venerdì 13 luglio 2018

CORTI CIRCUITI CRITICI


CORTI CIRCUITI CRITICI


CORTI CIRCUITI MUSICALI

Con Beethoven possono diventare epidemici. Perché per chi non si sofferma al piacere dell'ascolto, ma vuole capire com'è fatta la musica che gli desta tanto piacere, Beethoven è un pozzo senza fondo. In quello che fa c'è sempre una logica costruttiva, stavo per scrivere deduttiva, e non so se avrei sbagliato. Gli scherzi, poi, della Terza Sinfonia e della Settima, si fondano su un contrasto ritmico estremo - nell'Eroica impostato già nel primo tempo - tra ritmo ternario e binario. Nella Settima c'è inoltre la contiguità con l'inimitabile, divino Allegretto. Insomma, voglio dire che uno alla fine è portato a pensare che Beethoven dall'op. 1 (stupendi trii) al quartetto op. 135 abbia composto un'unica interminabile partitura, interminabile perché continua a proliferare musica nella nostra testa. E continua, poi, di fatto, nelle teste dei successivi compositori, direi fino a Stockhausen (Klavierstücke), Boulez (Deuxième Sonate), Berio (Sinfonia). E forse anche oggi.
(La riflessione mi è nata dall’intervento di un amico, musicista, Alessandro Maria Carnelli, che scrive di avere fatto, appunto, un corto circuito tra i due scherzi)

COROLLARIO AI CORTI CIRCUITI MUSICALI

Ciascuno ha un proprio rapporto con l'arte. In genere si privilegia la ricezione, la reazione emotiva. Io, invece, preferisco collocarmi all'origine, al punto di partenza: cercare di capire ciò che ha fatto il compositore. Non perché sottovaluti il sentimento di chi ascolta, ma perché il sentimento stesso è immensamente accresciuto dalla comprensione di ciò che ha scritto il musicista. Si dimentica troppo spesso che la composizione è prima di tutto un atto dell'intelligenza. Ravel si arrabbiava quando gli parlavano del sentimento della sua musica. Rispondeva che la musica si scrive con il cervello.

