venerdì 27 luglio 2018

Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala Santa Cecilia: Long Yu e Kathia Buniatishvili






Roma, Auditorium Parco della Musica. Sala Santa Cecilia. Direttore Long Yu, pianista Khatia Buniatishvili. Piötr Ilič Čajkovskij, Concerto n. 1 in si bemolle minore op. 23 per pianoforte e orchestra. Gustav Mahler, Prima Sinfonia in re maggiore “Il Titano”. Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

Il concerto si sarebbe dovuto tenere nella cavea tra i tre edifici dell’Auditorium Parco della musica di Roma. Ma la pioggia lo ha impedito. E con tempestiva organizzazione l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha trasferito la manifestazione nella Sala Santa cecilia, la più grande delle sale dell’Auditorium. I posti, naturalmente (?!), erano lasciati alla scelta del pubblico, salvo la discriminazione tra parterre e balconata. Impossibile, infatti, la corrispondenza di numerazione delle file e delle poltrone. A Salisburgo, tuttavia, faccio notare, per gli spettacoli all’aperto, sul biglietto è già stampato il posto eventuale della sala interna, in caso di pioggia. Ma una volta tanto non è solo una questione di organizzazione: è che a Salisburgo piove un giorno sì e l’altro no. Son dunque preparati. A Roma, a luglio, l’acquazzone è davvero un caso eccezionale, anche se, consultando le previsioni meteorologiche, è possibile prevederlo. Il pubblico era numeroso. C’era, al pianoforte, una diva ormai acclamata, Khatia Buniatishvili, e sul podio il debutto del direttore cinese Long Yu. Lasciamo perdere i commenti di alcuni sprovveduti: “Ma che ne può sapere un cinese di Mahler?” ha quasi gridato una signora parlando con un’amica, prima di prendere posto. L’ignorante, in questo caso, è l’italiano che fa simili considerazioni. Ignora, infatti, l’alto grado d’istruzione musicale cinese e la sua capillare diffusione. Più alto di quello italiano. Ignora, inoltre, la lunga serie di grandi interpreti orientali di musica occidentale: per esempio, oggi, il gradissimo direttore coreano Myung-whun Chung. E dimenticano soprattutto che un cinese ha alle spalle una cultura di almeno 7.000 anni! Di fatto oggi un cinese sa molto di più riguardo a noi occidentali di quanto noi occidentali sappiamo riguardo a loro. Per non parlare dell’alta tecnologia informatica il cui primato è oggi indiscutibilmente cinese e coreano. Ma, evidentemente, la signora italiana che aveva espresso con disprezzo quel giudizio sul direttore cinese, immagina che i cinesi siano quelli che incontra nei ristoranti e nei numerosissimi negozi sparsi ormai in tutta l’Italia. E che dovrebbe pensare, allora, degli italiani un cinese se avesse come unico modello di riferimento i ristoranti e ristorantini italiani, per lo più mediocri, sparsi in tutto il mondo? Ma veniamo al concerto, un’esaltante Mahler e un mediocrissimo Čajkivoskij.

Il suo primo Concerto per pianoforte ha aperto la serata, che era l’ultima della stagione estiva dell’Accademia. Strano che Alfredo Casella giudicasse “rapsodico” il sistema di comporre di Čajkivoskij. Probabile che influisse su di lui, come su quasi tutta la cultura musicale europea tra Otto e Novecento, l’idea, sbagliata, di una rigida formulazione della sonata. Accademica, più che veramente praticata dai musicisti. Anche se gli stessi musicisti non ne risultano indenni. Macroscopico l’abbaglio di Vincent D’Indy che nel suo Trattato di composizione fissa la forma della sonata con primo e secondo tema come modello definitivo, modello insuperato e insuperabile di sonata, rispetto al quale perfino Beethoven raggiungerebbe la maturità solo nel tardo periodo compositivo (che poi, in realtà è quello in cui lo rispetta meno: ottusità di una visione ideologica della forma musicale!) Čajkovskij, invece, sa benissimo come costruire un tempo di sonata, di quartetto, di sinfonia, di concerto. Si è formato le ossa sulle partiture di Schumann, anche le sinfonie e compresa anche la loro orchestrazione (alla barba di chi allora, e ancora oggi, si ostina a sostenere che Schumann è un cattivo orchestratore). E Schumann è forse il musicista romantico che meglio di ogni altro, tranne forse Liszt, ha penetrato la grande libertà, ma anche la grande coerenza costruttiva, della musica di Beethoven. Brahms ne sarà il prosecutore. E Čajkovskij. Quello che sembra improvvisazione, andare rapsodico, nella sua musica, è in realtà una grande perizia della variazione e del contrappunto. Il contrappunto, anzi, si rivelerà il filo conduttore del concerto, perfettamente colto dal direttore Long Yu, totalmente travisato dalla pianista georgiana Kathia Buniatishvili. 

 

E’ una grande attrice, sussurra una signora seduta dietro di me. E’ vero. A cominciare da come sfoggia l’aderentissimo e scollatissimo vestito argentato e gli incredibilmente esili e altissimi tacchi a spillo (ma sono comodi per adoperare i pedali del pianoforte?). O da come lancia all’orchestra e al pubblico sorrisi e lunghi baci soffiati sul dorso della mano. Poi succede che deve anche suonare. E giù ampi gesti enfatici se deve scandire rumorosi accordi, alzandosi perfino un po’ dal seggiolino, oppure chinarsi fino quasi a toccare la tastiera con il naso, se deve centellinare dolcissimi spasimi melodici. Si racconta che anche Beethoven esibisse comportamenti simili. Salvo che per i baci, certo. Ma il risultato di tanto istrionismo? Un’aggressione abborracciata dei passi più tempestosi e un’estenuazione esagerata dei profili melodici in quelli cantabili. Tra furia confusa ed estenuazione capillare del discorso melodico si finisce per perdere la continuità della costruzione musicale. Ma il pubblico è in delirio. Applaude già alla fine del primo tempo (non è grave: succede anche ai Proms di Londra, e nell’Ottocento era la regola). Dai tempi di Terenzio, comunque, la sfacciataggine del gioco circense è stata generalmente sempre preferita alla discrezione e alla serietà del discorso intimo. I due bis, un pasticciatissimo e mutilatissimo Liszt e un estenuatissimo, quasi evanescente, Claire de lune debussiano, accolti con pari entusiasmo dal pubblico, dimostrano quanto sia dura, irta di ostacoli, e non solo oggi, la strada dell’intelligenza interpretativa.
Tutto invece tornava a posto con la Prima Sinfonia di Mahler. Long Yu ne ha penetrato lucidamente l’articolatissima costruzione contrappuntistica. Il contrappunto di Mahler è un sorta di elaborazione musicale nuova, nel mondo della sinfonia. E quanto sia nuova, basti pensare che Brahms, all’epoca, era ancora vivo e aveva 57 anni. E non aveva ancora composto gli ultimi, visionari, pezzi per pianoforte. Mahler non mira a mettere insieme melodie diverse che concordino a formare un inseme congruente e armonioso. Ma esaspera, anzi, le differenze melodiche, ritmiche e perfino armoniche (di qui le improvvise e aspre dissonanze) degli elementi musicali della costruzione. Tra gli interpreti storici, Bruno Walter, che fu assistente musicale di Mahler a Vienna, è l’interprete che sembra dare particolare rilievo a queste dissociazioni ritmiche, melodiche, armoniche. Talora sembra che i vari gruppi dell’orchestra entrino in contrasto tra di loro più di ogni altro interprete. Long Yu segue, o sembra seguire, questa tradizione. E in maniera mirabile. Ma è tutta di oggi poi l’intensità struggente del canto. Il secondo tema del Finale raramente lo si è sentito così irrevocabile, definitivo, una pietra tombale sul nulla della vita: la bellezza del ricordo che si fa tanto più disperata quanto più è consapevole che il ricordo evoca una bellezza perduta. Viene in mente il Dialogo della Natura e di un Islandese di Leopardi. O l’Umano troppo umano di Nietzsche (probabile che Mahler conoscesse quest’ultimo ma non Leopardi). Vengono in mente anche certe pagine distaccate, glaciali, di Kafka, conterraneo di Mahler, e anche lui ebreo. Tutta la musica di Mahler, del resto, come il pensiero di Leopardi, di Nietzsche, di Kafka, è un a corpo a corpo con la Natura. Darwin, in qualche modo c’entra anche lui. Leopardi lo prevede, Nietzsche e Kafka lo condividono. E probabilmente anche Mahler. Di questa visione agghiacciante della Natura la Terza e la Settima Sinfonia sono il disorientante, implacabile ritratto. Ma quel nulla, quel dolore, quella disperazione, sono già perfettamente prefigurate nella Prima. Gli Adagi della Nona e della Decima saranno il canto conclusivo, lucidissimo, del definitivo congedo: quasi sul ciglio dell’afasia, il punto in cui cessa la musica, è il punto stesso in cui la Natura elimina l’uomo, in cui anzi stermina tutta la specie umana. Un altro ebreo, questa volta italiano, aveva previsto qualcosa di analogo, e lo scriveva nella sua Trieste fino a poco prima ancora austriaca, e dunque anche lui concittadino di Mahler e di Kafaka: Italo Svevo, ed è l’”occhialuto uomo” che chiude la Coscienza di Zeno, prefigurando l’estinzione della vita sulla Terra, sì che il pianeta possa errare tranquillo tra gli astri: “Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

