale e alla scrittura pianistica è la sfida a oltrepassare i limiti dello strumento, dell’orchestra come del pianoforte, ma insieme a valorizzarne proprio per questo le inusitate e fino allora insondate risorse.

Maurizio Baglini ha scelto questa trascrizione per inaugurare, al Teatro di Villa Torlonia, per Roma Tre Orchestra, istituzione musicale dell’Università Roma Tre, un breve festival dedicato a Beethoven, nell’ambito di una manifestazione che si chiama Maurizio Baglini Project, e quest’anno è il Maurizio Baglini Project 2019. Nel prossimo anno si celebreranno i 250 anni dalla nascita di Beethoven, Baglini anticipa i festeggiamenti. La partitura orchestrale della Nona è per il direttore d’orchestra un’impresa da far tremare le vene e i polsi. Ma non è da meno, e forse più, la trascrizione pianistica lisztiana. Per un’ora e un quarto Baglini si è confrontato con una musica non solo dalla scrittura complessissima, ma densa degli infiniti messaggi che il tempo vi ha immesso. Ogni volta che ascolto la Nona penso a quest’uomo solo, sofferente, sordo, che ha vissuto come una catastrofe irreparabile il bombardamento di Vienna da parte delle truppe francesi, proprio quei francesi da lui ammirati che avrebbero dovuto diffondere nel mondo la libertà, l’uguaglianza, la fraternità. Beethoven non dimenticò mai la sue simpatie giacobine.

Abbracciatevi, Milioni! Questo è il bacio di tutto il Mondo. Ogni uomo diventa fratello. Così scrive Schiller e così canta Beethoven. Questo canto è oggi l’Inno dell’Unione Europea. Che sembra essersene dimenticata. Libertà! Uguaglianza! Fraternità! Per Beethoven non sono ideali, ma programmi politici. Dovrebbero esserlo anche per l’Europa. Nella trascrizione pianistica mancano le parole. Ma trasudano ad ogni battuta. Baglini esaspera lo sforzo di sfidare i limiti dello strumento. I fortissimi suonano quasi sgarbati, quasi pugni sulla tastiera, i pianissimi si estenuano fino ad apparire impercepibili. Sembra che così suonasse Beethoven, esagerando ed esasperando gli estremi. Ma due aspetti risaltano, nell’interpretazione di Baglini, l’intricatissima struttura polifonica che percorre tutta la partitura, e l’irrefrenabile matrice ritmica che dà vita a tutte le idee musicali. Naturalmente, e giustamente, è un trionfo. Ma, nonostante la fatica, il sudore che cola dalla fronte, Baglini ha concesso un bis, un’altra trascrizione, di Busoni da Bach, il Corale per organo “Ich ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ”. E tutte le tessere musicali tornavano nella loro sede primigenia. Che dire di tanta bellezza e di così profonda commozione? Sublime, come il Dio che invoca. Anche per chi non è credente.

Le giornate continuano con l’interpretazione delle sonate e delle variazioni per pianoforte e violoncello, al violoncello la sensibillisima Silvia Chiesa, e gli ultimi tre concerti per pianoforte e orchestra, il terzo, il quarto e il quinto. Con Romatreorchestra, direttoreMassimiliano Caldi, Axel Trolese al pianoforte per il Quarto Concerto, a cui è abbinata la bellissima, sconvolgente Quarta Sinfonia, Carlo Guaitoli per il Terzo Concerto, e di nuovo Baglini per il Quinto, l’Imperatore. Ma di ciò si dirà e si scriverà dopo l’ascolto.


domenica 15 settembre 2019

Calder /Kentridge: la mobilità e la fugacità dell'essere




TEATRO DELL'OPERA DI ROMA

WORK IN PROGRESS
di Alexander Calder

immagini teatrali coordinate da Giovanni Carandente
e presentate da Filippo Crivelli
su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna

ALLESTIMENTO TEATRO DELL’OPERA DI ROMA

WAITING FOR THE SIBYL
ldeazione e regia di WILLIAM KENTRIDGE
Con musica composta ed elaborata da Nhlanhla Mahlangu e Kyle Shepherd
Regista associato NhlanhlaMahlangu
Proiezioni Zana Marovié
Costumi Greta Goiris
Scene Sabine Theunissen
Luci Urs Schiinebaum
Video Du§ko Marovié
lngegnere del suono Gavan Eckhart
Sartoria Emmanuelle Erhart

INTERPRETI

Nhlanhla Mahlangu {voce e danza)
Xolisile Bongwana (voce e danza)
Thulani Chauke (danza)
Teresa Phuti Mojela (danza)
Thandazile'Sonia' Radebe {danza)
Ayanda Nhlangothi (voce)
Zandile Hlatshwayo (voce)
Siphiwe Nkabinde (voce)
Sbusiso Shozi (voce)

NUOVO ALLESTIMENTO
Co-commissionato da The Royal Dramatic Theater di Svezia e Les Théàtres de la Ville de
Luxembourg
Produzione esecutiva THE OFFICE performing arts + film