COROLLARIO LETTERARIO AI CORTI CIRCUITI MUSICALI

Anche gli scrittori, i poeti costruiscono le loro pagine. Non le scrivono come vengono o come detta il cuore. Il cuore non ha quasi mai un peso immediato – vale a dire, senza mediazioni - in letteratura. Certi, tutti vivono emozioni. Anche gli scrittori. Ma quando scrivono, le emozioni diventano materia, oggetto della scrittura, e non il soggetto che le esprime. E allora, perché non entrare nel laboratorio di uno scrittore? Tre soli esempi. Due danteschi, e uno leopardiano. Con una conclusione a sorpresa.
In un bellissimo capitolo della Vita Nuova, che è già quasi un saggio sulla scrittura poetica (ma tutta la Vita Nuova è insieme un romanzo d’amore e un saggio su come si scrive un romanzo d’amore), Dante racconta di avere avuto, dopo lunga riflessione su come rivolgersi alla donna amata, l’intuizione di un verso: “Donne che avete intelletto d’amore”. Sta passeggiando nei dintorni di Firenze e decide di serbare la memoria di quel verso. Per elaborarne e dedurne una canzone, una volta tornato a casa. Intanto è straordinario il racconto di come gli si presenta l’intuizione del verso: “e mi venne una voluntade di volere dire” (cito a mente) e “la bocca parlò come per sé stessa mossa, e dissi: donne che avete intelletto d’amore”. Il verso è notevole per più motivi, ma particolarmente per due, uno metrico, l’altro concettuale. E’ un endecasillabo accentato sulla prima, quarta, settima e decima sillaba. Accentazione non molto frequente, soprattutto all’inizio di una canzone. Più regolare sarebbe stato un accento sulla sesta e poi ottava sillaba. Ma l’insolita accentazione, che però deriva dal fatto di avere costruito l’endecasillabo come l’unione di un quinario con un settenario, fa partire la canzone con un ritmo nuovo, forte, marcato, che richiama subito l’attenzione dell’ascoltatore (la lettura della poesia all’epoca di Dante era a voce alta, spesso anzi la poesia si cantava, oggi diremmo canzone di cantautore, la lettura mentale è posteriore e arretrala a Dante è un anacronismo). Ma, guarda caso, l’accento insolito cade proprio sulla parola “intelletto”. Dante attribuisce alle donne non già il sentimento, l’emozione dell’amore, ma l’intelletto, cioè la comprensione della sua natura, le donne conoscono la natura dell’amore più degli uomini. Ed è su questa conoscenza, non già sul sentimento, che Dante costruisce tutta la canzone. Qualsiasi lettura o interpretazione sentimentale, romantica, dunque, della bellissima, stupenda canzone sarebbe fuorviante. Anche perché in quasi tutta la poesia di Dante separare ciò ch’è ragionamento da ciò ch’è sentimento non ha nessun senso, la sua poesia nasce dalla perfetta condivisione di ragione e sentimento. Ma quanto detto finora è per dimostrare come Dante comunica il proprio pensiero poetico attraverso una calcolatissima costruzione metrica e retorica del verso.
 Veniamo alla metrica del secondo esempio dantesco.
“Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria”.
Da che cosa nasce l’intensità violenta di questi versi? E’ una dannata che parla, Francesca da Rimini. Ricordare e raccontare come cominciasse la sua storia d’amore, come Dante le chiede, è per lei un dolore quasi più grande della propria dannazione, perché proprio la dannazione le fa percepire che quell’inizio felice fu la causa della condanna. E come comunica a Dante Francesca questo inguaribile dolore? Con due meravigliosi  enjambements! “Dolore”, in fine di verso, continua nel verso seguente con “che ricordarsi”, e nello stesso verso “felice” si appoggia a “ne la miseria” del verso seguente. E notare che, a differenza del Tasso che lo prediligeva, l’enjambement non è un procedimento frequente in Dante, e perciò, quando c’è, risulta tanto più efficace. Anche qui, un’esperienza insolita è comunicata con una costruzione metrica poco frequente.  Si noti inoltre che le parole “dolore” e “felice” si trovano alla fine di versi contigui.
L’ultimo esempio è l’attacco di un Canto di Leopardi, L’ultimo canto di Saffo.
“Placida notte e verecondo raggio / della cadente luna”.
Saffo medita di suicidarsi gettandosi in mare da una rupe a strapiombo dell’isola di Leucade. E’ una leggenda. Saffo non si è mai suicidata, e Leopardi lo sa. Ma la leggenda gli serve, gli serve la “caduta” di Saffo nel mare e nella morte. E come attacca Leopardi il canto che immagina sulla bocca di Saffo prima di gettarsi? Con l’evocazione di una caduta. Della luna, tra le immagini costanti del pensiero e della poesia leopardiana. L’ultimo suo canto, incompiuto, s’intitola Il tramonto della luna. E alla luna si rivolge il pastore errante. Qui, a rappresentare nel ritmo del verso la caduta, Leopardi ricorre, anche lui, alla figura dell’enjambements.  Il raggio della luna, sospeso sulla fine del primo verso, cade all’inizio del secondo, la voce non si può fermare, deve proseguire, ma prolungandosi oltre la fine del verso fa sentire la cesura, la caduta: verecondo raggio / della cadente luna.
A me sembra che questo modo di leggere la poesia – come negli altri due post sui corti circuiti musicali – collocandosi non alla fine del percorso poetica, cioè sulla ricezione dell’ascoltatore o del lettore, ma all’inizio, quando la poesia nasce, si costruisce, nel laboratorio del poeta, renda molto più complessa e perfino più emozionante la lettura della poesia, che non il soffermarsi sulle emozioni che la lettura mi provoca. Emozioni legittime, ma insufficienti a penetrare, veramente, profondamente, nel mondo della poesia.
Chiudo con una citazione da Baudelaire, un sonetto, Recueillement, il cui attacco è tra i più belli che io conosca della poesia di tutti tempi:
“Sois sage, ô ma Douleur! Et tiens-toi plus tranquille”.
E’ un alessandrino. L’efficacia nasce dal perfetto equilibrio ritmico dei due emistichi, entrambi d’andamento giambico. Ma questo equilibrio conosce all’inizio una lacerazione, una ferita: être sage, nella lingua parlata (stupendo questo contaminare il livello alto con quello basso in Baudelaire – come in Dante! E lo sapeva), significa stare buono, non fare casino. Ma Baudelaire gioca anche con il significato alto dell’attributo sage, saggio. In italiano è impossibile tradurre la convivenza dei due livelli. Ma è ciò che fa Baudelaire, facendo esplodere un ossimoro sublime: come fa il dolore a essere “saggio”? Subito, però, abbassa il tono – gli è bastato il grido di quel “ô ma Douleur!”,  e dice: resta un po’ più calmo, non agitarti, tiens-toi plus tranquille.
Ecco come lavorano i poeti. E ora chiedo: perché sopravvalutare le nostre emozioni e non mostrarsi invece più umili, indagare, chiedersi, come abbia lavorato il poeta? In una parola: dare credito alla sua emozione più che alla nostra. Ma quella, la sua, potremo capirla veramente solo sforzandoci di studiare, e capire, con che lavoro il poeta l’abbia rielaborata, espressa, e ce l’abbia così comunicata. Insomma, non siamo così importanti, e soprattutto non sono così importanti le nostre emozioni, per valutare davvero il lavoro di un poeta. Schumann, in un bellissimo, aforisma scrive: “Il filisteo vuole capire in un attimo ciò che all’artista è costato mesi, forse anni di lavoro”. E in un altro: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di più importante da fare che piacere alla gente”. Riflettiamoci. Smettiamola di considerare il nostro ombelico il centro del mondo. E le nostre emozioni un metro di giudizio esclusivo, inconfutabile.
Tholaria, Amorgós, Cicladi, Grecia, 13 luglio

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