martedì 12 aprile 2016

Antigone a Montopoli di Sabina



Sabato scorso, 9 aprile, sono andato a Montopoli di Sabina per assistere a una nuova rappresentazione di “Antigone”. Non era Sofocle e nemmeno Anhouil. Ma una sorta di riscrittura di entrambe le tragedie, concentrate in un unico, serratissimo, dibattito, o scontro, tra Creonte, il Potere, e Antigone, una ragazza, la Gioventù. Per terra lo spazio era delimitato da una striscia luminosa che si chiudeva in fondo nell’abside della chiesa sconsacrata, adibita a biblioteca comunale, dove era stato allestito lo spettacolo. Due insegne, anch’esse luminose, sul davanti, dicevano, una, a sinistra, “παιδοκτόνοι” (infanticida, assassino di giovani, assassino dei figli), l’altro, sulla destra, “SALE”, che poteva significare sia il minerale che la svendita: dietro, infatti, giaceva, apparentemente senza vita, Antigone. Ora, tutti conoscono il mito, e soprattutto la sublime tragedia di Sofocle, nella quale s’impianta un conflitto irrisolvibile, come sempre nel teatro tragico.  Creonte difende la legge dello Stato, la legge scritta che assicura l’ordine e la convivenza. Antigone sostiene con forza la legge non scritta, che sta a fondamento di ogni civiltà: seppellire i morti, e cioè il culto degli antenati, il rispetto della tradizione. Antigone, proprio per questo, infrange la legge scritta, disattende un editto promulgato da Creonte, che proibisce di seppellire il fratello Polinice. Egli ha combattuto contro la sua stessa città, ed è perciò da considerarsi un nemico, un aggressore, va pertanto lasciato insepolto, a imputridire divorato dagli uccelli rapaci e dalle fiere. Antigone disubbidisce all’editto per ubbidire alla legge non scritta che obbliga a seppellire i morti. Tanto più se il morto è un fratello, una persona amata. Creonte la condanna a morte. Ma Emone, suo figlio, l’ama, e si lascia morire insieme a lei. La moglie di Creonte, per il dolore si uccide, ma prima di morire lancia al marito l’imprecazione che lo stigmatizza come “assassino di figli”. La tragedia finisce qui, senza risolvere il conflitto, senza riscatto, senza redenzione, come quasi sempre in Sofocle. Il “fato” non è, come troppi pensano, una condanna che pesa ab aeterno sull’individuo, ma una condizione a cui non si sfugge. In termini moderni è la condizione che mi fa nascere italiano e non palestinese o siriano. In una famiglia ricca e non in una famiglia di diseredati. Provate a dimostrare che non sia una “necessità” (ἀναγκη – anánke) costrittiva, e che tale necessità non condizioni la vita dell’individuo. E’ quello che Nietzsche, fine filologo, oltre che grande filosofo, chiama “dire sì alla vita”, cioè conoscere, e accettare, chi si è. Non altrimenti il conflitto appare insanabile nell’ “Edipo Re” o nel “Filottete”. Nell’ “Edipo Re” gli dei puniscono Edipo non perché abbia ucciso suo padre e si sia congiunto con sua madre, ma perché ha creduto di poter sfuggire al destino segnato dalla sua condizione.  Ha peccato di ciò che i greci chiamano “ὕβρις – hýbris” (orgoglio, superbia, tracotanza): credere di essere padrone del proprio destino. Il secondo coro dell’ “Edipo a Colono” lo dice bene: la vita umana è infelice, beato chi muore giovane e più beato ancora chi non nasce mai. E pensare che Sofocle nasceva da famiglia illustre, era ricchissimo e da giovane fu bellissimo. Nel “Filottete” il conflitto è tra Filottete, esponente della morale aristocratica, eroica e individualista, e Ulisse, esponente della morale di una società democratica in cui l’interesse della collettività prevale su quello del singolo. L’anacronismo è voluto. Sofocle si rivolge al pubblico di una democrazia.  Filottete ha subito un torto dagli Achei, che lo hanno abbandonato sull’isola di Lemno solo, ferito, sofferente. Ora, dopo 9 anni, gli Achei hanno bisogno di lui per conquistare Troia e vendicare l’oltraggio di Paride. Filottete si rifiuta. Neottolemo, figlio di Achille, condotto nell’isola da Ulisse per convincere Filottete, prende invece le sue parti. Compare Ercole, l’eroe che ha donato a Filottete l’arco che farà vincere gli Achei, e obbliga Filottete a cedere. Per ricompensa gl’insegna come guarire della sua ferita. E’ una riconciliazione apparente. Ci è voluto un intervento divino a sciogliere il contrasto. Quale morale è la morale superiore, quella individuale di Filottete o quella comunitaria di Ulisse? Sofocle, un aristocratico, ma fedele alla democrazia, non lo sa. Scioglierà il nodo qualche decennio dopo Aristotele, nel proemio all’ “Etica Nicomachea”: bello è cercare il proprio bene, coltivare sé stessi fino alla conoscenza delle cose, ma ancora più bello, anzi ”divino” (così scrive Aristotele), è cercare il bene della comunità, della polis, di tutti. Queste riflessioni percorreranno tutto il pensiero etico e politico antico (per gli antichi etica e politica sono indivisibili) e poi medievale, rinascimentale, moderno (Shakespeare, per molti aspetti vicino a Sofocle, ma più ancora a Euripide, riprende il tema a modo suo, cioè in modo sublime, nel “Coriolano”, e anche qui non scioglie il