Questo anelito autodistruttivo Long Yu lo interpreta con spaventosa evidenza, lo imprime e lo fa esprimere dall’orchestra con un senso controllato del caos, con una violenza sonora chiarificatrice. Ma insieme, anche, con una struggente tenerezza. Il pubblico ne è conquistato e lo festeggia lungamente, acclamandolo con ripetute grida di “bravo!” Chi sa se la signora che si dichiarava perplessa che un cinese potesse “capire” Mahler, si è poi ricreduta. Sembra di sì, perché non si è udito un solo moto di dissenso da parte di nessuno. Se così fosse, ne sarei felice. Le culture non si scontrano, ma si confrontano. Anni fa, il professore di storia medievale dell’Università di Arezzo, un vietnamita (sì: un vietnamita), mi diceva che la Cina, in Oriente, è ciò che per noi occidentali è la Grecia. E che gli scambi, non solo tra i paesi orientali, ma anche con i paesi occidentali, non furono solo commerciali, ma anche culturali. E più profondi di quanto si possa immaginare. Ma – ahimè! - il clima che oggi si respira in Italia, e in Europa, pur troppo, sembra spingere a ignorarlo.

Fiano Romano, 27 luglio 2018

giovedì 26 luglio 2018

Rodrigo Boggero, Latitudini




Rodrigo Boggero, Latitudini. Romanzo (Tentativo di), 2017, Condove (TO), Sillabe di sale Editore, 2017, pp. 260, € 16,50


Sarà più di un secolo che si parla di crisi del romanzo (non parliamo poi della morte dell’arte!). Ma se ne continuano a scrivere. Se ne continuano a leggere. Qualcuno, anzi, è un capolavoro. E questi romanzi, si continua a leggerli. Da qualche tempo, però, il romanzo sembra voler riflettere sui propri presupposti, sui propri fondamenti. In realtà lo ha sempre fatto. Fin dal Don Chisciotte, il primo romanzo della modernità, e forse a tutt’oggi insuperato modello di romanzo moderno. La grande letteratura, del resto, ha sempre riflettuto se sé stessa. Guardate le polemiche degli alessandrini sul poema eroico – sembra di leggere quelle attuali sul romanzo – e il povero Apollonio Rodio che si ostina a scriverne uno, e ne esce quel capolavoro delle Argonautiche. Che però non ha più niente di omerico. Ma è come un lungo epillio in quattro canti. Uno, interamente dedicato all’amore di Giàsone e Medea. Oggi si ritorna farlo. Forse è un buon segno, soprattutto in Italia, dove ci si era adagiati su formule comprovate e abitudini di lettura corrive. Giorni fa ho scritto del bellissimo Il tuo sguardo nero di Francesco Maria Colombo. Ecco un altro romanzo che entra ed esce da sé stesso. Anzi, non un romanzo ma, come recita il titolo: un “tentativo di romanzo”. Che, non a caso, comincia con l’ossessione dell’ombra di un aereo che ogni giorno alla stessa ora passa e copre la stessa finestra. Fin dalle prime pagine del romanzo, infatti, tutto è mobile, i personaggi sono dichiarati personaggi, lo scrittore stesso uno di essi, ma poi chi scrive dello scrittore, quale scrittore dello scrittore? Una notte d’estate, sulle rive di un lago, in montagna, dentro una tenda, un bambino è stuprato dallo zio, ma se ne dimentica. Lo zio, anni dopo, si uccide. Il bambino, diventato adulto, torna a quella notte dello stupro, alla tenda accampata in montagna sulle rive di un lago, dove nudi zio e nipote si abbracciano senza sapere né l’uno né l’altro quello che fanno. Lo zio, in fondo, lo sa ancora meno del nipote. Che sente sì dolore, ma dimentica anche il dolore. E ormai adulto, un giovane disorientato, ma attraente, stupra e forse uccide una ragazza che lo provoca ma gli resiste. La ragazza gli fa rabbia così alternativa, così altra, vegana, indiana, come gli si presenta, e sembra offrirsi, ma non gli si offre. A questo stupro, e forse femminicidio, seguono molti, moltissimi altri stupri e femminicidi. Il giovane è, naturalmente, il principale sospettato, l’imputato più probabile, e perciò scappa. Ma è davvero così, o è solo il segno – o, chi sa, il sogno – della scrittura? Attraverso ripetuti incontri, di donne e di uomini, il giovane, Luciano, cambia sesso, si fa donna, soggiace al possesso di un uomo, e soggiancendo ridiventa uomo. E così via, fino a un ultimo incontro in cui ancora donna incontra un uomo che si fa donna e lui (lei) da donna ridiventa uomo. L’uomo ridiventato donna, Rut, gli racconta la sua storia, gli racconta perfino di avere cambiato colore della pelle, di essere diventata una nera africana, da italiano/a bianco/a che era. Assiste in India all’omicidio di un bambino. Persegue l’omicida. Ecco, dunque, che ritornano i delitti. Ma l’assassino è potente, sfugge. Lui/lei se ne sente complice, cerca giustizia, ma si accorge che una vera giustizia è impossibile o andrebbero puniti tutti. I due, il bel giovane ritornato uomo, e forse omicida, anzi femminicida, assassino di molte donne, e l’uomo prestante ridiventato donna bianca e avvenente, dopo essere stata anche uomo, anche nera, e complice involontaria (ma davvero involontaria?) di un crimine, non vedono davanti a sé altra via di scampo che la fuga, da tutti i luoghi, da tutti gli uomini. Fuggono, per sfuggire alla cattura o per sfuggire, forse, a sé stessi. Ma scoprono che è impossibile fuggire da sé stessi, fosse pure il sé stesso un sé stesso mutante. Fanno a ritroso la strada dei migranti. Capiscono così che forse la via è davvero quella – ma non è una via di salvezza: in fondo a quella via c’è forse la morte, o senz’altro il disprezzo, l’oppressione, lo sfruttamento, la schiavitù. Comune, uguale, per i due, come per i migranti, solo la sofferenza. Il racconto si chiude qui perché qui vuole chiuderlo lo scrittore richiamato in causa proprio nella pagini finali del romanzo. La fine, dunque, resta aperta. Perché in realtà non c’è una fine, ma tutto può ricominciare da capo. Anzi, forse, davvero tutto può o deve ancora cominciare.

