Al Teatro Eduardo
dell’Officina Pasolini di Roma, Andrea Bosca. diretto da Paolo
Briguglia (ma era una prova, la regia si potrà meglio considerare
quando lo spettacolo andrà in scena ad Asti) ha tenuto una prova
aperta del suo monologo tratto dalla Luna e i falò di Cesare Pavese.
Una bella sfida. E per me una grande emozione: ho letto il
bellissimo romanzo di Pavese, il suo ultimo, che avevo 18 anni,
comprato di notte alla stazione di Padova (eh sì, allora giornalai e
librerie delle stazioni erano aperti anche di notte) nel viaggio di
ritorno a Roma da Cortina D’Ampezzo: non riuscivo a dormire,
stipato nello scompartimento di prima classe, invece che su una
cuccetta, e il treno rimase fermo per un po’ nella stazione di
Padova. Lo cominciai subito a leggere e lo lessi quasi d’un fiato,
perché due giorni dopo, tornato a casa, l’avevo già finito e
cominciai a leggere tutti gli altri, e i racconti, dei quali mi
colpì, mi confuse, prima di intenderne il senso, Nudismo. Era,
invece, come poi capii, una chiara confessione di complicato
panteismo.
Bravissimo
Bosca a sintetizzare il romanzo in un’ora e mezzo. Che libro
disperato, La luna e i falò! Una bella sfida, dunque, questa di
Andrea Bosca. Vinta. Pavese è il solo scrittore italiano, insieme a
Calvino, che abbia visto, al di là delle proprie convinzioni
ideologiche, e capito, senza scappatoie, la spaccatura, non solo
politica, ma culturale, che divide gli italiani e la sua
insanabilità. A raccontarla, questa spaccatura, Pavese adotta una
lingua apparentemente fredda, obbiettiva, distaccata, sembrerebbe
un’applicazione della ricetta neorealistica, in realtà è una
prosa lacerata da interne crepe musicali, da pensieri spiazzanti, da
immagini improvvise di un’evidenza feroce, proprio quando si tratta
di raccontare una lacerazione. La sua poesia - pochi romanzieri sono
come lui poeti - è di un'attualità che ancora oggi fa male. E se si
pensa a quanto dolore, fin dalle origini, abbiano suscitato negli
scrittori italiani le divisioni degli italiani, da Dante a Petrarca,
da Machiavelli a Leopardi, temo che anche questo dolore di Pavese
accompagnerà la coscienza di molti italiani per molto tempo ancora,
forse per secoli, almeno fino a quando una fantasmagorica comunità
che si autoproclama Italia esisterà ancora.
"Forse
lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita
davvero". Così si chiude La casa in collina, del 1948. E nel
1949 La luna e i falò si apre con una confessione disarmante: "Qui
non ci sono nato ...non c'è da queste parti una casa né un pezzo di
terra né delle ossa ch'io possa dire: 'Ecco cos'ero prima di
nascere' ". Nostalgia del borgo natio e insieme estraneità a
qualunque angolo della terra coincidono in un unico sentimento di
estraneità dal mondo. Unico legame, unica uguaglianza, tra gli
uomini, il dolore. E viene da pensare al primo coro dell’Agamennone
di Eschilo, sul quale certamente Pavese, che amava così
profondamente la poesia greca, avrà più volte riflettuto (guarda
caso, lo stesso testo sul quale dolorosamente riflette Pasolini, e lo
traduce). Veramente non solo il mare tra Cipro e la Grecia, come è
scritto nei Dialoghi con Leucò, è tutto "intriso di lacrime e
di sperma", ma anche la terra, qualunque terra è solo il
sostegno di una disperazione senza uscita, una lacerazione
individuale, culturale, sociale e politica. Il contrasto tra
l’oppressione fascista e l’ansia di libertà degli antifascisti
appare inconciliabile, perché al di sotto del contrasto politico,
c’è un’incompatibilità umana tra l’io che s’impone, senza
nessuna consapevolezza del male di esistere, e che anzi crede di
vincerlo, soffocarlo, con il sopruso sugli altri, con l’affliggerlo
agli altri quel male che o non vede o vuole evitare, e l’io che,
consapevole invece del dolore dell’essere (di questo si tratta:
Pavese è molto più metafisico di quanto appare), non ha armi per
opporsi alla prevaricazione di quell’io violento che lo schiaccia.