dilemma). Su questi temi, e su questo dissidio, riflette anche Anhouil, nella sua “Antigone”. La scrisse nel 1941, andò in scena nel 1942. La Francia era occupata dai Nazisti. Una parte dei francesi prese le parti di Hitler, nacque il governo fascista di Clichy. Il grande storico delle “Annales”, Marc Bloch, si fa partigiano ed è ucciso dai tedeschi. Anhouil scrive “Antigone”. La giovine si ribella agli ordini, si rifiuta di accettare la prevaricazione, il dominio. Dice no al Potere, alla violenza del Potere. E seppellisce il fratello ammazzato. Creonte, ai suoi occhi, è non tanto un Potere assoluto, ma chi è sceso a compromessi per mantenerlo, chi ha detto sì non già alla vita – come scrive Nietzsche - e dunque alla giovinezza, alla ribellione, ma sì alla connivenza, alla complicità, alla subordinazione. A suo dire, per preservare il benessere, l’ordine della società. Nell’idea di Antigone, invece, per rendersi correo dei crimini che ogni Potere commette, soprattutto sui giovani che non accettano di asservirvisi. Queste le premesse dello spettacolo.
Due soli attori, Julia Borretti, che incarna il ruolo di Antigone, e Titta Ceccano, che impersona Creonte. E’ loro anche la regia. I dialoghi sono prosciugati e il confronto è senza esclusione di colpi. Scene e costumi sono di Jessica Fabrizi, le ceramiche di scena di Laura Giusti _LaghirÁ, e lo spettacolo è prodotto da MATUTATEATRO. Sede a Sezze, Latina, dove c’è anche il MAT spazio teatro, 40 posti. Citano molti nobili antecedenti, tra cui l’Odin Teatret di Eugenio Barba, da cui sembra assimilare taluni procedimenti, per esempio la dissociazione tra gesto e parola recitata. Evidente proprio all’inizio, nel bellissimo monologo-dialogo con sé stessa e il mondo, di Antigone. Il racconto e la situazione si realizzano non solo nel discorso dell’attrice, ma anche nei gesti che sembrano negarlo, contraddirlo. Togliersi e mettersi le scarpe. Indicare un luogo e volgere il viso da un’altra parte. Poi, l’uomo di spalle si volta. Capiamo che è Creonte. Più che palare sussurra. Sembra quasi una recitazione naturale, realistica, tradizionale. Non lo è, sta a indicare la tradizionalità, la naturalezza del Potere. Ma dice cose terribili, annienta la ragazza con le parole. Ma lei non ci sta. Dice no, appunto. E gli rinfaccia, a lui, al Tiranno, al Potere, come in Alfieri (altra bellissima tragedia), di dire sì. Lui si mostra allora protettivo. Ma lei rifiuta quella protezione. Fino a lasciarsi annientare, accucciata dietro l’insegna SALE. Anche qui il conflitto non è sanabile se non con l’annientamento di una delle due parti. Che è poi lo spirito della tragedia. Quando il conflitto si sana, si ricompone, afferma Goethe, e non c’è più tragedia, c’è la commedia del mondo moderno. Anhouil, messo a faccia a faccia con il furore nazista, ci ricorda che la tragedia invece persiste, c’è anche nel mondo moderno, e anche nel mondo moderno non c’è soluzione del conflitto se non con l’annientamento di una delle due parti. La chiesa sconsacrata è piena, e il pubblico segue silenzioso, col fiato sospeso, la vicenda, il contrasto. Alla fine gli attori dialogano con il pubblico. E Titta Ceccano spiega che hanno voluto rappresentare in Creonte il Potere che uccide i giovani. Messaggio di un’attualità quanto mai sconvolgente. Sia che i giovani debbano contrastarlo, il Potere, o farsi strada nelle sue spire soffocanti, lavoro, disoccupazione, fame, e che cosa più? – sia che ne se ne facciano strumenti per imporre un nuovo ordine, come i terroristi, i combattenti dell’ISIS, i kamikaze, e altri -, perfino i giovani delle organizzazioni criminali, perché no? anche loro un modo per contrastare un potere e affermarne un altro – ma chi guida, controlla, domina anche questi giovani che si credono strumenti di un nuovo ordine? Be’: le riflessioni non mancano. Si esce con l’animo e la mente pieni di domande senza risposta. Come dice Julia Borretti: queste domande ce le facciamo da sempre, e da sempre non trovano risposta. A questo punto viene in mente anche il “Pilade” di Pasolini.
Lo spettacolo è stato dato nell’ambito di una rassegna culturale annuale, “in viaggio tra teatro, cinema, musica e poesia”, organizzata a Montopoli di Sabina dalla Regione Lazio, dal Comune di Montopoli di Sabina e, soprattutto, dal Teatro delle Condizioni Avverse, nome ch’è tutto un programma. Viene spontanea a questo punto una riflessione: cose simili non si sono viste a Roma, a Milano, a Torino, alla Biennale di Venezia, ma in un Borgo della Sabina che conta poco più di 3.000 abitanti. Nel sottopasso che conduce al Comune, ci sono alcuni murales assai belli. E tutto il borgo sembra fermo nel tempo. Immerso nel silenzio dei bellissimi colli sabini. E tuttavia, invece, la vita moderna prende anche qui il respiro del teatro moderno. E con invidiabile forza, con invenzione rappresentativa. Funziona, sembra, se uno spettacolo così difficile richiama un pubblico folto. Che applaude e discute. Animatamente, e con partecipazione.

Fiano Romano, 12 aprile 2016

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