Un teatro di figure. Ma non marionette o burattini o disegni animati. Nello spettacolo immaginato da Calder, Work in Progress, ci sono anche uomini che fanno cerchi sul palcoscenico correndo in bicicletta, e nel visionario dramma di una coscienza interiore figurato da Kentridge, Waiting for the Sibyl, appaiono uomini e donne che parlano e che cantano. Divide i due spettacoli lo spazio di quasi 50 anni, 1968-2019. Abbastanza per fingersi, come si va dicendo, e da qualcuno anche con soddisfazione, che le avanguardie sono morte, non esistono più. Ecco invece l’idea geniale del Teatro dell’Opera di Roma di accostare allo storico Work in Progress di Alexander Calder, voluto dall’allora direttore del teatro Massimo Bogianckino, uno spettacolo, ugualmente figurativo, visionario, di William Kentridge, Waiting for the Sibyll. Kentridge ci aveva già sorpreso e fatto ammirare a Roma con le figure disegnate sugli spalti del Lungotevere, ma destinate col tempo a svanire, sorta di rivisitazione negli anni 2000 della meraviglia barocca, che proprio a Roma era nata: Bernini costruì in legno la facciata di Palazzo Farnese, la collocò davanti al palazzo e la fece bruciare di modo che chi guardava avesse l’impressione che bruciasse il palazzo. La sorpresa barocca è costruita sul sublime, quella contemporanea sulla fatuità, l’effimero barocco è una riflessione sulla fugacità del tempo e delle cose, l’effimero di oggi al massimo riflette sulla nostra insignificanza. L’effimero delle avanguardie novecentesche, a cominciare dal Dada, ma soprattutto poi nel secondo Novecento, e in particolare nei decenni dagli ultimi anni ‘50 agli ultimi ‘70, in contrasto con questa fatuità, rappresentava invece la mutevolezza dell’essere, perfino nel cinema: 8 e ½ di Fellini, L’eclisse di Antonioni, ultimo stadio, nella sua filmografia, della dissoluzione del racconto. In letteratura c’era Antonio Pizzuto. 

 

Le sculture mobili di Calder, i mobiles (che, si badi, non sono cellulari!), sono già di per sé stessi teatro, figure in movimento. Immaginiamoci allora una serie di scene in cui le figure mostrano sempre nuove disposizioni di questo movimento. A un certo punto compaiono ciclisti con tute attillate variopinte che girano in circolo sulla scena, combinando in diversi modi i circoli. I mobiles, sulla scena, in questo progetto teatrale, assumono aspetto umano, si fanno anche veri corpi umani. Ma niente distingue questi agili corpi di ciclisti dal movimento degli oggetti sospesi che si erano veduti e si rivedono né tanto meno dalla piramide sul cui vertice sta ritto un uomo. Un gioco da bambini, può darsi, come a qualcuno è sembrato o, come sempre, soltanto un gioco, la matrice da cui nascono insieme la scienza e l’arte, e spesso combinandosi. Oppure, se ci sente spaesati, il sogno di un mondo in cui gli oggetti inanimati prendono vita e gli esseri animati si fossilizzano in oggetti. Tutto si allinea, tutto si assimila al solo atto di vedere, ogni cosa, l’oggetto e l’uomo, si fa solo materia di una visione. Come sempre, nella finzione artistica, anche il sentimento più esasperato, la passione più violenta, la figura umana più commovente e sensibile, per figurarsi in immagine d’arte, deve ridursi a materia, oggetto dell’immaginazione. Una donna, seduta accanto a me, esclama, ammirata: ma è poesia! Sì, è proprio poesia. Della poesia, questo spettacolo assorbe, insieme all’imprevedibilità e all’ineffabilità di un pensiero che non segue le regole della logica, l’evidenza della realtà, una realtà più forte, più evidente, se così si può dire, di qualunque realtà. Bravissimi tutti, e straordinario il lavoro di Filippo Crivelli, più mago che regista, fedele alunno di Calder, nel riallestire e reinventare uno spettacolo di 50 anni fa, per farcene assaporare fino in fondo non solo la stupefacente bellezza, ma anche l’attualità e, anzi, l’insospettata modernità. Già: la modernità! Chi lo direbbe, dopo 50 anni, che quegli anni ‘60 ci sono contemporanei. Come erano vive, infatti, le avanguardie degli anni ‘60! Altro che sorpassate, ammuffite, dogmatiche. E come appaiono efficaci, stimolanti le musiche registrate su nastro di Aldo Clementi, Bruno Maderna e Niccolò Castiglioni. Ci sarebbe tutto un discorso da fare sull’avanguardia, soprattutto sull’avanguardia musicale, su Nono, su Boulez, su Maderna, su Stockhausen, su Kagel, su Xenakis, ma non solo come anticipatrice di ciò che verrà, bensì, e davvero soprattutto, come luogo aperto all’invenzione, alla sperimentazione, al rifiuto della ripetizione del già ripetuto centinaia di volte, alla fantasia, al piacere del gioco e, diciamolo pure, al tuffo nel nuovo, quel nuovo senza il quale, per Baudelaire, non c’è poesia: tuffarsi nel gorgo, inferno o paradiso, che importa? cercare il nuovo, senza paura di perdersi o di dannarsi, ma magari trovando l’insperata salvezza, che dal fango della vita, come un gioco d’alchimista, possa estrarre l’oro della poesia. 

