giovedì 14 dicembre 2017

Teatro dell'Opera di Roma, La damnation de Faust

TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. SERATA INAUGURALE DELLA STAGIONE 2017 – 2018: LA DAMNATION DE FAUST (la dannazione di Faust), légende dramatique en quatre parties (leggenda drammatica in quattro parti), testo di Hector Berlioz, Almire Gandonnière, Gérard de Nerval, dal Faust di Johann Wolfgang Goethe, musica di Hector Berlioz

Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm
Movimenti mimici Chiara Vecchi

Faust Pavel Černoch
Méphistophélès Alex Esposito
Marguerite Veronica Simeoni
Brander Goran Jurić

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e il Palau de Les Arts Reina Sofía di Valencia

Prima rappresentazione, 12 dicembre 2017
Repliche: 14, 17, 19, 21, 23 dicembre 2017.

Hé bien! Règnez, cruel; contentez votre gloire:
Je ne dispute plus. J’attendais, pour vous croire,
Que cette même bouche , après mille serments
D’un amour qui devait unir tous nos moments ,
Cette bouche , à mes yeux s’avouant infidèle ,
M’ordonnât elle-même une absence éternelle.
Moi-même j’ai voulu vous entendre en ce lieu.
Je n’écoute plus rien ; et pour jamais, adieu.
Pour jamais ! Ah ! Seigneur , songez-vous en vous-même
Combien ce mot cruel est affreux quand on aime ?
Dans un mois , dans un an, comment souffrirons-nous,
Seigneur ; que tant de mers me séparent de vous ?
Que le jour recommence et que le jour finisse,
Sans que jamais Titus puisse voir Bérénice ,
Sans que de tout le jour je puisse voir Titus !
Mais quelle est mon erreur, et que de soins perdus !

(E sia! Regnate, crudele; accontentate la vostra gloria:
Non ne discuto più. Aspettavo, per credervi,
Che questa stessa bocca, dopo mille giuramenti
D’un amore che avrebbe dovuto unire tutti i nostri momenti,
Questa bocca, confessandosi ai miei occhi infedele,
M’ordinasse essa stessa un’assenza perenne.
Io in persona ho voluto ascoltarvi in questo luogo.
Non ascolto più niente; e per sempre, addio.
Per sempre? Ah! Signore, ci pensate dentro di voi
Come questa parola crudele è orribile se si ama?
Tra un mese, tra un anno, come sopporteremo,
Signore, che così tanti mari mi separino da voi?
Che il giorno ricominci e che il giorno finisca,
Senza che mai Tito possa vedere Berenice,
Senza che per tutto il giorno io possa vedere Tito!
Ma che sbaglio è il mio, e quanti pensieri perduti!)

