martedì 24 luglio 2018

Francesco Maria Colombo, Il tuo sguardo nero







Francesco Maria Colombo, Il tuo sguardo nero, Milano, Ponte alle grazie, 2018, pp. 334, € 18,00

Giuseppe Scaraffia, sulla Domenica del Sole24Ore (22 luglio 2018, pag. 21, Belli, sfrenati e pieni di talento) critica la scelta di Francesco Maria Colombo di raccontare anche la nascita dell’idea, la ricerca, la costruzione e la scrittura del romanzo: “Colombo ha raccontato con passione e abilità questa fiaba moderna, peccato che abbia ceduto alla moda di inserire nella storia dei riferimenti alla sua vita privata, un’impresa ancora più ardua di una scena erotica”. Intanto, quale fiaba? La storia narrata non è una fiaba, ma un’esperienza profonda di vita. Ma perché, peccato? E quale “moda”?Colombo non è il primo ne sarà l’ultimo scrittore a mescolare i piani di una narrazione. In Spagna è appena uscito El dolor de los demás (Anagrama), terzo romanzo di Miguel Ángel Hernández Navarro, che sta salendo in testa a tutte le classifiche di lettura, nei paesi di lingua spagnola. Ne ho già scritto anche io, sia sul mio blog che sulle pagine degli Stati Generali. Chi vuole può andare a consultare quella mia recensione. Hernández racconta un omicidio, anzi un femminicidio, compiuto dal suo più caro amico d’infanzia e d’adolescenza venti anni prima. L’uccisa è la sorella dell’amico, forse anche la sua amante, oppure una sorella stuprata. Lo scrittore non si limita a ricostruire la vicenda, ma segue passo passo l’idea di scrivere un romanzo sul delitto dell’amico, un romanzo e non un ricordo autobiografico; l’autobiografia, se mai, è dello scrittore che scrive un romanzo, non dell’amico che rievoca il delitto di un amico. Su questo crinale ambiguo, sfuggente, pericoloso, il racconto procede entrando e uscendo dalla scrittura. Il pericolo non è tanto quello di cadere nell’autobiografia, quanto di scoprire la sfida che ogni scrittura lancia allo scrittore, quella del gioco tra verità e menzogna. Ma che cosa è verità, nel ricordo, e che cosa menzogna? E, ancora più profondamente, quanto è verità, rilevamento della verità in una ricostruzione e quanto invece soggettivo giudizio di verisimiglianza? Il tempo non c’entra in questa ricerca della verità? E quanto la ricostruzione di un fatto realmente accaduto può diventare, attraverso la scrittura, romanzo? Il grande poeta Costantino Kavafis, nelle sue postume Σημειώτατα ποιητικής και ηθικής (note di poetica e di morale, Atene, Aiora, 2016), sorta di mon coeur mis à nu d’un baudelairiano poeta greco moderno, scrive (traduco dal greco): “Verità e Menzogna esistono? O non esiste che il Nuovo e il Vecchio? La menzogna non è semplicemente la vecchiaia della verità?” (III, 16.09.1902). Siamo quasi all’epoca dei due amanti parigini raccontati da Colombo. Ora, questo entrare e uscire dalla propria vita, rappresentato dall’entrare e uscire dal laboratorio della scrittura, questo navigare, come Ulisse, sfiorando gli scogli delle Sirene, ma non lasciadosene distruggere perché legati, appunto, dall’atto di raccontare (Ulisse ai Feaci) o di scrivere (Colombo a sé stesso, prima che alla pagina, e dunque al lettore), non è l’essenza stessa del romanzo? E, in generale, della poesia? Ripeto, l’esperimento di Colombo non è nuovo. E’ nuovo il modo di scriverlo. Che forse potrà urtare chi del romanzo abbia un’idea più convenzionale di racconto stretto ai fatti che si narrano. Ma è per caso che Thomas Mann, accingendosi a narrare come sia nata in lui l’idea del Doktor Faustus e come sia proceduta la sua scrittura, non intitoli lo scritto Racconto di com’è nato il Doktor Faustus, ma Romanzo di un romanzo? E prima ancora, Laurence Sterne, quando scrive The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman, 1767, oppure A Sentimental Journey through France and Italy and Continuation of the Bramine's Journal, 1768, non esce, anche lui, fuori dal racconto e racconta come e perché racconti ciò che racconta? E prima ancora, l’immenso Cervantes, padre di ogni narratore moderno, non fa lo stesso? Se volessimo, potremmo indietreggiare perfino fino al Satyricon di Petronio. Ciò che distingue un vero scrittore da chi semplicemente scrive per intrattenere, è proprio la consapevolezza dell’atto della scrittura. Si potrebbe citare perfino la Divina Commedia (ma già prima, la Vita Nuova). Il personaggio Dante del viaggio non è affatto il Dante che scrive il viaggio del personaggio Dante. Ma non andiamo troppo oltre. E non misuriamoci con queste stratosferiche altezze, potremmo essere colti da vertigini. La grande letteratura, comunque, è sempre, anche, riflessione sulla letteratura. Scendiamo all’oggi, e torniamo al romanzo di Francesco Maria Colombo, Il tuo sguardo nero (Milano, Ponte alle grazie, 2018).

