venerdì 8 aprile 2016

Domenico Zipoli interpretato da Giovanni Nesi



DOMENICO ZIPOLI.  COMPLETE SUITES & PARTITAS. Giovanni Nesi, piano. Héritage. HTGCD 298

La maggior parte dei manuali di storia della musica andrebbe gettata nei cestini della carta straccia. Ossessionati come sono i loro autori di trovare moduli e modelli costanti delle forme musicali, conducono fuori strada il lettore. Quasi sempre la descrizione della cosiddetta forma sonata è sbagliata. Si legge: primo tema, ritmico, e i più ottusi aggiungono “maschile”, secondo tema, melodico, naturalmente “femminile”. Qui già siamo fuori strada. Spesso una sonata, un quartetto, una sinfonia di Haydn hanno il primo movimento monotematico. E allora i casi sono due: o Haydn non sa costruire un tempo in forma sonata, o tale forma non obbliga alla costruzione di due temi. Inoltre, tanto per fare un esempio, la bellissima Sonata in la maggiore op. 101 di Beethoven attacca con un tema che più cantabile non si può. Dov’è andato a finire il primo tema “maschile”, che sarebbe anzi tipico di Beethoven? Non si contano, del resto, le pagine beethoveniane che cominciano con un tema di grande cantabilità: la “Sinfonia Pastorale”, il Trio dell’”Arciduca”, la Sonata per violino e pianoforte detta “Primavera”. Non va meglio, quanto a esattezza della descrizione formale, con la suite. Tutti, o quasi, dicono e scrivono che la successione delle danze è allemanda, corrente, sarabanda e giga, con altre danze talora inserite tra la corrente e la sarabanda o tra la sarabanda e la giga, ma tutte le suites finirebbero con una giga.  Ora questa è, più o meno, la successione adottata da Johann Sebastian Bach. Ma prima di Bach e tra i musicisti coevi di Bach troviamo altre successioni. Purcell finisce le sue suites ora con un minuetto ora con una sarabanda ora con un’altra danza, per esempio una hornpipe. Questa forse troppo lunga premessa per dire che anche Domenico Zipoli non rispetta la successione dei manuali. Le sue quattro suites finiscono la prima con una gavotta, la seconda e la terza con una giga, la quarta con un minuetto. Nato a Prato nel 1688, dunque tre anni dopo Johann Sebastian Bach, muore a Córdoba, in Argentina, nel 1726. Entrato nell’Ordine dei Gesuiti e ordinatosi sacerdote, era partito da Cadice nove anni prima. Come gli altri gesuiti, fu sempre attento alle condizioni dei nativi. E ai nativi del continente sudamericano trasmise il suo amore per la musica, ma estrasse anche il loro innato talento, coltivò la loro disposizione musicale, li aiutò in ogni modo a conquistarsi un’autonomia economica. Va detto, tra parentesi, che fu proprio quest’attività di protezione dei nativi a irritare le corti europee e a chiedere e ottenere l’abolizione dell’Ordine. Per gratitudine, i nativi ci hanno, invece, conservato i suoi manoscritti. Il giovane pianista fiorentino Giovanni Nesi ci restituisce in questo bellissimo cd tutt’e quattro le suites e le due partite di Domenico Zipoli. Le suona sul pianoforte. Il padovano Bartolomeo Cristofori, lo aveva inventato proprio a Firenze alla fine del Seicento. Ma la fortuna dello strumento cominciò solo più tardi, con le modifiche apportate a Berlino da Johann Gottfried  Silbermann, verso la metà del secolo. Lo strumento così modificato piacque anche a Johann Sebastian Bach, che non aveva, invece, prima apprezzato lo strumento di Cristofori. Ma Zipoli compone i suoi pezzi per tastiera pensando o all’organo o al clavicembalo. La distinzione tra gli strumenti forniti di tastiera non era rigida. Lo stesso Bach immagina il “Clavicembalo ben temperato” per qualunque tastiera, e forse pensa preferibilmente al clavicordo, come farebbe supporre l’estensione di quattro ottave per tutti e due i volumi dell’opera, che è appunto l’estensione di un clavicordo. Il titolo italiano, traduzione della traduzione francese con cui l’opera arriva in Italia, non rende giustizia alle intenzioni di Bach. “Wohltemperierte Klavier” significa, infatti, “Tastiera ben temperata” e non “Clavicembalo ben temperato”. Ci si aspetterebbe, dunque, che Zipoli debba essere suonato sul clavicembalo, il pianoforte s’impose dopo la sua morte (quello che chiamiamo “fortepiano” per distinguerlo dal pianoforte ottocentesco con il doppio scappamento, è in realtà già un pianoforte, tant’è vero che i russi, per esempio, usano il termine “fortepiano” per indicare il pianoforte). I fondamentalisti filologici che pretendano per Zipoli esclusivamente un clavicembalo, però si sbagliano. Prima di tutto perché, come si è detto, i confini tra gli strumenti non era tra Seicento e Settecento così rigido, e poi perché l’ossessione dell’esattezza timbrica è un’ossessione moderna, ignota ai compositori barocchi. Ne fanno fede le