Questo
groviglio, questo groppo è la materia della narrazione di Pavese.
Nelle novelle, nei romanzi, nelle poesie, nel diario. Bosca ce lo
restituisce, ce lo fa sentire con commosso distacco, come un dolore
sordo che sta là sotto, come una malattia, da cui non si guarisce.
La sua voce è un sussurro più che una voglia di conversazione, una
confessione davanti allo specchio di sé stesso. L’ascoltatore
immaginario – il pubblico – sta là forse, da parte dell’attore,
più come voglia di una somiglianza che come ricerca di una mente che
capisca, più come un altro sé stesso a cui confessare la propria
sofferenza di esistente che non esiste che come pubblico al quale
mostrare la propria bravura.
Finalmente,
mi dico, trovo un attore che non recita, ma che parla, che dice,
senza enfasi, senza urlarlo, il dolore immedicabile di vivere. Ma,
naturalmente, è invece la forma più alta possibile di recitazione:
quella che imita la vita, ma non riproducendola realisticamente,
questo lo sanno fare in molti, e appaiono tutti uguali, bensì con la
grazia di un ritmo musicale interiore, per la quale il linguaggio si
fa musica, e la musica ti penetra nel cervello, lo occupa, e
raccontandoti il proprio disagio ti fa conoscere il tuo. Probabile
che Pavese parlasse così. Perfino con la stessa cadenza, e non
perché Bosca sia nato nella sua stessa valle del Belbo in cui è
nato Pavese. Ma, chi sa, forse anche per questo.
Grazie,
Andrea! Indimenticabile la tua voce che si sostituisce a quella di
Pavese. Diventa la voce di un Andrea/Cesare che, credimi, mi sta
ancora dentro. Mi starà, credo, per molto. Forse solo perché
Pavese è una voce di me che mi porto dentro da quando avevo 18 anni.
Lo hanno spesso, proprio per questo tono adolescenziale, accusato di
essere solo la voce di un adolescente. Ma quanti hanno detto lo
stesso di Tasso, di Leopardi! Benedetto Croce pensava anzi, con
quest’accusa, di svuotarlo, demolirlo, il pensiero leopardiano. Era
tuttavia adolescente anche Rimbaud. Ma ha visto più lontano di tanti
adulti. E qui, scrivendo queste parole, lo riconosce uno che da quei
18 anni in cui ha letto per la prima volta Pavese, ne ha vissuti
altri 60. Ma quella voce, e quello sguardo, non li ha più
dimenticati.
Di
nuovo: grazie Andrea! Mi hai fatto scavalcare più di mezzo secolo: e
non so se quest’oggi è peggiore di quell’ieri o migliore. Ma
ritornando a quella notte, capisco che già allora sentivo ciò che
sento adesso e che Pavese sa raccontare con una voce inconfondibile.
E questa voce inconfondibile, tu, Andrea, hai saputo indossarla come
fosse la tua. Davvero “ripeness is all”. Non perché si diventa
adulti. Ma perché adulta diventa la sofferenza, non più soltanto
sofferta, vissuta, ma pensata, consapevole, e dunque ormai
insopprimibile.
OFFICINA
DELLE ARTI
Pier
Paolo Pasolini
Teatro
Eduardo De Filippo
Ripeness
is all, appunti per una Luna e i falò
Prova
aperta con Andrea Bosca
Regia
di Paolo Briguglia
Roma,
13 gennaio 2020
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