Questo è il suo primo romanzo. Ma Colombo non è solo uno scrittore (e, vedremo, uno scrittore notevole). E’ anche musicista, direttore d’orchestra. E’ stato critico musicale del Corriere della Sera, il più intelligente, competente, colto, raffinato, tra i pochissimi che in Italia meritino di essere chiamati critici musicali. Ma è anche fotografo. Anzi la fotografia è una sua grande passione. Che meraviglia dunque se si sia innamorato di uno scrittore che è anche fotografo (e fotografo pornografico!), Pierre Louÿs e della sua amante, Marie de Hérédia, poi Marie de Régnier, perché fotografata, nuda, dallo stesso suo amante e scrittore fotografo? Se in ogni racconto uno scrittore racconta più volte sé stesso, qui Colombo scopre le carte, e lo confessa: sto raccontando me stesso perché racconto Pierre Louÿs e Marie de Régnier, la Parigi dei simbolisti e dei parnassiani. Di Renoir e Fantin Latour. Di Debussy e Chausson. Tra l’altro, proprio a un ciclo, immaginato tradotto dal greco, di Pierre Louÿs, Chansons de Bilitis, Debussy ricorre per due diverse partiture, una di chansons, l’altra di divagazioni pianistiche che accompagnano la lettura del testo. Rende bene la cultura del tempo che il cognome fosse Louis, ma che a Pierre sembrasse banale, e pertanto lo riscrivesse Louÿs. Debussy non fu da meno. A scuola si faceva chiamare e si firmava De Bussy, vantando una noblesse inesistente. La simulazione crollò quando un compagno gli chiese: “Bussy? Non conosco questo feudo”. Si vendicò con una prodezza romana, quando fu pensionnaire a Villa Médicis. S’infatuò di un vaso cinese sbirciato nella vetrina di un antiquario di Via Condotti. Implorò i compagni del Prix de Rome, residenti nella Villa, di prestargli del denaro, adducendo che era rimasto a secco, e che aspettava soldi da Parigi. Glieli prestarono. Ma quando Debussy mostrò loro l’acquisto, in camera sua, vantandone la finezza, capirono tutto. Ma lo perdonarono, perché anche a loro l’arte cinese sembrava il massimo della raffinatezza. Anni dopo Debussy chiese a Durand di stampare una incisione di Hokusai, Kanagawa oki naki ura, nel vortice della grande onda di Kanagawa, sulla copertina della partitura degli “schizzi sinfonici” che intitolò La Mer.