 

Geniale l’idea del team Alessio Vlad e Carlo Fuortes, direttore artistico e sovrintendente del teatro, di affidare a William Kentridge il secondo pannello della serata. Lo spettacolo immaginato da Kentridge, infatti, dopo l’invenzione di Calder, ci arriva non già come una copia, come un riflesso, un’imitazione o, peggio, un’imbarazzato doppione, del gioco spettacolare dei mobiles, ma come una nuova – postmoderna? ci sarebbe molto da dire se il moderno conosca un post – in ogni caso sconvolgente e trascinante impostazione dell’avanguardia, come una riflessione sul segno che costruisce l’azione sul palcoscenico: straordinaria la mano che disegna su un telo in tempo reale una macchina da scrivere, la stessa sulla quale subito prima avevamo udito qualcuno battere ritmicamente le dita. Ecco, le dita vive della mano che battono sulla tastiera della macchina da scrivere sono equiparate alle dita di una mano disegnata che disegna una macchina da scrivere sulla tela. Vengono in mente versi stupendi di Machado:



"Mis ojos en el espejo
son ojos ciegos que miran
los ojos con los que veo".

(I miei occhi nello specchio
sono occhi ciechi che guardano
gli occhi con i quali vedo)

Juan de Mairena, eteronimo di Antonio Machado


Tutto lo spettacolo è una riflessione – in tutti sensi - sul segno che si fa azione teatrale. Kentridge chiama a collaborare gli amici artisti sudafricani che rielaborano musiche e danze e giochi verbali della tradizione. Si ascoltano voci inimitabili, sublimi, si vedono gambe e piedi che danzano una danza frenetica, eterea, irriducibile a misura di battuta che non sia il ritmo di canti e di preghiere rituali. Si vedono le gambe e la registrazione visiva delle gambe proiettata sulla tela. Sempre questo gioco doppio della realtà e della sua riproduzione. Che poi è lo gioco aspetto di arte e vita. Ma – si badi! - non perché l’arte imiti o riproduca la vita, bensì perché la rispecchia in altra forma, quella appunto dell’arte. La scena è una biblioteca immaginaria di pagine sparse, staccate dal libro, disperse, incollate su un muro. Appese al muro, appunto, allora una folata di vento le solleva, il vento cessa e le pagine sollevate si ricollocano nel punto in cui stavano. I costumi sembrano comporre figurazioni stilizzatissime, si direbbe astratte, ma sono piuttosto segni di ciò che dovrebbero essere, tutto un ricchissimo repertorio di figurazioni delle tradizioni bantu. La danza dei ballerini, il canto dei cantanti, la dizione delle frasi che si leggono, in inglese, un inglese bellissimo, musicalissimo, proiettate su una tela, frammenti di fogli di libri, una biblioteca che si sfascia e si ricompone. E i fogli richiamano, certo, i mobiles di Calder, come scrive lo stesso Kentridge nel programma di sala. Solo come ricordo, però, come allusione: in realtà richiamano se mai l’esilità, la fragilità del nostro stare al mondo di oggi. Non del nostro stare al mondo oggi, ma del nostro stare al mondo nel mondo di oggi, così sfuggente, inafferrabile,un mondo insicuro di sé stesso e attratto da ciò che evapora più che da ciò che resta. Le figurazioni mobili di Calder rinviano invece a un mondo relativamente stabile, come possa essere stabile un mondo che si trasforma, sul quale muoversi è tuttavia un gioco divertente e gratificante. Kentridge non spera più che qualcosa di stabile possa ricomporsi nel mondo di oggi.



Kentridge confessa che la prima intuizione gli è venuta dall’ultimo canto del Paradiso di Dante, quando Dante, parlando della sua memoria del viaggio nell’oltretomba e della propria visione di Dio, dice che il ricordo di quella visione svanisce e che le parole pertanto non possono né rievocarla né ritenerla:

Così la neve al sol si disigilla,
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenza di Sibilla.

La Sibilla Cumana diventa, nell’immaginazione e nella rievocazione di Kentridge, una profetessa bantu, la sua voce scende nelle viscere della terra a evocare i trapassati, perché svelino a chi è sopravvissuto alla loro scomparsa il destino di chi ancora vive e non possiede la loro sapienza, tanto meno la loro preveggenza. Ecco i fogli della Sibilla – foglie dei libri che si levano ad ogni fiato di vento. E questi fogli suggeriscono inquietanti pronostici, angosciose premonizioni. Davanti ai notri occhi, nelle nostre orecchie sfila tutta la nostra cultura, orale e scritta, che dapprima si sfigura, ma poi trapassa e si perde. “Mi ricorda qualcosa che non riesco a ricordare. Inutile scampare al proiettile. Inutile rinascere. Non trovare il proprio destino. Resta in attesa di dèi migliori”.



Dino Villatico