DOMENICO ZIPOLI. COMPLETE SUITES & PARTITAS. Giovanni Nesi, piano. Héritage. HTGCD
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La maggior parte dei manuali di storia della musica
andrebbe gettata nei cestini della carta straccia. Ossessionati come sono i
loro autori di trovare moduli e modelli costanti delle forme musicali,
conducono fuori strada il lettore. Quasi sempre la descrizione della cosiddetta
forma sonata è sbagliata. Si legge: primo tema, ritmico, e i più ottusi
aggiungono “maschile”, secondo tema, melodico, naturalmente “femminile”. Qui
già siamo fuori strada. Spesso una sonata, un quartetto, una sinfonia di Haydn
hanno il primo movimento monotematico. E allora i casi sono due: o Haydn non sa
costruire un tempo in forma sonata, o tale forma non obbliga alla costruzione
di due temi. Inoltre, tanto per fare un esempio, la bellissima Sonata in la
maggiore op. 101 di Beethoven attacca con un tema che più cantabile non si può.
Dov’è andato a finire il primo tema “maschile”, che sarebbe anzi tipico di
Beethoven? Non si contano, del resto, le pagine beethoveniane che cominciano
con un tema di grande cantabilità: la “Sinfonia Pastorale”, il Trio
dell’”Arciduca”, la Sonata per violino e pianoforte detta “Primavera”. Non va
meglio, quanto a esattezza della descrizione formale, con la suite. Tutti, o
quasi, dicono e scrivono che la successione delle danze è allemanda, corrente,
sarabanda e giga, con altre danze talora inserite tra la corrente e la
sarabanda o tra la sarabanda e la giga, ma tutte le suites finirebbero con una
giga. Ora questa è, più o meno, la
successione adottata da Johann Sebastian Bach. Ma prima di Bach e tra i
musicisti coevi di Bach troviamo altre successioni. Purcell finisce le sue
suites ora con un minuetto ora con una sarabanda ora con un’altra danza, per
esempio una hornpipe. Questa forse troppo lunga premessa per dire che anche
Domenico Zipoli non rispetta la successione dei manuali. Le sue quattro suites
finiscono la prima con una gavotta, la seconda e la terza con una giga, la
quarta con un minuetto. Nato a Prato nel 1688, dunque tre anni dopo Johann
Sebastian Bach, muore a Córdoba, in Argentina, nel 1726. Entrato nell’Ordine
dei Gesuiti e ordinatosi sacerdote, era partito da Cadice nove anni prima. Come
gli altri gesuiti, fu sempre attento alle condizioni dei nativi. E ai nativi
del continente sudamericano trasmise il suo amore per la musica, ma estrasse
anche il loro innato talento, coltivò la loro disposizione musicale, li aiutò
in ogni modo a conquistarsi un’autonomia economica. Va detto, tra parentesi,
che fu proprio quest’attività di protezione dei nativi a irritare le corti
europee e a chiedere e ottenere l’abolizione dell’Ordine. Per gratitudine, i
nativi ci hanno, invece, conservato i suoi manoscritti. Il giovane pianista
fiorentino Giovanni Nesi ci restituisce in questo bellissimo cd tutt’e quattro
le suites e le due partite di Domenico Zipoli. Le suona sul pianoforte. Il
padovano Bartolomeo Cristofori, lo aveva inventato proprio a Firenze alla fine
del Seicento. Ma la fortuna dello strumento cominciò solo più tardi, con le
modifiche apportate a Berlino da Johann Gottfried Silbermann, verso la metà del secolo. Lo
strumento così modificato piacque anche a Johann Sebastian Bach, che non aveva,
invece, prima apprezzato lo strumento di Cristofori. Ma Zipoli compone i suoi
pezzi per tastiera pensando o all’organo o al clavicembalo. La distinzione tra
gli strumenti forniti di tastiera non era rigida. Lo stesso Bach immagina il “Clavicembalo
ben temperato” per qualunque tastiera, e forse pensa preferibilmente al clavicordo,
come farebbe supporre l’estensione di quattro ottave per tutti e due i volumi
dell’opera, che è appunto l’estensione di un clavicordo. Il titolo italiano,
traduzione della traduzione francese con cui l’opera arriva in Italia, non
rende giustizia alle intenzioni di Bach. “Wohltemperierte Klavier” significa, infatti,
“Tastiera ben temperata” e non “Clavicembalo ben temperato”. Ci si aspetterebbe,
dunque, che Zipoli debba essere suonato sul clavicembalo, il pianoforte
s’impose dopo la sua morte (quello che chiamiamo “fortepiano” per distinguerlo
dal pianoforte ottocentesco con il doppio scappamento, è in realtà già un
pianoforte, tant’è vero che i russi, per esempio, usano il termine “fortepiano”
per indicare il pianoforte). I fondamentalisti filologici che pretendano per
Zipoli esclusivamente un clavicembalo, però si sbagliano. Prima di tutto
perché, come si è detto, i confini tra gli strumenti non era tra Seicento e
Settecento così rigido, e poi perché l’ossessione dell’esattezza timbrica è un’ossessione
moderna, ignota ai compositori barocchi. Ne fanno fede le trascrizioni per
tastiera che Bach compone dai Concerti di Vivaldi. Il timbro aveva più che
altro funzione di colore evocativo, l’oboe per le atmosfere pastorali, il
trombone per le scene teatrali di oracoli, la tromba per le celebrazioni
trionfali. Il che non significa che Bach o Corelli o Handel non stessero
attenti agli equilibri timbrici di un organico orchestrale, ma solo che ciò non
costituiva per loro un’ossessione come, dopo il romanticismo, lo è per noi.