Questo libro è un’evasione. Lo è sempre stato. Per me come per Luciano e Rut. E come per te, lettore. Un’interminabile evasione. Ma non dalla vita o dalla realtà: dallo sguardo che c’imprigiona”.

Il romanzo è ambizioso. Rendere concreta, visibile, tangibile, e raccontarla, l’ambiguità del reale, l’ambiguità, anzi, di ciascuno di noi. I confini dell’individuo non sono netti, ma transitabili, e transitabile anche il nostro corpo. Toccato, penetrato, o anche solo abbracciato, il corpo si trasforma, non è il corpo che era prima del contatto, della penetrazione, dell’abbraccio. In qualche modo toccarlo, più che modificarlo, è ucciderlo. Anche per amore, anche con un atto d’amore, come l’atto dello zio sul corpo del nipote. Peccato che in quel momento il nipote non fosse veramente il nipote, ma un corpo che sostituiva, per lo zio, il corpo della sua sorella amatissima e insostituibile, mai sostituita. Nemmeno il corpo del nipote, però, la sostituiva veramente, perché nell’atto di essere penetrato quel corpo era, era realmente, la sorella dello zio. Veri, però, e non soltanto per lo zio, entrambi i corpi, in quell’unico atto d’amore, che quella notte, in montagna, sulle rive del lago, dentro la tenda, l’atto mai compiuto con la sorella, e portato, invece, a termine, felicemente, con il nipote, regalavano allo zio e al fratello il compimento di una parte di sé rimossa, ignorata, ma l’unica forse davvero esistente. E chi sa, ficcavano nel fondo del corpo, e della coscienza, del nipote, la realtà terribile, ma sfuggente, di sé stesso. O tutti quei delitti non avrebbero nessun senso. A cominciare dal delitto, in senso profondamente kirkegaardiano, di dimenticare sé stesso.



Temi terribili. Indicibili,forse (ma allora, perché scriverci un romanzo?). Al limite dell’osceno, chi sa, dell’invito a trasgredire, del mettersi sul punto di assolvere un atto di pedofilia. Ma non è così. Perché quell’atto resta comunque, insieme, sia un crimine sia un atto d’amore, di cui non solo lo zio, con il suicidio, ma anche il nipote, e con lui tutti i personaggi, scontano tremenda carica di violenza, direi anzi l’implacato, insoddisfatto karma di conoscere sé stessi, di scappare dalla disperazione di non essere sé stessi. Latitudini, appunto, della coscienza. Che non è un campo fisso, né una fotografia di ciò che siamo, ma uno stadio mobile, che ora è una cosa, un momento dopo un’altra. Siamo tutti così? sembra domandarsi il narratore, e con lui lo scrittore, non più personaggio, ma ormai autore, e cioè Rodrigo Boggero.

Qualche mutazione appare un po’ meccanica, e qualche periodo troppo compiaciuto nella sua complessità costruttiva, ma tutto il romanzo si legge d’un fiato. Per concludersi, com’è giusto, con una domanda che ci riguarda tutti:

O forse, sì, dalla realtà. Cosa c’è, infatti, di più irreale della loro vicenda? Ma chiudendo il libro, tornando alla ‘realtà’, a quella realtà da cui sei e siamo evasi … cosa pensi di trovare? Cosa credi che ti aspetti? Una cella? La solita cecchia cella della quotidianità? O il sospetto? il sospetto che da qualche parte, intorno a te, tra le pieghe di un evento insignificante e magari fortuito, che si ripete non visto milioni di volte ogni giorno in tutto il mondo, a cui non ha mai prestato la minima attenzione, si nasconda come uno spiraglio, la ‘maglia rotta nella rete’, la serratura, il punto critico (o ‘archimedico’) su cui far leva con la chiave della tua vita? Cosa accadrà dunque – concludo con fare puerile, innocente (e non poco altisonante) la Voce per-sempre-narrante – se spalancherai infine quella porta?
Cominiamo”.

Fiano Romano, 26 luglio 2018

martedì 24 luglio 2018

Francesco Maria Colombo, Il tuo sguardo nero







Francesco Maria Colombo, Il tuo sguardo nero, Milano, Ponte alle grazie, 2018, pp. 334, € 18,00

Giuseppe Scaraffia, sulla Domenica del Sole24Ore (22 luglio 2018, pag. 21, Belli, sfrenati e pieni di talento) critica la scelta di Francesco Maria Colombo di raccontare anche la nascita dell’idea, la ricerca, la costruzione e la scrittura del romanzo: “Colombo ha raccontato con passione e abilità questa fiaba moderna, peccato che abbia ceduto alla moda di inserire nella storia dei riferimenti alla sua vita privata, un’impresa ancora più ardua di una scena erotica”. Intanto, quale fiaba? La storia narrata non è una fiaba, ma un’esperienza profonda di vita. Ma perché, peccato? E quale “moda”?Colombo non è il primo ne sarà l’ultimo scrittore a mescolare i piani di una narrazione. In Spagna è appena uscito El dolor de los demás (Anagrama), terzo romanzo di Miguel Ángel Hernández Navarro, che sta salendo in testa a tutte le classifiche di lettura, nei paesi di lingua spagnola. Ne ho già scritto anche io, sia sul mio blog che sulle pagine degli Stati Generali. Chi vuole può andare a consultare quella mia recensione. Hernández racconta un omicidio, anzi un femminicidio, compiuto dal suo più caro amico d’infanzia e d’adolescenza venti anni prima. L’uccisa è la sorella dell’amico, forse anche la sua amante, oppure una sorella stuprata. Lo scrittore non si limita a ricostruire la vicenda, ma segue passo passo l’idea di scrivere un romanzo sul delitto dell’amico, un romanzo e non un ricordo autobiografico; l’autobiografia, se mai, è dello scrittore che scrive un romanzo, non dell’amico che rievoca il delitto di un amico. Su questo crinale ambiguo, sfuggente, pericoloso, il racconto procede entrando e uscendo dalla scrittura. Il pericolo non è tanto quello di cadere nell’autobiografia, quanto di scoprire la sfida che ogni scrittura lancia allo scrittore, quella del gioco tra verità e menzogna. Ma che cosa è verità, nel ricordo, e che cosa menzogna? E, ancora più profondamente, quanto è verità, rilevamento della verità in una ricostruzione e quanto invece soggettivo giudizio di verisimiglianza? Il tempo non c’entra in questa ricerca della verità? E quanto la ricostruzione di un fatto realmente accaduto può diventare, attraverso la scrittura, romanzo? Il grande poeta Costantino Kavafis, nelle sue postume Σημειώτατα ποιητικής και ηθικής (note di poetica e di morale, Atene, Aiora, 2016), sorta di mon coeur mis à nu d’un baudelairiano poeta greco moderno, scrive (traduco dal greco): “Verità e Menzogna esistono? O non esiste che il Nuovo e il Vecchio? La menzogna non è semplicemente la vecchiaia della verità?” (III, 16.09.1902). Siamo quasi all’epoca dei due amanti parigini raccontati da Colombo. Ora, questo entrare e uscire dalla propria vita, rappresentato dall’entrare e uscire dal laboratorio della scrittura, questo navigare, come Ulisse, sfiorando gli scogli delle Sirene, ma non lasciadosene distruggere perché legati, appunto, dall’atto di raccontare (Ulisse ai Feaci) o di scrivere (Colombo a sé stesso, prima che alla pagina, e dunque al lettore), non è l’essenza stessa del romanzo? E, in generale, della poesia? Ripeto, l’esperimento di Colombo non è nuovo. E’ nuovo il modo di scriverlo. Che forse potrà urtare chi del romanzo abbia un’idea più convenzionale di racconto stretto ai fatti che si narrano. Ma è per caso che Thomas Mann, accingendosi a narrare come sia nata in lui l’idea del Doktor Faustus e come sia proceduta la sua scrittura, non intitoli lo scritto Racconto di com’è nato il Doktor Faustus, ma Romanzo di un romanzo? E prima ancora, Laurence Sterne, quando scrive The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman, 1767, oppure A Sentimental Journey through France and Italy and Continuation of the Bramine's Journal, 1768, non esce, anche lui, fuori dal racconto e racconta come e perché racconti ciò che racconta? E prima ancora, l’immenso Cervantes, padre di ogni narratore moderno, non fa lo stesso? Se volessimo, potremmo indietreggiare perfino fino al Satyricon di Petronio. Ciò che distingue un vero scrittore da chi semplicemente scrive per intrattenere, è proprio la consapevolezza dell’atto della scrittura. Si potrebbe citare perfino la Divina Commedia (ma già prima, la Vita Nuova). Il personaggio Dante del viaggio non è affatto il Dante che scrive il viaggio del personaggio Dante. Ma non andiamo troppo oltre. E non misuriamoci con queste stratosferiche altezze, potremmo essere colti da vertigini. La grande letteratura, comunque, è sempre, anche, riflessione sulla letteratura. Scendiamo all’oggi, e torniamo al romanzo di Francesco Maria Colombo, Il tuo sguardo nero (Milano, Ponte alle grazie, 2018).