Parigi nella seconda metà dell’Ottocento e nel Novecento fino alla prima guerra mondiale, è la capitale della Modernità nel mondo. Certo, anche Vienna, Berlino, Londra, e in tono minore Praga e Budapest, concorrono a costruire quella visione artistica che chiamiamo il moderno. Nella poesia, il primato francese è indiscusso. Da Baudelaire a Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, Valery e José-Marie de Hérédia e tutti i parnassiani, la poesia francese è il modello della nuova poesia in tutte le lingue del mondo. Com’era già accaduto cinque secoli prima che Petrarca fosse il modello di tutta la poesia europea, sia che lo si imitasse sia che lo si contrastasse (un po’ come accadrà, nella musica dell’Ottocento, per Wagner). In pittura gli impressionisti fondarono una nuova pittura, che dopo cinque secoli demoliva i principi costruttivi della pittura italiana come s’erano imposti al resto d’Europa dal Quattrocento in poi. Nel campo musicale non è diverso. Schoenberg avrà peso dopo la prima guerra mondiale, ma sempre in una cerchia ristretta: l’esplosione schoenberghiana, ma soprattutto di Webern, avverrà nel secondo dopoguerra. Fino agli anni ‘40 del Novecento, e anche oltre, il modello è la Francia. Mario Bortolotto vi ha dedicato un libro imprescindibile: Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale, Milano, Adelphi, 1992. Sarebbe del resto pensabile la musica di Puccini senza l’esempio, allora trionfante, di Massenet? Ecco: è questo il mondo a cui guarda Colombo, e di cui, a ragione, si è innamorato. Questo romanzo, infatti, è un atto d’amore.

Quando si tuffano le mani nel pozzo del passato, non per curiosità di biografi e ricercatori ma perché ogni cosa ritrovata, albero, palo, lampione. un’insegna di negozio in una foto di Arget, la traccia dell’inchiostro violetto che Pierre Louÿs ha depositato sullo stesso foglio di carta che è tra le nostre mani oggi, testifica il mistero della sua presenza su questa terra; allora le cose mute, con la tenacia della loro persistenza, sono infinitamente più espressive che non la cognizione dettagliata di una storia. Sono lì, nella loro stupida oggettività: le agendine di Maricotte1, con il minuscolo lapis che lei stessa usava e che ho tra le mie dita; le matrici dei suoi libretti degli assegni; gli appunti raccolti dal dottor Fleury, sindaco di Arcachondal 1977 al 1985 e primo biografo di Marie, presi sul ricettario medico e sullo spazio bianco di una rivista dove compare la pubblicità del Phosphalugel, da prendere da due a quattro volte al giorno contro i bruciori di stomaco, le foto di Fleury, di Goujon e di tutta la banda degli amici postumi di Pierre Louÿs, a un convegno su Jean de Tinan sabato 15 ottobre 1993 a Sauveterre-de-Béarn: dove saranno andati a pranzo? cosa c’era nel Menù? com’erano seduti a tavola? Come sarà stata vestita la cameriera? e perché mai dobbiamo assegnare una gerarchia alle cose che compongono la vita e scegliere che una dichiarazione di guerra sia più importante dello chignon della cameriera? perché mai, se tutto è vita, se tutto è quello che si è vissuto e nessuno saprà mai dirne il perché?; i loro vestiti, le pettinature, la forma del colletto, il fazzoletto nel taschino del dottor Fleury: dove sarà finito quel fazzoletto?; tutto ciò che compone l’immane, inesplicabile deposito di quel che è stato, l’enciclopedia di ciò che ha avuto un’esistenza o ha accompagnato le esistenze. Ed è questo che mi tocca e mi ferisce molto più delle narrazioni ben scritte. Per questo sono venuto all’Arsenal: non per cercare una verità nuova, ma per toccare la carta, per vedere coi miei occhi le lastre fotografiche. E per questo, davanti alla pagina dell’Écho de Paris dove leggo, finalmente, il codice H.M.L. e vedo la traccia sbavata del piombo, il carattere tipografico, la posizione nel menabò dello stesso annuncio che hanno letto gli “innumerevoli occhi” di Marie de Régnier, mi prende una vertigine. Di ciò ch’è stata la sua vita fisica, il mistero del passaggio di tutti noi dall’idea eterna, se mai una vi sia stata, al corpo sensibile, qualcosa è certamente rimasto qui, su questi fogli che lei stessa ha toccato: l’impronta digitale, la saliva disseccata sul retro di una busta; e questa persistenza, sempre più fragile di giorno in giorno eppure tale che ancora possiamo, a nostro turno e in qualche modo, partecipare di quello stesso corpo sensibile, è il nostro patrimonio comune, la verificazione che abbiamo vissuto, più di quanto non lo sia alcun pensiero, alcuna idea”.