trascrizioni per tastiera che Bach compone dai Concerti di Vivaldi. Il timbro aveva più che altro funzione di colore evocativo, l’oboe per le atmosfere pastorali, il trombone per le scene teatrali di oracoli, la tromba per le celebrazioni trionfali. Il che non significa che Bach o Corelli o Handel non stessero attenti agli equilibri timbrici di un organico orchestrale, ma solo che ciò non costituiva per loro un’ossessione come, dopo il romanticismo, lo è per noi. Godiamoci pertanto questo Zipoli sul pianoforte senza complessi d’inadeguatezza. Potrebbe risultare perfino più interessante di uno Zipoli suonato sul clavicembalo. L’orecchio moderno non sente più il clavicembalo come uno strumento contemporaneo, ma il pianoforte sì. Per essere apprezzata nel suo vero valore storico ed estetico (le due cose sono interdipendenti), l’interpretazione sul clavicembalo richiede un’operazione intellettuale di ricollocazione storica del suono, e allora se ne gode tutto il fascino. Altrimenti il clavicembalo è degradato a strumento “antico”, e perciò esotico. Uso qui l’attributo “antico” non in senso filologico, ma di costume dell’ascoltatore medio, che ne gode perché lo reputa autentico proprio perché diverso dal suono di oggi, e dunque rassicurante, consolante. Tutto ciò è sbagliato. Ai suoi tempi il clavicembalo poteva suonare e suonava anche disturbante, esattamente come molte musiche pianistiche di oggi. E’ questa operazione di ricostruzione del contesto storico che bisogna attuare quando si ascolta suonare un clavicembalo. E non tutti hanno la cultura, la disponibilità psicologica, la libertà intellettuale per attuarla. Il clavicembalo diventa allora per costoro una fuga dal presente, dagli orrori del presente, il rifugio in un paradiso consonante e consolatorio che ci strappi ai dolori dell’oggi.  Quanto arriva a costoro del tormento creativo di un Bach, di un Couperin, di un Rameau?
Ma torniamo allo Zipoli pianistico di Giovanni Nesi. Si ascolti, subito, il preludio della prima suite, in si minore. L’attacco fa pensare a Bach. Ma sia Zipoli sia Bach attingevano a un repertorio comune. La figurazione iterativa di un giambo seguito da una risposta articolata di suoni contigui, quasi banale nella sua genericità, diventa invece un esercizio intenso di cantabilità. Tutto sta nell’inseguire il filo che raccorda le voci che s’interrogano e si rispondono. Il tocco mette in evidenza i punti di tensione, piuttosto che quelli di risoluzione. E il canto si esalta in perpetue spirali che ritornano implacate su sé stesse. Segue, immediata, una corrente il cui moto perpetuo non è altro che l’accelerazione del labirinto melodico del preludio. E anche qui il tocco insiste sui punti di tensione, risolve dolcemente lo scioglimento delle dissonanze. Il resto mantiene le promesse della partenza. Bellissima, sempre in questa suite, l’esitazione dell’aria. Certo, Zipoli queste melodie non le ascoltava con questo suono. Ma forse sì con questa libertà di fraseggio.  E allora, seduti nel nostro studio, ad ascoltare questa musica, invece di essere irrazionalmente trasportati in un’epoca trascorsa che non sappiamo di preciso quale suono avesse, abbandoniamoci a questo suono moderno che la rievoca. Chi sa che non vi riconosciamo tante suggestioni che hanno fatto sorgere altri e più nuovi pellegrinaggi sonori. Ma se lasciamo stare la richiesta di un’autenticità impossibile – nulla di più inautentico che la ricerca dell’autentico, scriveva Karl Kraus – incontreremo, può darsi, la verità di una musica la cui bellezza sta tutta nella delicata elaborazione contrappuntistica di un’intelaiatura sonora che aspira continuamente a cantare. Ed è la dote che più ci affascina nell’interpretazione che Nesi ci regala di queste pagine di Zipoli: l’intensità di un gesto pianistico che aspira al canto. Ma con leggerezza. Il sublime e il discorde sono accuratamente evitati, per mantenersi nell’aurea medietas di una musica perennemente discorsiva.  Esito veramente notevole, che suscita insieme piacere intellettuale e ammirazione.

Nel libretto allegato al cd molto chiare, preziose e documentate, le note di Gregorio Moppi.

Fiano Romano, 8 aprile 2016

2 commenti:

  1. Disco davvero bello e recensione intensa e ben pensata. La musica di Zipoli va riscoperta, per la sua eleganza e la sua raffinata cantabilità polifonica

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  2. Grazie mille delle tue parole, Carlo87. Meritavano un elogio caldo e sincero sia la musica di Zipoli che l'interpretazione di Giocanni Nesi. Mi piacerebbe conoscerti meglio. Mi trovi qui su Google, ma anche su Facebook, con il mio nome. Se mai, chiedimi l'amicizia su FB. A presto. Dino

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