Sabato scorso, 9
aprile, sono andato a Montopoli di Sabina per assistere a una nuova rappresentazione
di “Antigone”. Non era Sofocle e nemmeno Anhouil. Ma una sorta di riscrittura
di entrambe le tragedie, concentrate in un unico, serratissimo, dibattito, o
scontro, tra Creonte, il Potere, e Antigone, una ragazza, la Gioventù. Per
terra lo spazio era delimitato da una striscia luminosa che si chiudeva in
fondo nell’abside della chiesa sconsacrata, adibita a biblioteca comunale, dove
era stato allestito lo spettacolo. Due insegne, anch’esse luminose, sul
davanti, dicevano, una, a sinistra, “παιδοκτόνοι” (infanticida, assassino di giovani,
assassino dei figli), l’altro, sulla destra, “SALE”, che poteva significare sia
il minerale che la svendita: dietro, infatti, giaceva, apparentemente senza
vita, Antigone. Ora, tutti conoscono il mito, e soprattutto la sublime tragedia
di Sofocle, nella quale s’impianta un conflitto irrisolvibile, come sempre nel
teatro tragico. Creonte difende la legge
dello Stato, la legge scritta che assicura l’ordine e la convivenza. Antigone sostiene
con forza la legge non scritta, che sta a fondamento di ogni civiltà:
seppellire i morti, e cioè il culto degli antenati, il rispetto della
tradizione. Antigone, proprio per questo, infrange la legge scritta, disattende
un editto promulgato da Creonte, che proibisce di seppellire il fratello
Polinice. Egli ha combattuto contro la sua stessa città, ed è perciò da
considerarsi un nemico, un aggressore, va pertanto lasciato insepolto, a
imputridire divorato dagli uccelli rapaci e dalle fiere. Antigone disubbidisce
all’editto per ubbidire alla legge non scritta che obbliga a seppellire i
morti. Tanto più se il morto è un fratello, una persona amata. Creonte la condanna
a morte. Ma Emone, suo figlio, l’ama, e si lascia morire insieme a lei. La
moglie di Creonte, per il dolore si uccide, ma prima di morire lancia al marito
l’imprecazione che lo stigmatizza come “assassino di figli”. La tragedia
finisce qui, senza risolvere il conflitto, senza riscatto, senza redenzione,
come quasi sempre in Sofocle. Il “fato” non è, come troppi pensano, una
condanna che pesa ab aeterno sull’individuo, ma una condizione a cui non si
sfugge. In termini moderni è la condizione che mi fa nascere italiano e non
palestinese o siriano. In una famiglia ricca e non in una famiglia di
diseredati. Provate a dimostrare che non sia una “necessità” (ἀναγκη – anánke) costrittiva, e che tale
necessità non condizioni la vita dell’individuo. E’ quello che Nietzsche, fine
filologo, oltre che grande filosofo, chiama “dire sì alla vita”, cioè conoscere,
e accettare, chi si è. Non altrimenti il conflitto appare insanabile nell’
“Edipo Re” o nel “Filottete”. Nell’ “Edipo Re” gli dei puniscono Edipo non
perché abbia ucciso suo padre e si sia congiunto con sua madre, ma perché ha
creduto di poter sfuggire al destino segnato dalla sua condizione. Ha peccato di ciò che i greci chiamano “ὕβρις – hýbris” (orgoglio, superbia,
tracotanza): credere di essere padrone del proprio destino. Il secondo coro
dell’ “Edipo a Colono” lo dice bene: la vita umana è infelice, beato chi muore
giovane e più beato ancora chi non nasce mai. E pensare che Sofocle nasceva da
famiglia illustre, era ricchissimo e da giovane fu bellissimo. Nel “Filottete”
il conflitto è tra Filottete, esponente della morale aristocratica, eroica e
individualista, e Ulisse, esponente della morale di una società democratica in
cui l’interesse della collettività prevale su quello del singolo. L’anacronismo
è voluto. Sofocle si rivolge al pubblico di una democrazia. Filottete ha subito un torto dagli Achei, che
lo hanno abbandonato sull’isola di Lemno solo, ferito, sofferente. Ora, dopo 9
anni, gli Achei hanno bisogno di lui per conquistare Troia e vendicare
l’oltraggio di Paride. Filottete si rifiuta. Neottolemo, figlio di Achille,
condotto nell’isola da Ulisse per convincere Filottete, prende invece le sue
parti. Compare Ercole, l’eroe che ha donato a Filottete l’arco che farà vincere
gli Achei, e obbliga Filottete a cedere. Per ricompensa gl’insegna come guarire
della sua ferita. E’ una riconciliazione apparente. Ci è voluto un intervento
divino a sciogliere il contrasto. Quale morale è la morale superiore, quella
individuale di Filottete o quella comunitaria di Ulisse? Sofocle, un
aristocratico, ma fedele alla democrazia, non lo sa. Scioglierà il nodo qualche
decennio dopo Aristotele, nel proemio all’ “Etica Nicomachea”: bello è cercare
il proprio bene, coltivare sé stessi fino alla conoscenza delle cose, ma ancora
più bello, anzi ”divino” (così scrive Aristotele), è cercare il bene della
comunità, della polis, di tutti. Queste riflessioni percorreranno tutto il
pensiero etico e politico antico (per gli antichi etica e politica sono
indivisibili) e poi medievale, rinascimentale, moderno (Shakespeare, per molti
aspetti vicino a Sofocle, ma più ancora a Euripide, riprende il tema a modo
suo, cioè in modo sublime, nel “Coriolano”, e anche qui non scioglie il
dilemma). Su questi temi, e su questo dissidio, riflette anche Anhouil, nella
sua “Antigone”. La scrisse nel 1941, andò in scena nel 1942. La Francia era
occupata dai Nazisti. Una parte dei francesi prese le parti di Hitler, nacque
il governo fascista di Clichy. Il grande storico delle “Annales”, Marc Bloch,
si fa partigiano ed è ucciso dai tedeschi. Anhouil scrive “Antigone”. La
giovine si ribella agli ordini, si rifiuta di accettare la prevaricazione, il
dominio. Dice no al Potere, alla violenza del Potere. E seppellisce il fratello
ammazzato. Creonte, ai suoi occhi, è non tanto un Potere assoluto, ma chi è
sceso a compromessi per mantenerlo, chi ha detto sì non già alla vita – come
scrive Nietzsche - e dunque alla giovinezza, alla ribellione, ma sì alla
connivenza, alla complicità, alla subordinazione. A suo dire, per preservare il
benessere, l’ordine della società. Nell’idea di Antigone, invece, per rendersi
correo dei crimini che ogni Potere commette, soprattutto sui giovani che non accettano
di asservirvisi. Queste le premesse dello spettacolo.