Questo è il suo primo romanzo. Ma Colombo non è solo uno scrittore (e, vedremo, uno scrittore notevole). E’ anche musicista, direttore d’orchestra. E’ stato critico musicale del Corriere della Sera, il più intelligente, competente, colto, raffinato, tra i pochissimi che in Italia meritino di essere chiamati critici musicali. Ma è anche fotografo. Anzi la fotografia è una sua grande passione. Che meraviglia dunque se si sia innamorato di uno scrittore che è anche fotografo (e fotografo pornografico!), Pierre Louÿs e della sua amante, Marie de Hérédia, poi Marie de Régnier, perché fotografata, nuda, dallo stesso suo amante e scrittore fotografo? Se in ogni racconto uno scrittore racconta più volte sé stesso, qui Colombo scopre le carte, e lo confessa: sto raccontando me stesso perché racconto Pierre Louÿs e Marie de Régnier, la Parigi dei simbolisti e dei parnassiani. Di Renoir e Fantin Latour. Di Debussy e Chausson. Tra l’altro, proprio a un ciclo, immaginato tradotto dal greco, di Pierre Louÿs, Chansons de Bilitis, Debussy ricorre per due diverse partiture, una di chansons, l’altra di divagazioni pianistiche che accompagnano la lettura del testo. Rende bene la cultura del tempo che il cognome fosse Louis, ma che a Pierre sembrasse banale, e pertanto lo riscrivesse Louÿs. Debussy non fu da meno. A scuola si faceva chiamare e si firmava De Bussy, vantando una noblesse inesistente. La simulazione crollò quando un compagno gli chiese: “Bussy? Non conosco questo feudo”. Si vendicò con una prodezza romana, quando fu pensionnaire a Villa Médicis. S’infatuò di un vaso cinese sbirciato nella vetrina di un antiquario di Via Condotti. Implorò i compagni del Prix de Rome, residenti nella Villa, di prestargli del denaro, adducendo che era rimasto a secco, e che aspettava soldi da Parigi. Glieli prestarono. Ma quando Debussy mostrò loro l’acquisto, in camera sua, vantandone la finezza, capirono tutto. Ma lo perdonarono, perché anche a loro l’arte cinese sembrava il massimo della raffinatezza. Anni dopo Debussy chiese a Durand di stampare una incisione di Hokusai, Kanagawa oki naki ura, nel vortice della grande onda di Kanagawa, sulla copertina della partitura degli “schizzi sinfonici” che intitolò La Mer.

Parigi nella seconda metà dell’Ottocento e nel Novecento fino alla prima guerra mondiale, è la capitale della Modernità nel mondo. Certo, anche Vienna, Berlino, Londra, e in tono minore Praga e Budapest, concorrono a costruire quella visione artistica che chiamiamo il moderno. Nella poesia, il primato francese è indiscusso. Da Baudelaire a Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, Valery e José-Marie de Hérédia e tutti i parnassiani, la poesia francese è il modello della nuova poesia in tutte le lingue del mondo. Com’era già accaduto cinque secoli prima che Petrarca fosse il modello di tutta la poesia europea, sia che lo si imitasse sia che lo si contrastasse (un po’ come accadrà, nella musica dell’Ottocento, per Wagner). In pittura gli impressionisti fondarono una nuova pittura, che dopo cinque secoli demoliva i principi costruttivi della pittura italiana come s’erano imposti al resto d’Europa dal Quattrocento in poi. Nel campo musicale non è diverso. Schoenberg avrà peso dopo la prima guerra mondiale, ma sempre in una cerchia ristretta: l’esplosione schoenberghiana, ma soprattutto di Webern, avverrà nel secondo dopoguerra. Fino agli anni ‘40 del Novecento, e anche oltre, il modello è la Francia. Mario Bortolotto vi ha dedicato un libro imprescindibile: Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale, Milano, Adelphi, 1992. Sarebbe del resto pensabile la musica di Puccini senza l’esempio, allora trionfante, di Massenet? Ecco: è questo il mondo a cui guarda Colombo, e di cui, a ragione, si è innamorato. Questo romanzo, infatti, è un atto d’amore.

Quando si tuffano le mani nel pozzo del passato, non per curiosità di biografi e ricercatori ma perché ogni cosa ritrovata, albero, palo, lampione. un’insegna di negozio in una foto di Arget, la traccia dell’inchiostro violetto che Pierre Louÿs ha depositato sullo stesso foglio di carta che è tra le nostre mani oggi, testifica il mistero della sua presenza su questa terra; allora le cose mute, con la tenacia della loro persistenza, sono infinitamente più espressive che non la cognizione dettagliata di una storia. Sono lì, nella loro stupida oggettività: le agendine di Maricotte1, con il minuscolo lapis che lei stessa usava e che ho tra le mie dita; le matrici dei suoi libretti degli assegni; gli appunti raccolti dal dottor Fleury, sindaco di Arcachondal 1977 al 1985 e primo biografo di Marie, presi sul ricettario medico e sullo spazio bianco di una rivista dove compare la pubblicità del Phosphalugel, da prendere da due a quattro volte al giorno contro i bruciori di stomaco, le foto di Fleury, di Goujon e di tutta la banda degli amici postumi di Pierre Louÿs, a un convegno su Jean de Tinan sabato 15 ottobre 1993 a Sauveterre-de-Béarn: dove saranno andati a pranzo? cosa c’era nel Menù? com’erano seduti a tavola? Come sarà stata vestita la cameriera? e perché mai dobbiamo assegnare una gerarchia alle cose che compongono la vita e scegliere che una dichiarazione di guerra sia più importante dello chignon della cameriera? perché mai, se tutto è vita, se tutto è quello che si è vissuto e nessuno saprà mai dirne il perché?; i loro vestiti, le pettinature, la forma del colletto, il fazzoletto nel taschino del dottor Fleury: dove sarà finito quel fazzoletto?; tutto ciò che compone l’immane, inesplicabile deposito di quel che è stato, l’enciclopedia di ciò che ha avuto un’esistenza o ha accompagnato le esistenze. Ed è questo che mi tocca e mi ferisce molto più delle narrazioni ben scritte. Per questo sono venuto all’Arsenal: non per cercare una verità nuova, ma per toccare la carta, per vedere coi miei occhi le lastre fotografiche. E per questo, davanti alla pagina dell’Écho de Paris dove leggo, finalmente, il codice H.M.L. e vedo la traccia sbavata del piombo, il carattere tipografico, la posizione nel menabò dello stesso annuncio che hanno letto gli “innumerevoli occhi” di Marie de Régnier, mi prende una vertigine. Di ciò ch’è stata la sua vita fisica, il mistero del passaggio di tutti noi dall’idea eterna, se mai una vi sia stata, al corpo sensibile, qualcosa è certamente rimasto qui, su questi fogli che lei stessa ha toccato: l’impronta digitale, la saliva disseccata sul retro di una busta; e questa persistenza, sempre più fragile di giorno in giorno eppure tale che ancora possiamo, a nostro turno e in qualche modo, partecipare di quello stesso corpo sensibile, è il nostro patrimonio comune, la verificazione che abbiamo vissuto, più di quanto non lo sia alcun pensiero, alcuna idea”.