E’ la lunga tirata di Berenice a Tito, nella stupenda tragedia di Racine che dal nome della regina di Bitinia prende il suo titolo, Bérénice. Ma veramente la regina di Bitinia, accomiatandosi da colui che sarebbe diventato l’Imperatore dei Romani, gli avrebbe parlato così? Gli avrebbe dato del voi? l’avrebbe chiamato Signore? I Romani, quando si rivolgevano a qualcuno, conoscevano un solo pronome di seconda persona: il tu. Il voi comparirà più tardi, a Bisanzio, e in Occidente alla corte di Carlo Magno. Ma la Berenice raciniana non è che per finzione teatrale la regina di Bitinia, in realtà è una gran dama della Corte di Versailles. Il teatro è sempre stato teatro contemporaneo, e ha sempre alluso, dietro maschere antiche, all’oggi. Quando, sei anni dopo, nel 1676, Lully compone l’Atys, su uno splendido testo di Quinault, tutta la corte vi riconosce le vicende del Re Sole e della Montespan. Non diversamente, Handel, nella Semele, allude agli adulteri della corte londinese. In una bella messa in scena del Festival d’Aix-en-Provence, Robert Carsen disegna il personaggio di Giunone sul modello di Elisabetta II d’Inghilterra, facendole portare perfino le grandi borse criticate dagli snob. Giunone appare la prima volta che legge un giornale dove, in caratteri cubitali, si vede scritto: “E’ ormai ufficiale! Semele è l’amante di Giove”. Ricostruisce in chiave moderna le allusioni del testo, altrimenti incomprensibili al pubblico di oggi, dopo tre secoli dalle vicende e dai pettegolezzi a cui allude l’oratorio. Teseo, nell’Edipo a Colono di Sofocle, afferma che, prima di prendere una decisione così gravida di conseguenze per la città, come quella di accogliere Edipo, deve consultare l’Assemblea. Ora l’Assemblea era un’istituzione dell’Atene democratica, non certo dell’Atene arcaica, e tanto meno dell’Atene del mito. Questa forse troppo lunga premessa per dire che anacronismi, allusioni all’oggi appartengono al teatro di ogni tempo. Per la ragione semplicissima che il teatro è sempre teatro contemporaneo. Goethe, quando allestì a Weimar la prima messa in scena moderna dell’Amleto in Germania, impersonando lui stesso il ruolo del principe danese, non solo disegnò scene moderne e fece vestire ai personaggi gli abiti del tempo, ma addirittura tagliò alcune scene e ne introdusse altre nuove scritte di suo pugno. Non si comporterà molto diversamente,due secoli dopo, Laurence Olivier quando traspose in un film la tragedia di Shakespeare. E anzi, la lettura psicanalitica del personaggio fu evidenziata dalla visione di un cervello in primo piano sullo schermo, proprio durante la dizione del celebre monologo “to be or not to be”. La colonna sonora in quel momento simulava un battito cardiaco. Ma veniamo, allora, a questa Dannazione di Faust che ha inaugurato la stagione 2017-2018 del Teatro dell’Opera di Roma. Il grande successo dello spettacolo e degli interpreti richiede alcune precisazioni. Siccome è stato detto, alla radio, che a “gran parte” del pubblico la regia di Michieletto non è piaciuta, è il caso di rettificare che solo una parte, e modesta, del pubblico, ha dissentito con sonori buu. Ma questa piccola “gran parte” è stata subito subissata e zittita dalla vera “gran parte” del pubblico al quale invece lo spettacolo è piaciuto. Segno che ormai il teatro moderno è capito e gradito anche da “gran parte” del pubblico italiano. C’è infatti chi, sempre alla radio, ha obiettato che lo spettacolo era di difficile comprensione, aveva perciò bisogno di essere interpretato, bisognava fare uno sforzo per capirlo (sic!). La musica e la scena, infatti, s’è detto, sembrerebbero parlare di cose diverse. Il solito discorso. Ma perché, regia a parte, l’Amleto di Shakespeare si capisce subito? E il Tristano è un dramma d’immediata comprensione? La Kovanščina di Musorgskij è subito capita anche da chi non sa niente della storia della Russia e della politica di Pietro il Grande? Sembrerà strano, ma fin dalla sua nascita, il teatro ha richiesto dal pubblico la cultura giusta per essere capito, sia che questa cultura fosse frutto di studio sia che fosse, più spesso, invece, la cultura della società in cui la rappresentazione si realizzava. Avete mai letto il primo coro dell’Agamennone di Eschilo? Vi sembra un testo d’immediata comprensione, se non si è greci dell’Atene classica e non si sappia chi sia Zeus, anzi che cosa sia per Eschilo Zeus, che cosa sia la Dike, che cosa la speculazione teologica e filosofica di allora sul diritto del singolo e della comunità? O La vida es sueño di Calderón de la Barca si capisce subito senza conoscere la discussione teologica sulla predestinazione nella Spagna del ‘600? Gli esempi potrebbero continuare. Un po’ di umiltà, per favore, non usurpate il posto e il ruolo dell’autore. Che ne sapete di lui? Viene a proposito un aforisma schumanniano già da me citato altre volte: “Il filisteo vorrebbe capire in un attimo ciò che all’artista è costato giorni, mesi, forse anni di faticoso lavoro”. E, piaccia o no a tutti, anche un regista è un artista, ogni teatrante lo è, e anche lui pensa, lavora, con durezza, con fatica. Dunque, prima di esternare il vostro dissenso dal suo lavoro, non domandatevi se vi è piaciuto o no, bensì cercate di capire (eh sì!) che cosa abbia voluto dirvi. Mi soccorre un altro aforisma, da me