GIULIO CESARE
UN
EROE BAROCCO
Raffaele
Pe, controtenore
Raffaella
Lupinacci, mezzosoprano (nel duetto handeliano da Giulio Cesare)
La
lira di Orfeo
il
cd
Glossa
Music
GCD923516
Il
concerto dell’altra sera al Teatro Argentina di Roma, per l'Accademia Filarmonica Romana: Giulio
Cesare, un eroe barocco, che però Raffaele Pe conduce in tournée
per l’Italia, è un esempio istruttivo di come spesso si abbiano
idee ristrette su che cosa sia il teatro. Non esiste, infatti, un
solo modello di teatro – quello in base al quale molti affermano
che ciò che non vi si adegua non è teatro – ma ne esistono molti,
e cambiano di paese in paese, di epoca in epoca, e convivono, anche
se diversi, nella stessa epoca. Brecht, Pirandello, Hofmansthal, O’
Neill, Pinter, Beckett, Puccini, Britten, Janáček,
Berg, Poulenc, Bernstein, Barber, non scrivono lo stesso tipo di
teatro, eppure ogni loro opera è a pieno titolo teatro. Il
punto sta nel non porsi idee pre-concette quando si entra in un
teatro, per assistere a uno spettacolo. Perfino lo stesso modello di
teatro può conoscere declinazioni diverse
e addirittura inconfrontabili. Nel barocco, dal seicento a tutto il
settecento, convivono forme diversissime di teatro. Si pensi solo a
quanto sono diversi Shakespeare, Racine e Lope de Vega. O nella
stessa Francia, Corneille, Racine, Crébillon. Raffaele Pe ci
conduce, pentagramma per pentagramma, nell’evoluzione del
melodramma serio settecentesco, disegnando la figura emblematica di
un solo eroe: Giulio Cesare. Da George Frideric Handel (1685-1759) a
Francesco Bianchi (1752-1810) passano meno di 70 anni, ma il
panorama teatrale, il gusto del pubblico, cambiano
radicalmente. Vivo Handel nessun drammaturgo avrebbe osato ciò che
un secolo prima aveva osato Shakespeare: fare vedere sulla scena
l’assassinio di Cesare. L’assassinio
doveva avvenire fuori scena, e c’era poi sempre qualcuno a
raccontarlo. Nella
ripresa successiva alla
creazione veneziana del
melodramma La morte di
Giulio Cesare, che Bianchi aveva portato sulle scene nel 1788, e
dunque un anno prima
della presa della Bastiglia, il pubblico vide assassinare Cesare
sulla scena. Ma perché
a Parigi si erano visti decapitare un re e una regina, dal vero, non
sulla scena.
Ora,
il melodramma barocco è un teatro di passioni, non di azioni. Si
chiamavano affetti. L’ultimo Bianchi assiste alla trasformazione di
un teatro di affetti in teatro d’azione (a dire il vero c’era
stato anche Gluck! ma in
Italia non aveva avuto grande esito).
Nel teatro barocco tutto
è simbolico, anche la voce. E un eroe, figura fuori dell’ordinario,
non può cantare con voce ordinaria. Così vediamo e ascoltiamo una
figura virile che canta con voce acuta di soprano o di contralto. La
stessa straordinarietà della visione e dell’ascolto si fa simbolo
della straordinarietà della figura. Il sistema che permetteva la
realizzazione di questa figura era crudele, anzi
feroce, addirittura, per
qualche singolo che diventava famoso e acquistava ricchezze, si
rovinava la vita di moltissime persone. I castrati che raggiungevano
il successo erano pochissimi, agli altri toccava una vita di
solitudine, di stenti e d’infelicità. E’ stato giusto dunque
proibirne la pratica. Già Parini scriveva parole dure contro
l’evirazione. Per ricuperare dunque l’esecuzione del melodramma
barocco negli stessi registri vocali, si sono a lungo usate le voci
femminili.