La citazione è lunga, ma necessaria. Spiega il senso del romanzo, la compartecipazione della vita di ieri a quella di oggi, la simbiosi, anzi, del passato nel presente: ciò che resta, il particolare insignificante, di quella vita estinta, è quanto resta per noi, dentro di noi, perché lo vediamo, lo tocchiamo, lo leggiamo: “è il nostro patrimonio comune, la verificazione che abbiamo vissuto”. Qui il fotografo e lo scrittore si associano in un unico sguardo, lo sguardo dello scrittore è anche lo sguardo della fotografia, la parola si fa segno di qualcosa che non c’è più, come la fotografia coglie la vita, l’attimo di vita, e lo blocca, ma nel bloccarlo ci mostra anche la sua attuale inesistenza. “Quelle foto non ci dicono chi fosse Marie de Régnier, ci dicono che cos’è la fotografia”. Sono “l’incorruttibile splendore dell’istante”.

Pagina dietro pagina Colombo ricostruisce l’incontro, la seduzione, l’attrazione dei due amanti, la complicità del marito, Henri de Régnier, grande poeta parnassiano, che esalta nel cesello dei suoi alessandrini la distanza da una realtà che potrebbe offenderlo, ma che invece, più semplicemente, lo esclude. E di questa esclusione, o forse alterità, Régnier fa la propria cifra poetica. A mano a mano che ci si avventura nel vortice di queste partecipatissime pagine, che però non perdono mai il controllo dello stile, della proprietà lessicale e grammaticale (finalmente uno scrittore che non cede alla vulgata di segnare la mezz’ora con “mezza”, le otto e mezza, ma scrive, correttamente, le otto e mezzo), si scopre il filo che unisce la storia evocata all’evocazione scritta e la scrittura all’esperienza individuale di chi scrive, ricordi, ossessioni, fissazioni, in un perpetuo gioco di specchi, ma un gioco furioso, incandescente, che tocca nodi vitali, li sollecita, li spezza, li martirizza. Sorprendentemente il romanzo si conclude con il racconto della morte del padre. Ma non di Marie e nemmeno di Pierre o di Henri. Del padre dello scrittore, che in quel punto cessa, sembra, di essere scrittore, e diventa un testimonio del proprio dolore, del dolore del distacco, della disperazione di una irreversibile assenza.

Poi mio padre morì, all’inizio dell’autunno. Per anni io non riuscii ad aprire di nuovo quelle fotografie, ne avevo paura. La parte razionale di me tentava, e tanta ancora, di riassorbire l’evento della morte nel cerchio naturale della vita, si convinceva che ‘era meglio così’, che era uscito dalla stretta della sofferenza; ma in quelle foto non c’era la mia parte razionale: per niente. C’era tutta la passione dell’essere un padre e un figlio: conoscevo la letteratura greca, e lì la passione è un’ascia folgorante, brandita insieme dalle mani di morte, amore e carità”.

Riandate alla pagina citata sopra. E’ lo stesso scrittore che parla. E parla della stessa cosa. Dell’inafferabilità della vita, la vita ci sfugge, non possiamo prenderla mentre viviamo, ma la possiamo cogliere solo nell’illuminazione di un istante, di un’immagine, anzi, fermata nell’istante, ma non nel ricordo, bensì nell’esperienza che di quell’istante l’immagine ci restituisce.

C’è naturalmente molto altro, in questo bel romanzo, un romanzo anomalo – per fortuna – nel panorama abbastanza piatto, salvo eccezioni, della letteratura italiana di oggi. Anomalo proprio per la sua libertà strutturale di apparente divagazione, di avanti e indietro nel tempo tra vicende narrate e ricerca delle vicende da narrare, tra l’obiettività del racconto e l’individualità della scrittura. Insomma, un lavoro complesso, capillare, che si permette anche divagazioni “meste” su certo provincialismo persistente nella cultura italiana, che disconosce quasi sempre le figure italiane che escono dal coro, che assomigliano di più alle figure europee e poco o molto poco alla maggior parte delle figure italiane. Tra queste, per esempio, Ugo Ojetti. Amico, tra l’altro, di Henri e Marie de Régnier. Ma fermiamoci qui. Lasciamo al lettore di scoprire i labirinti dentro cui ci trascina la scrittura di Colombo. Spero, per il lettore, lieto di esservi stato trascinato.

Fiano Romano, 24 luglio 2018
1Marie de Régnier.

lunedì 23 luglio 2018

Edizioni AIORA, una collana di libri greci moderni con traduzione francese a fronte






A volte non sei tu a cercare un libro, ma è il libro che ti viene incontro, si fa vedere e sembra dirti: prendimi! Camminavo sul molo del porto di Katápola, nell’isola di Amorgós (in italiano, Amorgo), la più orientale delle Cicladi, dove mi reco ogni anno e ritrovo luoghi, amici, il mare color del vino, il cielo limpido dell’Egeo, le nuvole spazzate via dalla violenza dei vento Etesio, che oggi, con termine turco, anche in greco si chiama meltemi. Prima della banchina alla quale attraccano le grandi navi (la piccola Skopelitis che fa il giro ogni giorno delle Mikrés Kikládes, cioè le Piccole Cicladi: Iraklia, Kufonissi, Skinussa, attracca in un altro punto, più stretto, del molo) c’è un vivolo che va verso l’interno del villaggio, e quasi alla fine, sulla destra, c’è una libreria, che vende libri in diverse lingue, anche in italiano, e cd e vari oggetti.

Fui colpito da alcuni libri, coloratissimi, esposti nella vetrina, il titolo in francese. Ma sono tutti libri di poeti e di scrittori greci moderni. La casa editrice, ateniese, da qualche anno fa opera di diffusione dei più importanti scrittori greci moderni e anche viventi pubblicando i loro testi in greco con la traduzione francese a fronte. Si chiama ΑΙΩΡΑ, AIORA, e questo è il suo sito: www.aiora,gr. Il catalogo è già molto nutrito. La sede si trova ad Atene, non lontano dal Museo Archeologico, in Mavromichali 11. Con la metropolitana si scende a Panepistemiou, Università. L’ultimo pubblicato, in prima vista, è Le chaudron calciné, la pentola calcinata, in greco Καπνισμένο Τσουκάλι, di Yannis Ritsos (Γιάννης Ρίτσος). Una poesia bellissima e terribile sul confino e sulla prigionia. Ritsos fu infatti confinato nell’isola di Limnos. Oppositore ostinato di ogni governo conservatore e in particolare di quello dei colonnelli. Il poemetto è seguito da altre poesie, una più intensa dell’altra. Linguaggio scarno, tutto cose, tutto oggetti.