citatissimo, di Schumann: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se al mondo non ci fosse niente altro di più importante da fare che piacere alla gente”. Cambiamo arte. Guardiamo un quadro. Per esempio, L’Annunciazione di Leonardo. La Madonna vi sembra una signora ebrea del primo secolo a. C.? E l’angelo, un essere sovrannaturale? Sono una gran dama fiorentina del Rinascimento e un bel giovane zazzeruto, di quelli che probabilmente piacevano a Leonardo. Già: perché nel quadro c’è anche questo. Insomma, il realismo e la congruità della rappresentazione con l’evento rappresentato è un’esigenza che non spunta fuori prima del Naturalismo ottocentesco. Ma anche lì, a teatro si sono prese tutte le libertà che servivano. Se guardiamo le foto di spettacoli tra Otto e Novecento, pettinature, trucco del viso, denunciano l’epoca in cui si realizzano e non eventuali cavalieri della Tavola Rotonda. Anzi, ci appaiono addirittura ridicoli, proprio perché si sforzano di sembrare ciò che non riescono a raffigurare. Quanto alla Damnation de Faust di Berlioz, è una partitura che già allora parve d’avanguardia. E come far capire al pubblico di oggi, magari digiuno di cognizioni storiche ed estetiche, l’avanguardia di ieri, se non travestendola da avanguardia di oggi? I ballabili della Traviata non sono danze svenevoli e romantiche, come farebbero pensare troppe vaporose rappresentazioni, ma veri ballabili, e i galop sono più numerosi dei valzer. Come a dire: il rock di allora. L’operazione di Verdi, infatti, disorientò una parte dei suoi contemporanei. Ma perché Berlioz, quasi un decennio prima della Traviata, affronta un personaggio così emblematico, e dalle molteplici facce, già allora, come Faust? Faust, come Edipo, Amleto, Don Chisciotte, Don Giovanni, è personaggio che ci appare quasi autonomo dai poeti che l’hanno immaginato, Marlowe e Goethe, quasi fosse una figura storica, un individuo in carne ed ossa. Ciò avviene perché in lui, come negli altri personaggi, c’è una parte di ciascuno di noi: la ricerca di un senso della vita. Il diavolo, in questa ricerca, assume un ruolo determinante. Vittorio Mathieu ha scritto un saggio imprescindibile, al riguardo: Goethe e il suo diavolo custode (Adelphi, 2002). Nella tradizione medievale, e poi rinascimentale e barocca, il diavolo è un personaggio comico. Seduttore delle donne, come incubo, e degli uomini, come succubo. Michieletto prende questa tradizione alla lettera. Coloro che hanno contestato lo spettacolo - pochi, a dire il vero e, come si è detto, subito zittiti dalla maggioranza del pubblico, che invece ha decretato un trionfo a tutti gli interpreti - se ne facciano una ragione, e si studino un po’ di storia del teatro. La “leggenda” di Berlioz, che utilizza, liberissimamente, la già libera versione francese che Gérard de Nerval trae dalla tragedia di Goethe (il quale, a sua volta, aveva reinventato Marlowe), riscrive le peripezie di Faust, e a differenza di Goethe, come aveva fatto Marlowe, lo danna. Di questa dannazione il diavolo è lo strumento insieme ironico e perversamente consapevole. Ed è qui che Michieletto costruisce il suo spettacolo. Il mondo che devasta e perde Faust è celato dentro Faust stesso, è un mondo immaginario, una costruzione del diavolo. Margherita è un sogno, a baciare Faust non è la sua bocca, ma quella del diavolo “succubo”. Che poi, però, quando i due si baciano davvero, inserisce, tra la bocca di Faust e quella di Margherita, una mela. L’atto d’amore ripete, ogni volta, il peccato originale. Tutta la vicenda assume una connotazione di sofferenza reale, la visione, il sogno, possono essere immaginazione inesistente, ma la sofferenza che infliggono è vera sofferenza: è la disperazione per il fallimento della propria vita, per le perdite immedicabili, del padre, della madre, dell’infanzia felice, dell’adolescenza infelice, sbeffeggiata e usurpata dai bulli, che registrano con i cellulari le prevaricazioni inflitte a Faust ragazzo. Ma poco importano la felicità e l’infelicità di ciò che s’è perduto, importa invece l’irrecuperabile perdita, lo stesso dolore si fa nuovo dolore nella perdita. Le scene geometriche, luminose, di Paolo Fantin. i costumi semplici, ma fantasiosi (la coda serpentina del diavolo!) di Carla Teti, i video, le luci, i figuranti e mimi, sono perfetti. Alla bellezza dello spettacolo corrisponde l’intelligenza e la penetrazione musicale di Daniele Gatti, l’adesione sulfurea, ma anche struggente, della musica alla scena: indimenticabile la galoppata verso l’abisso. Colpisce poi e affascina l’immediatezza della recitazione, l’adeguamento al personaggio di ciascuno degli interpreti: il giovane, avvenente ma spaesato Faust di Pavel Černoch, bravissimo nel moltiplicare le facce del suo personaggio; l'imprevedibile, duttilissimo Mefistofele di Alex Esposito, un diavolo mercuriale, onnipresente e onnipenetrante; l'intensità mimica e musicale di Veronica Simeoni, Margherita, fanciulla innamorata e donna disperata. Un vero giullare, poi, divertentissimo, il Brander di Goran Jurić. L'orchestra, il coro di diavoli e di angeli (sono la stessa cosa), onnipresente sugli spalti di un terrestrissimo inferno, completano magnificamente uno spettacolo imperdibile.

Dino Villatico

Roma, 13 dicembre 2017

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