Due soli attori, Julia
Borretti, che incarna il ruolo di Antigone, e Titta Ceccano, che impersona
Creonte. E’ loro anche la regia. I dialoghi sono prosciugati e il confronto è
senza esclusione di colpi. Scene e costumi sono di Jessica Fabrizi, le
ceramiche di scena di Laura Giusti _LaghirÁ, e lo spettacolo è prodotto da
MATUTATEATRO. Sede a Sezze, Latina, dove c’è anche il MAT spazio teatro, 40 posti.
Citano molti nobili antecedenti, tra cui l’Odin Teatret di Eugenio Barba, da
cui sembra assimilare taluni procedimenti, per esempio la dissociazione tra
gesto e parola recitata. Evidente proprio all’inizio, nel bellissimo
monologo-dialogo con sé stessa e il mondo, di Antigone. Il racconto e la situazione
si realizzano non solo nel discorso dell’attrice, ma anche nei gesti che
sembrano negarlo, contraddirlo. Togliersi e mettersi le scarpe. Indicare un
luogo e volgere il viso da un’altra parte. Poi, l’uomo di spalle si volta.
Capiamo che è Creonte. Più che palare sussurra. Sembra quasi una recitazione naturale,
realistica, tradizionale. Non lo è, sta a indicare la tradizionalità, la naturalezza
del Potere. Ma dice cose terribili, annienta la ragazza con le parole. Ma lei
non ci sta. Dice no, appunto. E gli rinfaccia, a lui, al Tiranno, al Potere, come
in Alfieri (altra bellissima tragedia), di dire sì. Lui si mostra allora
protettivo. Ma lei rifiuta quella protezione. Fino a lasciarsi annientare,
accucciata dietro l’insegna SALE. Anche qui il conflitto non è sanabile se non
con l’annientamento di una delle due parti. Che è poi lo spirito della
tragedia. Quando il conflitto si sana, si ricompone, afferma Goethe, e non c’è
più tragedia, c’è la commedia del mondo moderno. Anhouil, messo a faccia a
faccia con il furore nazista, ci ricorda che la tragedia invece persiste, c’è
anche nel mondo moderno, e anche nel mondo moderno non c’è soluzione del
conflitto se non con l’annientamento di una delle due parti. La chiesa sconsacrata
è piena, e il pubblico segue silenzioso, col fiato sospeso, la vicenda, il
contrasto. Alla fine gli attori dialogano con il pubblico. E Titta Ceccano
spiega che hanno voluto rappresentare in Creonte il Potere che uccide i
giovani. Messaggio di un’attualità quanto mai sconvolgente. Sia che i giovani
debbano contrastarlo, il Potere, o farsi strada nelle sue spire soffocanti,
lavoro, disoccupazione, fame, e che cosa più? – sia che ne se ne facciano
strumenti per imporre un nuovo ordine, come i terroristi, i combattenti dell’ISIS,
i kamikaze, e altri -, perfino i giovani delle organizzazioni criminali, perché
no? anche loro un modo per contrastare un potere e affermarne un altro – ma chi
guida, controlla, domina anche questi giovani che si credono strumenti di un
nuovo ordine? Be’: le riflessioni non mancano. Si esce con l’animo e la mente
pieni di domande senza risposta. Come dice Julia Borretti: queste domande ce le
facciamo da sempre, e da sempre non trovano risposta. A questo punto viene in mente
anche il “Pilade” di Pasolini.
Lo spettacolo è stato dato nell’ambito di una rassegna culturale annuale,
“in viaggio tra teatro, cinema, musica e poesia”, organizzata a Montopoli di
Sabina dalla Regione Lazio, dal Comune di Montopoli di Sabina e, soprattutto,
dal Teatro delle Condizioni Avverse, nome ch’è tutto un programma. Viene
spontanea a questo punto una riflessione: cose simili non si sono viste a Roma,
a Milano, a Torino, alla Biennale di Venezia, ma in un Borgo della Sabina che
conta poco più di 3.000 abitanti. Nel sottopasso che conduce al Comune, ci sono
alcuni murales assai belli. E tutto il borgo sembra fermo nel tempo. Immerso
nel silenzio dei bellissimi colli sabini. E tuttavia, invece, la vita moderna
prende anche qui il respiro del teatro moderno. E con invidiabile forza, con invenzione
rappresentativa. Funziona, sembra, se uno spettacolo così difficile richiama un
pubblico folto. Che applaude e discute. Animatamente, e con partecipazione.
Fiano Romano, 12 aprile 2016
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