Quando verrà la primavera – disse – al levarsi del sole, all’ora
in cui passano fuori sulla strada
i mercanti di frutta, alzatisi all’alba, allora – ricordalo! -
il latte diventerà verde; verde metà del mento della donna;
verdi le doppie tende: solo il rintocco
che viene dal grande orologio della chiesa sarà rosso.
(Traduzione mia)



Due anni fa, nel 2016, è uscito uno strano libro, un taccuino, finora inedito, dell’immenso poeta Kavafis. Quest’edizione, in cui Samuel Baud-Bovy e Bertrand Bouvier traducono in francese il testo greco è la prima pubblicata in altra lingua che non sia il greco. E’ una raccolta affascinante di 27 piccole prose, che si rifanno al modello dei fusées baudelairiani. Baudelaire intitolò quelle prose Mon coeur mis à nu, Kavafis, più modestamente, le intitola Note di poetica e di morale, nella traduzione francese il titolo del libro è Notes de poétique et de morale. Il taccuino, Kavafis se lo portava sempre dietro e lo ha lasciato manoscritto. Per chi conosca il neogreco, è un esempio mirabile di prosa moderna, scarna, raffinatissima. Eccone due, brevissime, in ordine la III e la VII (sempre mia la traduzione).

Verità e menzogna esistono? O non esiste che il Nuovo e il Vecchio? La menzogna non è semplicemente la vecchiaia della Verità?”

Io non so se la perversione dà forza. Talora lo penso. In ogni caso è una sorgente di grandezza”.

Ecco l’attacco di una “nota” (in greco Σημειώματα) più lunga, la IV:

Sono spesso colpito dalla scarsa importanza che la gente attribuisce al potere delle parole. Pensano per lo più che le parole non possano cambiare niente. E’ un grave errore. … Sono timido, ma io non considero affatto che le mie parole siano inutili. Un altro agirà. Ma tutte le dichiarazioni che io faccio, io, il timido, gli faciliteranno l’azione. Preparano il terreno”.

Mi sembrano parole di una grande attualità.



E veniamo al libro che mi ha più colpito. E’ il discorso che Yorgos Seferis tenne a Stoccolma nel 1963, quando gli fu conferito il Premio Nobel. Il discorso fu tenuto in francese. Titolo: Quelques points de la tradition grecque moderne. E’ una splendida carrellata sulla letteratura greca moderna. Il libro è stato pubblicato nel 2016, con la traduzione greca a fronte, di G.P. Savidis. Ecco la conclusione del discorso (testo francese e traduzione, mia, in italiano):

Dans ce monde qui va en se rétrécissant, chacun de nous a besoin de tous les autres. Nous devons chercher l’homme, partout où il se trouve. Quand, sur le chemin de Thèbes, Œdipe rencontra le Sphinx qui lui posa son énigme sa réponse fut : l’homme. Ce simple mot détruisit le monstre. Nous avons beaucoup de monstres à détruire. Pensons à la réponse d’Œdipe.

In questo mondo che si va restringendo, ciasucno di noi ha bisogno di tutti gli altri. Noi dobbiamo cercare l’uomo, dovunque si trovi. Quando, sul cammino di Tebe, Edipo incontrò la Sfinge che gli sottopose il suo enigma la sua risposta fu: l’uomo. Questa semplice parola distrusse il mostro. Noi abbiamo molti mostri da distruggere. Pensiamo alla risposta di Edipo.

Queste mie note, sorta di kavafiane σημειώματα, vogliono solo essere un suggerimento a frequentare queste edizioni, a leggere questi poeti e questi scrittori. Ne suggerisco almeno altri due (autori e titoli sono in francese, all’interno il testo greco): Constantin Theotokis, Le Peintre d’Aphrodite, reinvenzione della figura del pittore antico Apelle, e interrogazione sul rapporto tra arte e verità. E Michali Karagatsis, La grande chimère, una Madame Bovary “à la grecque”. In italiano di Karagatsis si trova Il colonnello Liapkine, edizioni ETP.

venerdì 13 luglio 2018

CORTI CIRCUITI CRITICI


CORTI CIRCUITI CRITICI


CORTI CIRCUITI MUSICALI

Con Beethoven possono diventare epidemici. Perché per chi non si sofferma al piacere dell'ascolto, ma vuole capire com'è fatta la musica che gli desta tanto piacere, Beethoven è un pozzo senza fondo. In quello che fa c'è sempre una logica costruttiva, stavo per scrivere deduttiva, e non so se avrei sbagliato. Gli scherzi, poi, della Terza Sinfonia e della Settima, si fondano su un contrasto ritmico estremo - nell'Eroica impostato già nel primo tempo - tra ritmo ternario e binario. Nella Settima c'è inoltre la contiguità con l'inimitabile, divino Allegretto. Insomma, voglio dire che uno alla fine è portato a pensare che Beethoven dall'op. 1 (stupendi trii) al quartetto op. 135 abbia composto un'unica interminabile partitura, interminabile perché continua a proliferare musica nella nostra testa. E continua, poi, di fatto, nelle teste dei successivi compositori, direi fino a Stockhausen (Klavierstücke), Boulez (Deuxième Sonate), Berio (Sinfonia). E forse anche oggi.
(La riflessione mi è nata dall’intervento di un amico, musicista, Alessandro Maria Carnelli, che scrive di avere fatto, appunto, un corto circuito tra i due scherzi)

COROLLARIO AI CORTI CIRCUITI MUSICALI

Ciascuno ha un proprio rapporto con l'arte. In genere si privilegia la ricezione, la reazione emotiva. Io, invece, preferisco collocarmi all'origine, al punto di partenza: cercare di capire ciò che ha fatto il compositore. Non perché sottovaluti il sentimento di chi ascolta, ma perché il sentimento stesso è immensamente accresciuto dalla comprensione di ciò che ha scritto il musicista. Si dimentica troppo spesso che la composizione è prima di tutto un atto dell'intelligenza. Ravel si arrabbiava quando gli parlavano del sentimento della sua musica. Rispondeva che la musica si scrive con il cervello.

