martedì 19 giugno 2018

Miguel Ángel Hernández Navarro, El dolor de los demás

Miguel Ángel Hernández, El dolor de los demás, Barcelona, Anagrama, 2018, pagg. 310



Le righe finali non solo riepilogano il senso di tutta la narrazione, ma sono anche un manifesto di poetica e insieme di scelta di vita. Entrare e uscire dalla letteratura come un viaggio di entrata e di uscita dalla propria esistenza e da quella degli altri, anche dei morti. Senza per questo confondere la vita con la letteratura, anzi ponendosi proprio il problema di come sia possibile fare letteratura della vita, e in particolae della propria vita, senza cadere nella trappola dell’autobiografia o, peggio, di un genere ormai abusato, quello della cosiddetta autofiction. La lingua spagnola, rispetto all’italiano, ha il vantaggio di possedere un termine assolutamente equivalente dell’inglese fiction, ed è ficción. Ficciones s’intitola uno dei libri più belli di Borges. Ma sarebbe fuorviante tradurlo con Finzioni. La parola spagnola ficción, come l’inglese fiction, si avvicina di più al senso dell’italiano invenzione, o immaginazione, sulla base del presupposto che comunque non si tratta della realtà ma, appunto, di una finzione. Una finzione che è insieme invenzione e immaginazione. Insomma, quell’uscire dalla realtà e rientrarvi che fa del Don Chisciotte o della Vita è sogno i capolavori indimenticabili che sono, ne fa i modelli, anzi, insuperati, del romanzo e del teatro moderno.

Ma il romanzo di Hernández mette in discussione proprio questo. Non è né fictionautofiction né, tanto meno, autobiografia. E’ una ricerca, un conflitto all’ultimo sangue, su come trasferire nella pagina un dolore rimosso, una ferita ancora aperta, senza perciò cadere per questo nella confessione. Un romanzo, e basta. L’oggetto è un episodio doloroso della propria vita. Questo: l’amico del cuore, il compagno dell’adolescenza, compagno del liceo, dei giochi a carte, a pallone, a domino, venti anni prima, uccide la sorella e si butta in un burrone. Il romanzo parte da qui, dall’orrore rimosso, taciuto e soffocato per venti anni. Lo scrittore ora indaga il momento in cui il fatto gli fu comunicato. E da lì cerca di ricostruire non tanto il fatto, ma il senso e la qualità di un rapporto di amicizia, cerca di spiegarsi come fosse possibile immaginare nell’amico il mostro che ammazza la sorella e si butta in un burrone. Nessuno poteva immaginarlo. Ecco quindi che il lavoro dello scrittore si mescola con la memoria dell’autore. I nomi non sono cambiati. Anzi viene annunciato a ciascuna delle persone coinvolte nella tragedia che diventerà personaggio del romanzo. Alcuni se ne rallegrano, pensano di condividere la fama dello scrittore - nel caffè dove si riuniscono ci sono le foto dello scrittore, dei suoi libri -, altri chiedono di cambiare nome, hanno paura. Ma è curioso proprio questo programmare la struttura del romanzo con le persone che ne faranno parte. E’ un entrare nella vita e farne materia di un romanzo. Ma non è proprio la cronaca di un fatto realmente accaduto, non è A sangue freddo di Capote. E’ un’altra l’operazione: non raccontare sé stesso, o l’amico, o i familiari e tutti coloro che furono travolti da quel dolore, bensì farne la materia di una scrittura, nemmeno di un racconto, ma di una scrittura che indaghi come si racconta, come si fa pagina, parola, letteratura, la vita vissuta.

Prima di continuare l’analisi del romanzo, alcuni dati. Miguel Ángel Hernández insegna Storia dell’Arte all’Università di Murcia. Il suo rapporto con l’immagine è dunque non solo una personale inclinazione, una curiosità intellettuale, ma impegno professionale. Ora l’immagine, e in particolare l’immagine artistica, ha una storia: non solo un quadro di Velázquez, di Rembrandt, di Caravaggio, ma anche una fotografia raccolta in un album personale o in un album di famiglia, e perfino la fotografia scattata per caso in una gita turistica, o il selfie scattato davanti a un monumento, insieme all’amico, all’amato, all’amata. Quel momento fissato nell’immagine non è, quando lo rivedo, il momento del passato in cui l’immagine fu fissata, bensì il momento del presente in cui guardando l’immagine la memoria ricostruisce l’attimo del passato. L’arte contemporanea di ciò ha fatto la propria ossessione. L’arte diventa il luogo di resistenza contro il tempo moderno, un tempo che ingoia e cancella tutto, scrive Hernánddez in un suo saggio sull’arte moderna, Materializar el pasado, el artista como historiador (benjaminiano), materializzare il passato, l’artista come storico (benjaminiano).