La citazione è lunga, ma necessaria. Spiega il senso del romanzo, la compartecipazione della vita di ieri a quella di oggi, la simbiosi, anzi, del passato nel presente: ciò che resta, il particolare insignificante, di quella vita estinta, è quanto resta per noi, dentro di noi, perché lo vediamo, lo tocchiamo, lo leggiamo: “è il nostro patrimonio comune, la verificazione che abbiamo vissuto”. Qui il fotografo e lo scrittore si associano in un unico sguardo, lo sguardo dello scrittore è anche lo sguardo della fotografia, la parola si fa segno di qualcosa che non c’è più, come la fotografia coglie la vita, l’attimo di vita, e lo blocca, ma nel bloccarlo ci mostra anche la sua attuale inesistenza. “Quelle foto non ci dicono chi fosse Marie de Régnier, ci dicono che cos’è la fotografia”. Sono “l’incorruttibile splendore dell’istante”.

Pagina dietro pagina Colombo ricostruisce l’incontro, la seduzione, l’attrazione dei due amanti, la complicità del marito, Henri de Régnier, grande poeta parnassiano, che esalta nel cesello dei suoi alessandrini la distanza da una realtà che potrebbe offenderlo, ma che invece, più semplicemente, lo esclude. E di questa esclusione, o forse alterità, Régnier fa la propria cifra poetica. A mano a mano che ci si avventura nel vortice di queste partecipatissime pagine, che però non perdono mai il controllo dello stile, della proprietà lessicale e grammaticale (finalmente uno scrittore che non cede alla vulgata di segnare la mezz’ora con “mezza”, le otto e mezza, ma scrive, correttamente, le otto e mezzo), si scopre il filo che unisce la storia evocata all’evocazione scritta e la scrittura all’esperienza individuale di chi scrive, ricordi, ossessioni, fissazioni, in un perpetuo gioco di specchi, ma un gioco furioso, incandescente, che tocca nodi vitali, li sollecita, li spezza, li martirizza. Sorprendentemente il romanzo si conclude con il racconto della morte del padre. Ma non di Marie e nemmeno di Pierre o di Henri. Del padre dello scrittore, che in quel punto cessa, sembra, di essere scrittore, e diventa un testimonio del proprio dolore, del dolore del distacco, della disperazione di una irreversibile assenza.

Poi mio padre morì, all’inizio dell’autunno. Per anni io non riuscii ad aprire di nuovo quelle fotografie, ne avevo paura. La parte razionale di me tentava, e tanta ancora, di riassorbire l’evento della morte nel cerchio naturale della vita, si convinceva che ‘era meglio così’, che era uscito dalla stretta della sofferenza; ma in quelle foto non c’era la mia parte razionale: per niente. C’era tutta la passione dell’essere un padre e un figlio: conoscevo la letteratura greca, e lì la passione è un’ascia folgorante, brandita insieme dalle mani di morte, amore e carità”.

Riandate alla pagina citata sopra. E’ lo stesso scrittore che parla. E parla della stessa cosa. Dell’inafferabilità della vita, la vita ci sfugge, non possiamo prenderla mentre viviamo, ma la possiamo cogliere solo nell’illuminazione di un istante, di un’immagine, anzi, fermata nell’istante, ma non nel ricordo, bensì nell’esperienza che di quell’istante l’immagine ci restituisce.

C’è naturalmente molto altro, in questo bel romanzo, un romanzo anomalo – per fortuna – nel panorama abbastanza piatto, salvo eccezioni, della letteratura italiana di oggi. Anomalo proprio per la sua libertà strutturale di apparente divagazione, di avanti e indietro nel tempo tra vicende narrate e ricerca delle vicende da narrare, tra l’obiettività del racconto e l’individualità della scrittura. Insomma, un lavoro complesso, capillare, che si permette anche divagazioni “meste” su certo provincialismo persistente nella cultura italiana, che disconosce quasi sempre le figure italiane che escono dal coro, che assomigliano di più alle figure europee e poco o molto poco alla maggior parte delle figure italiane. Tra queste, per esempio, Ugo Ojetti. Amico, tra l’altro, di Henri e Marie de Régnier. Ma fermiamoci qui. Lasciamo al lettore di scoprire i labirinti dentro cui ci trascina la scrittura di Colombo. Spero, per il lettore, lieto di esservi stato trascinato.

Fiano Romano, 24 luglio 2018
1Marie de Régnier.

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