COROLLARIO LETTERARIO AI CORTI CIRCUITI MUSICALI

Anche gli scrittori, i poeti costruiscono le loro pagine. Non le scrivono come vengono o come detta il cuore. Il cuore non ha quasi mai un peso immediato – vale a dire, senza mediazioni - in letteratura. Certi, tutti vivono emozioni. Anche gli scrittori. Ma quando scrivono, le emozioni diventano materia, oggetto della scrittura, e non il soggetto che le esprime. E allora, perché non entrare nel laboratorio di uno scrittore? Tre soli esempi. Due danteschi, e uno leopardiano. Con una conclusione a sorpresa.
In un bellissimo capitolo della Vita Nuova, che è già quasi un saggio sulla scrittura poetica (ma tutta la Vita Nuova è insieme un romanzo d’amore e un saggio su come si scrive un romanzo d’amore), Dante racconta di avere avuto, dopo lunga riflessione su come rivolgersi alla donna amata, l’intuizione di un verso: “Donne che avete intelletto d’amore”. Sta passeggiando nei dintorni di Firenze e decide di serbare la memoria di quel verso. Per elaborarne e dedurne una canzone, una volta tornato a casa. Intanto è straordinario il racconto di come gli si presenta l’intuizione del verso: “e mi venne una voluntade di volere dire” (cito a mente) e “la bocca parlò come per sé stessa mossa, e dissi: donne che avete intelletto d’amore”. Il verso è notevole per più motivi, ma particolarmente per due, uno metrico, l’altro concettuale. E’ un endecasillabo accentato sulla prima, quarta, settima e decima sillaba. Accentazione non molto frequente, soprattutto all’inizio di una canzone. Più regolare sarebbe stato un accento sulla sesta e poi ottava sillaba. Ma l’insolita accentazione, che però deriva dal fatto di avere costruito l’endecasillabo come l’unione di un quinario con un settenario, fa partire la canzone con un ritmo nuovo, forte, marcato, che richiama subito l’attenzione dell’ascoltatore (la lettura della poesia all’epoca di Dante era a voce alta, spesso anzi la poesia si cantava, oggi diremmo canzone di cantautore, la lettura mentale è posteriore e arretrala a Dante è un anacronismo). Ma, guarda caso, l’accento insolito cade proprio sulla parola “intelletto”. Dante attribuisce alle donne non già il sentimento, l’emozione dell’amore, ma l’intelletto, cioè la comprensione della sua natura, le donne conoscono la natura dell’amore più degli uomini. Ed è su questa conoscenza, non già sul sentimento, che Dante costruisce tutta la canzone. Qualsiasi lettura o interpretazione sentimentale, romantica, dunque, della bellissima, stupenda canzone sarebbe fuorviante. Anche perché in quasi tutta la poesia di Dante separare ciò ch’è ragionamento da ciò ch’è sentimento non ha nessun senso, la sua poesia nasce dalla perfetta condivisione di ragione e sentimento. Ma quanto detto finora è per dimostrare come Dante comunica il proprio pensiero poetico attraverso una calcolatissima costruzione metrica e retorica del verso.
 Veniamo alla metrica del secondo esempio dantesco.
“Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria”.
Da che cosa nasce l’intensità violenta di questi versi? E’ una dannata che parla, Francesca da Rimini. Ricordare e raccontare come cominciasse la sua storia d’amore, come Dante le chiede, è per lei un dolore quasi più grande della propria dannazione, perché proprio la dannazione le fa percepire che quell’inizio felice fu la causa della condanna. E come comunica a Dante Francesca questo inguaribile dolore? Con due meravigliosi  enjambements! “Dolore”, in fine di verso, continua nel verso seguente con “che ricordarsi”, e nello stesso verso “felice” si appoggia a “ne la miseria” del verso seguente. E notare che, a differenza del Tasso che lo prediligeva, l’enjambement non è un procedimento frequente in Dante, e perciò, quando c’è, risulta tanto più efficace. Anche qui, un’esperienza insolita è comunicata con una costruzione metrica poco frequente.  Si noti inoltre che le parole “dolore” e “felice” si trovano alla fine di versi contigui.
L’ultimo esempio è l’attacco di un Canto di Leopardi, L’ultimo canto di Saffo.
“Placida notte e verecondo raggio / della cadente luna”.
Saffo medita di suicidarsi gettandosi in mare da una rupe a strapiombo dell’isola di Leucade. E’ una leggenda. Saffo non si è mai suicidata, e Leopardi lo sa. Ma la leggenda gli serve, gli serve la “caduta” di Saffo nel mare e nella morte. E come attacca Leopardi il canto che immagina sulla bocca di Saffo prima di gettarsi? Con l’evocazione di una caduta. Della luna, tra le immagini costanti del pensiero e della poesia leopardiana. L’ultimo suo canto, incompiuto, s’intitola Il tramonto della luna. E alla luna si rivolge il pastore errante. Qui, a rappresentare nel ritmo del verso la caduta, Leopardi ricorre, anche lui, alla figura dell’enjambements.  Il raggio della luna, sospeso sulla fine del primo verso, cade all’inizio del secondo, la voce non si può fermare, deve proseguire, ma prolungandosi oltre la fine del verso fa sentire la cesura, la caduta: verecondo raggio / della cadente luna.
A me sembra che questo modo di leggere la poesia – come negli altri due post sui corti circuiti musicali – collocandosi non alla fine del percorso poetica, cioè sulla ricezione dell’ascoltatore o del lettore, ma all’inizio, quando la poesia nasce, si costruisce, nel laboratorio del poeta, renda molto più complessa e perfino più emozionante la lettura della poesia, che non il soffermarsi sulle emozioni che la lettura mi provoca. Emozioni legittime, ma insufficienti a penetrare, veramente, profondamente, nel mondo della poesia.
Chiudo con una citazione da Baudelaire, un sonetto, Recueillement, il cui attacco è tra i più belli che io conosca della poesia di tutti tempi:
“Sois sage, ô ma Douleur! Et tiens-toi plus tranquille”.
E’ un alessandrino. L’efficacia nasce dal perfetto equilibrio ritmico dei due emistichi, entrambi d’andamento giambico. Ma questo equilibrio conosce all’inizio una lacerazione, una ferita: être sage, nella lingua parlata (stupendo questo contaminare il livello alto con quello basso in Baudelaire – come in Dante! E lo sapeva), significa stare buono, non fare casino. Ma Baudelaire gioca anche con il significato alto dell’attributo sage, saggio. In italiano è impossibile tradurre la convivenza dei due livelli. Ma è ciò che fa Baudelaire, facendo esplodere un ossimoro sublime: come fa il dolore a essere “saggio”? Subito, però, abbassa il tono – gli è bastato il grido di quel “ô ma Douleur!”,  e dice: resta un po’ più calmo, non agitarti, tiens-toi plus tranquille.
Ecco come lavorano i poeti. E ora chiedo: perché sopravvalutare le nostre emozioni e non mostrarsi invece più umili, indagare, chiedersi, come abbia lavorato il poeta? In una parola: dare credito alla sua emozione più che alla nostra. Ma quella, la sua, potremo capirla veramente solo sforzandoci di studiare, e capire, con che lavoro il poeta l’abbia rielaborata, espressa, e ce l’abbia così comunicata. Insomma, non siamo così importanti, e soprattutto non sono così importanti le nostre emozioni, per valutare davvero il lavoro di un poeta. Schumann, in un bellissimo, aforisma scrive: “Il filisteo vuole capire in un attimo ciò che all’artista è costato mesi, forse anni di lavoro”. E in un altro: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di più importante da fare che piacere alla gente”. Riflettiamoci. Smettiamola di considerare il nostro ombelico il centro del mondo. E le nostre emozioni un metro di giudizio esclusivo, inconfutabile.
Tholaria, Amorgós, Cicladi, Grecia, 13 luglio