Godiamoci pertanto questo Zipoli sul pianoforte senza complessi
d’inadeguatezza. Potrebbe risultare perfino più interessante di uno Zipoli
suonato sul clavicembalo. L’orecchio moderno non sente più il clavicembalo come
uno strumento contemporaneo, ma il pianoforte sì. Per essere apprezzata nel suo
vero valore storico ed estetico (le due cose sono interdipendenti), l’interpretazione
sul clavicembalo richiede un’operazione intellettuale di ricollocazione storica
del suono, e allora se ne gode tutto il fascino. Altrimenti il clavicembalo è
degradato a strumento “antico”, e perciò esotico. Uso qui l’attributo “antico”
non in senso filologico, ma di costume dell’ascoltatore medio, che ne gode
perché lo reputa autentico proprio perché diverso dal suono di oggi, e dunque
rassicurante, consolante. Tutto ciò è sbagliato. Ai suoi tempi il clavicembalo
poteva suonare e suonava anche disturbante, esattamente come molte musiche
pianistiche di oggi. E’ questa operazione di ricostruzione del contesto storico
che bisogna attuare quando si ascolta suonare un clavicembalo. E non tutti
hanno la cultura, la disponibilità psicologica, la libertà intellettuale per
attuarla. Il clavicembalo diventa allora per costoro una fuga dal presente,
dagli orrori del presente, il rifugio in un paradiso consonante e consolatorio
che ci strappi ai dolori dell’oggi.
Quanto arriva a costoro del tormento creativo di un Bach, di un
Couperin, di un Rameau?
Ma torniamo allo Zipoli pianistico di Giovanni Nesi.
Si ascolti, subito, il preludio della prima suite, in si minore. L’attacco fa
pensare a Bach. Ma sia Zipoli sia Bach attingevano a un repertorio comune. La
figurazione iterativa di un giambo seguito da una risposta articolata di suoni
contigui, quasi banale nella sua genericità, diventa invece un esercizio
intenso di cantabilità. Tutto sta nell’inseguire il filo che raccorda le voci
che s’interrogano e si rispondono. Il tocco mette in evidenza i punti di
tensione, piuttosto che quelli di risoluzione. E il canto si esalta in perpetue
spirali che ritornano implacate su sé stesse. Segue, immediata, una corrente il
cui moto perpetuo non è altro che l’accelerazione del labirinto melodico del
preludio. E anche qui il tocco insiste sui punti di tensione, risolve
dolcemente lo scioglimento delle dissonanze. Il resto mantiene le promesse
della partenza. Bellissima, sempre in questa suite, l’esitazione dell’aria.
Certo, Zipoli queste melodie non le ascoltava con questo suono. Ma forse sì con
questa libertà di fraseggio. E allora,
seduti nel nostro studio, ad ascoltare questa musica, invece di essere
irrazionalmente trasportati in un’epoca trascorsa che non sappiamo di preciso
quale suono avesse, abbandoniamoci a questo suono moderno che la rievoca. Chi
sa che non vi riconosciamo tante suggestioni che hanno fatto sorgere altri e
più nuovi pellegrinaggi sonori. Ma se lasciamo stare la richiesta di
un’autenticità impossibile – nulla di più inautentico che la ricerca
dell’autentico, scriveva Karl Kraus – incontreremo, può darsi, la verità di una
musica la cui bellezza sta tutta nella delicata elaborazione contrappuntistica
di un’intelaiatura sonora che aspira continuamente a cantare. Ed è la dote che
più ci affascina nell’interpretazione che Nesi ci regala di queste pagine di
Zipoli: l’intensità di un gesto pianistico che aspira al canto. Ma con
leggerezza. Il sublime e il discorde sono accuratamente evitati, per mantenersi
nell’aurea medietas di una musica perennemente discorsiva. Esito veramente notevole, che suscita insieme
piacere intellettuale e ammirazione.
Nel libretto allegato al cd molto chiare, preziose e documentate,
le note di Gregorio Moppi.
Fiano Romano, 8 aprile 2016
Disco davvero bello e recensione intensa e ben pensata. La musica di Zipoli va riscoperta, per la sua eleganza e la sua raffinata cantabilità polifonica
RispondiEliminaGrazie mille delle tue parole, Carlo87. Meritavano un elogio caldo e sincero sia la musica di Zipoli che l'interpretazione di Giocanni Nesi. Mi piacerebbe conoscerti meglio. Mi trovi qui su Google, ma anche su Facebook, con il mio nome. Se mai, chiedimi l'amicizia su FB. A presto. Dino
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