Donne,
del resto, che interpretano nel melodramma ruoli maschili non mancano
fino ai giorni nostri, o quasi. In genere si affidano loro figure di
adolescenti o di giovani: Cherubino, nelle Nozze di Figaro di Mozart,
il figlio di Guglielmo Tell nell’opera omonima di Rossini, Tancredi
nell’altra opera omonima di Rossini (ma anche altre opere
rossiniane prevedono donne che vestono ruoli maschili), Oscar nel
Ballo in maschera di Verdi, Octavian
nel Rosenkavalier di Richard Strauss. Da
qualche decennio, però, si ricorre alla figura del controtenore, una
voce maschile che canta in un registro acuto, ricorrendo
al falsetto. In genere la voce più adatta è quella baritonale,
perché più ricca di armonici. La caratteristica dei castrati era di
cantare in un registro acuto con la forza e il fiato pieni di un
uomo. Il controtenore non può in genere sfoggiare un volume così
pieno, un fiato così forte. E questo ha fatto a lungo mettere in
evidenza una certa difformità dalla voce del castrato. Ma Raffaele
Pe sembra smentire queste impressioni, perché la sua voce s’impone
con forza e volumi potenti. Bisognerà chiedere a lui il segreto.
Soprattutto, e qui allora entriamo nella padronanza di una tecnica,
sorprende e colpisce con meraviglia la fluidità, la scorrevolezza
del canto. Come se non gli costasse fatica. Capiamo allora
l’entusiasmo che tali voci suscitavano nel passato. Perché
veramente l’atto simbolico del canto teatrale qui si fa sostanza
stessa del gesto teatrale, della rappresentazione. Quasi
un miracolo. Come la musica di un verso raciniano – que le jour
recommence et que le jour finisse / sans que jamais Titus puisse voir
Bérénice – che qui si fa totalmente, esclusivamente musica, per
sortilegio dello stesso registro vocale, un canto d’angelo si
direbbe che però ci raffigura il dolore dell’uomo, la sua gioia,
il suo entusiasmo.
Sta
in questo corto circuito tra la voce irreale e la concretezza umana
della sofferenza o della felicità il contatto con un impossibile che
si fa possibile, vale a dire che a raccontarci il nostro stesso
dolore o la nostra gioia sia una voce che non è nostra, ma è
sovra-umana, irreale. Ma proprio in ciò sta la sua immensa forza
teatrale: perché il dolore, la gioia, non sono espressi, come
pretenderà dopo la musica romantica, non sono realisticamente
impersonati da chi canta, non sono cioè la traduzione musicale del
dolore o della gioia – illusione in cui cade il romanticismo, che
vorrebbe far coincidere rappresentazione e realtà – ma sono la
rappresentazione simbolica del dolore o della gioia, sono –
soprattutto – rappresentazione, non immedesimazione, di
qualcosa che non c’è, ma cui si allude simbolicamente.
Il cantante, insomma,
rappresenta il personaggio, non è il personaggio. In questo, il
teatro barocco ha molti punti di contatto con il teatro moderno, con
Pirandello, con Brecht. Non
a caso, del resto, i musicisti che interpretano musica e teatro
barocchi si trovano a proprio agio anche nella musica e nel teatro di
oggi.
Il
programma della serata, e del cd (Giulio Cesare a baroque hero,
Glossa Music GCD923516)
di cui la serata ripropone gli stessi brani, ci conduce da pagine
sublimi di Handel a quelle di Geminiano Giacomelli (1692-17409, di
Carlo Francesco Pollarolo (1653-1723), di Niccolò Piccinni
(1728-1800) e di Francesco Bianchi (1752-1810). Raffaele Pe ci regala
anche due splendidi bis, entrambi handeliani: ripropone il duetto
“Son nato a lagrimar” dal Giulio Cesare, insieme al mezzosoprano
Raffaella Lupinacci, e il sublime (se fosse possibile si dovrebbe
dire sublimillimo) Largo, che è l’aria “Lascia ch’io pianga”
dal Rinaldo (la melodia
viene in realtà
dall’aria del Piacere nell’oratorio
Il Trionfo del Tempo e
del Disinganno). Strumentalmente sostiene tutto il concerto La Lira
di Orfeo, gruppo strumentale fondato dallo stesso Pe, violino
concertatore Luca Giardini, al clavicembalo Davide Pozzi, arpa Chiara
Granata. Il teatro Argentina
di Roma, pieno, ha
decretato per tutti un vero e proprio trionfo. Ma chi sa quanti si
saranno accorti, applaudendo, che applaudivano una musica che già da
sé stessa è rappresentazione, teatro. Soprattutto quando la sua
forza simbolica è realizzata con l’intelligenza, la sensibilità,
e soprattutto con la pertinenza di un interprete che tocca così
spesso quel
sublime che questa
musica pretende di
rappresentare.
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