martedì 10 luglio 2018

Razionalità e irrazionalità dell'arte



Una riflessione sulla razionalità e l’irrazionalità, l’emozione e il pensiero nell’arte
C’è l’idea diffusa, soprattutto in Italia, che l’arte sia “espressione del sentimento”. E perciò sarebbe opposta a una considerazione razionale della realtà, e anzi un‘eccesiva cura razionalistica del particolare la sminuirebbe, la distruggerebbe. L’idea nasce nel romanticismo, nel cui ambito, però, la sua elaborazione è assai più complessa e contraddittoria. E’ un’idea che in fondo innerva  la stessa estetica crociana, la quale individuando nell’arte il campo dell’espressione, sembrerebbe autorizzarne la verità. Lo stesso Croce, del resto, si mostra spesso ostile a impostazioni che gli sembrino speciosamente razionalistiche, pure superfetazioni della struttura di un’opera, che oscurerebbero o addirittura annullerebbero la forza poetica dell’espressione. E’ una concezione non solo chiaramente romantica, anzi direi una concezione restrittivamente epigonle del romanticismo, un’idea psicologica dell’arte, poco attenta alla sua costruzione formale, che anzi degrada la struttura dell’opera a inerte sostegno della sua parte viva, della sua poesia. C’è, in questa concezione dell’arte,  un fondo non troppo celato di accademismo letterario, di nostalgia per il bel mondo armonioso di un’ideale Arcadia. Si spiegano così le brutali stroncature di Pirandello, la ridicolizzazione della poesia di Pascoli e il rigetto, risentito, di Mallarmé. al quale è addirittura negato il dono della poesia. Per non parlare della scomposta “confutazione” del pensiero leopardiano, liquidato come sfogo di un adolescente immaturo.
La realtà dell’arte è invece qualcosa di molto più complesso, in cui distinguere ciò che è emozione da ciò che è razionalità non ha nessun senso, la distinzione anzi rischia di far fraintendere il vero senso di un’opera. E di fatto, per esempio, Croce fraintende totalmente il significato della Divina Commedia quando condanna la sua struttura teologica e narrativa come supporto inerte dal quale affiorano i momenti di poesia. Con una mancanza di gusto per lui insolita, ricorre perfino a un macabro esempio: la struttura della Commedia sarebbe come uno scheletro sul quale siano rimasti attaccati pochi pezzi di carne, la poesia. Il suo saggio su Dante è tra i saggi più irritanti e sbagliati che abbia scritto: dimostra una totale incapacità di cogliere la fitta relazione tra la concezione teologica del poema e la vita poetica dei singoli personaggi. Complessità perfettamente colta, invece, dai saggi di un Auerbach e dalle riflessioni di un poeta come Thomas S. Eliot. Al racconto di Francesca Dante si commuove non solo perché ascolta una commovente e tragica storia d’amore, ma perché a narrarla quella storia è una dannata, e la dannata gli parla con il linguaggio dello Stil Novo (Amor che a cor gentil ratto s’apprende). Ora la nuova, e rivoluzionaria, concezione dantesca dello Stil Novo prevedeva che l’amore fosse via di salvezza (salute), non di dannazione. Francesca gli toglie la terra da sotto i piedi. La “selva oscura” in cui il poeta si è perduto – alla lettera, sul punto di dannarsi – nasce da un terribile equivoco, proprio all’inizio del viaggio. Che l’angelo “venuto in terra a miracol mostrare” possa in realtà essere una maschera che nasconde la faccia del demonio.  E sviene, cade a terra come corpo morto. Poiché nessuna parola nella Commedia è usata a caso, corpo morto significa alla lettera il cadavere, il morto, ciò che Dante ha rischiato di diventare, per unirsi nel vortice della “tempesta infernal che mai non resta”. E come l’episodio di Francesca vanno letti tutti gli episodi del poema. La struttura, dunque, non solo non è scheletro inerte della poesia, ma innerva ogni recondito senso di questa poesia. Potremmo fare discorso simile per il Faust goethiano. Anzi Goethe c’incoraggia a leggere nelle parti esplicative, teoriche, dei suoi romanzi, il senso profondo che agita la vita dei personaggi. Capiremmo la disperazione di Werther se non ci fosse spiegato passo passo il suo disorientamento per qualunque interpretazione della realtà? Anzhe qui, la catastrofe non è provocata da un’infelice vicenda d’amore, ma dalla perdita di senso di tutta la realtà. L’amore è solo il detonatore che denuda questa rivelazione. Così come nelle Affinità elettive il processo chimico degli elementi non è solo una metafora del processo dei sentimenti umani, ma la radice da cui nascono gli stessi sentimenti umani, chimica e processo psicologico sono due aspetti di un’unica realtà, ch’ il mondo in cui viviamo, la sostanza spinoziana, in cui non si può distinguere il pensiero dalla materia. Spirito e materia sono facce della stessa, unica realtà, che non prevede l’immortalità dell’anima, né un Dio, dato che essa stessa è il Tutto. La Chiesa Cattolica colse bene il senso del romanzo, e lo mise subito all’indice.
Ma ritorniamo al sentimento nell’arte. Esso è solo la materia dell’opera, l’oggetto sul quale l’artista costruisce la struttura, la forma definitiva della pagina, del quadro, della musica. Ma non è il solo punto di sostegno. La moderna neurobiologia ha finalmente dimostrato che le regioni dell’emozione e della razionalità sono contigue e comunicanti, il cattivo funzionamento di una regione fa funzionare male anche l’altra. Ragione e sentimento sono dunque interdipendenti. Talune opera sembrano la realizzazione, la dimostrazione di questo fatto. Per esempio l’Adorazione dell’Agnello Mistico di Jan van Eyck che si ammira in una cappella del Duomo di Gand, San Bavone. La concezione dell’opera è complessa, di fatto è una sintesi della storia della Redenzione, dal Peccato originale alla venuta del Redentore. E alla nostra storia di oggi. Al centro l’Agnello. Da una arte e dall’altra, l’antico e il nuovo testamento. E poi le altre tavole del polittico che completano ogni momento della Storia Universale dell’Uomo. Da Adamo ed Eva ai committenti delle tavole. Va bene, si potrebbe dire, ma qui la concezione teologica è esplicita. E’ ugualmente esplicita in altre opere una concezione astratta, di puro pensiero, che sorregga la rappresentazione? Be’, potrei citare due quadri del Rinascimento italiano. L’Allegoria di Giovanni Bellini e La tempesta di Giorgione. Posso godere della bellezza della rappresentazione, senza capirne il significato? Certamente sì, perché i due quadri sono di una bellezza sovrana. Il godimento, il superficiale godimento della pura visione è perciò assicurato. Ma è un piacere che resta alla superficie della rappresentazione. Non s’interroga sulle motivazioni che hanno spinto il pittore a dipingere quella rappresentazione, sul sentimento, sì, il sentimento, che ha acceso la fantasia e l’intelligenza dell’artista, risvegliato i suoi ricordi culturali, spinto la sua mente a chiarirsi quale fosse il modo più adatto per realizzare una così complessa intuizione pittorica.
Per concludere: l’opera d’arte non è solo un passatempo che debba divagarci, una sorta di giocattolo sessuale che debba scaricare le nostre riserve di adrenalina. E’ anche questo, non si scandalizzino i moralisti. Ma è anche molto di più. E’ la rappresentazione delle nostre domande più profonde, delle nostre interrogazioni senza risposta. L’artista, nemmeno lui, ha risposte. Ma ha la capacità, che noi non sempre abbiamo, di formulare con correttezza la domanda, l’interrogazione, di rappresentarcela con tale evidenza da farcela sembrare nostra.  Ma è nostra, e perciò ci commuoviamo, vi ci riconosciamo. La catarsi di cui parla Aristotele non è chi sa quale misterioso processo di purificazione, ma appunto questo riconoscimento dell’ineluttabilità della domanda. E perciò è universale, perché universale non è la rappresentazione ma la domanda che la rappresentazione ci sbatte sotto gli occhi. Quando Edipo, nell’ultima sublime tragedia di Sofocle, l’Edipo a Colono, si chiede: perché io? E tutta la sua vita gli passa davanti, l’assassinio del padre, l’incesto, l’accecamento, colpe di cui sa di essere innocente, perché ignorava che l’assassinato fosse suo padre, la donna concupita sua madre, e l’accecamento una punizione, ma lui che non sapeva, che non voleva, ha commesso quegli atti, perché lui? Sofocle lascia la domanda senza risposta. Edipo s’inoltra nel boschetto delle Eumenidi, seguito da Teseo, e muore. Ma nemmeno Teseo può dire ciò che ha visto, ciò che è accaduto. Lo spettatore, però, sa una cosa. Edipo non ci parla del suo destino, della sua morte, ma del destino, della morte di ciascuno. Perché uno nasce da famiglia ricca e un altro da famiglia povera,  uno a Roma e l’altro a Pechino? Chi siamo, dove andiamo, chi ci governa, e ci governa qualcuno, un dio, il destino, il caso, o che cosa? Vi sembrano queste domande sentimentali, interrogazioni suscitate da un’emozione? O non sono piuttosto le domande che si è posta, fin dall’inizio, anche la filosofia? Aristotele scrive che per natura l’uomo vuole conoscere. Anche l’inconoscibile, anche ciò che non ha risposta. Ed è questo inconoscibile, questo garbuglio di domande senza risposta che l’arte ci rappresenta e ci fa riconoscere e che perciò noi, riconoscendolo, ci commuoviamo. Ma guai a separare la commozione dal pensiero che l’ha suscitata, sono strettamente collegate. L’arte, anzi, è il cortocircuito che si accende quando il pensiero e l’emozione s’incontrano e fissano lo stesso punto, sempre lo stesso: chi sono?
Tholaria, Amorgós, Cicladi, Grecia, 11 luglio 2018.