Questa intuizione ha un peso decisivo nell’ultimo romanzo di Hernández. Ma in realtà in tutta l’opera dello scrittore e storico dell’arte. Un altro suo saggio, bellissimo, s’intitola Presente continuo (in italiano il titolo resterebbe uguale). Su questa intuizione Aristotele aveva negato la realtà del tempo, limitando il tempo alla sola misurazione umana del movimento. Uno spazio senza corpi non sarebbe spazio e non conoscerebbe il tempo. Ma movimento per Aristotele è anche la crescita di una pianta, di un animale. Di questa crescita, però, possiamo sì concepire una storia, ma coglierla mai: la pianta, e l’animale, sono, sempre, solo quello che vediamo e tocchiamo nell’attimo in cui le nostre vite si toccano. Di fatto, la storia, il pensiero, la conoscenza, si hanno solo perché siamo animali che possiedono il linguaggio, anzi gli unici animali del pianeta che parlano. E la moderna neurobiologia dà ragione ad Aristotele. Ciò che conosciamo non è il mondo come è, la storia come è avvenuta, ma ciò che del mondo, e della sua storia, ci fa conoscere il linguaggio con cui li rappresentiamo, sia il mondo sia la sua storia, li raccontiamo, e li raccontiamo non già come realmente si sono trasformati, ma come li cogliamo nell’attimo in cui li rappresentiamo, nella situazione di contatto in cui li circoscriviamo e assumiamo nel nostro linguaggio. E la matematica? potrebbe obiettarmi qualcuno. La matematica, così come la fisica, è anch’essa linguaggio, rappresentazione, la nostra rappresentazione dei fenomeni. Non è il fenomeno, ma la sua rappresentazione simbolica. Torniamo, ora, al romanzo di Hernández.



La narrazione procede per stacchi temporali vertiginosi tra presente e passato, ma poi il passato s’inserisce nel presente, lo assimila, non si fa tanto memoria, quanto incubo, paura, disorientamento. Lo stile, secco, spigoloso, segue questo andirivieni della memoria, e dietro la memoria, del sentimento del presente che riassorbe il dolore del passato. Hernández ci ha abituati a questi giochi di una realtà che sfugge, che non si lascia afferrare, all’indeterminatezza dell’immagine, anche quella apparentemente più precisa, nei suoi due bellissimi romanzi precedenti: Intento de escapada (tradotto in italiano con il titolo di Tentativi di fuga (edizioni E/O) e El instante de peligro, l’istante di pericolo, entrambi pubblicati da Anagrama. Sono due romanzi che parlano dell’arte di oggi e attraverso l’arte parlano dell’indecifrabilità della vita di oggi.

Nel primo romanzo si descrive l’installazione che nasconde un rifugiato dentro una cassa di legno: dopo qualche giorno la cassa comincia a puzzare e si teme il peggio. Nel secondo romanzo un’artista triestina cerca la propria identità in vecchie fotografie che cancella con l’acido, e in alcuni film che proiettano sempre la stessa ombra sullo stesso muro. In qualche modo questo terzo romanzo tira le fila degli altri due. Anche qui la ricerca dell’immagine – dell’altro e di sé stesso – fallisce, l’immagine sfugge, non corrisponde alla realtà, né a quella che si ricorda né a quella che si vive nel momento in cui la si ricorda. L’amico amatissimo che ammazza la sorella, dopo averla forse stuprata, e poi si butta in un burrone, è l’amico che ricorda, senza averne mai presentito il mostro nascosto, ma sorge il sospetto che il mostro si manifestasse anche nel compagno di giochi che non vuole mai perdere, che s’accanisce sulla carta vincente, sulla tessera del domino, che sembra non guardare più nessuno, l’occhio fisso a un sé precluso agli altri, un sé che domina, deve dominare gli altri.



Ciò che dal tempo permane, ancora, nel ricordo, nella volontà stessa di raccontarlo, quel dolore, è la sua indicibilità. Ma proprio per questo lo scrittore vuole forzare l’indicibile, trovare le parole che raccontino ciò che non si può dire. L’uomo, l’amico e lo scrittore sembrano coincidere durante la ricerca dei testimoni, del rapporto della polizia, che però gli sarà negato di consultare. Ma non coincidono. E sta lì il dramma dello scrittore: di fare del dolore degli altri e del proprio rimosso dolore materia della scrittura. Innominato, innominabile: perché la parola sarà sempre insufficiente a restituirne la ferita, la lacerazione, l’abisso. Quello che l’amico, e poi lo scrittore, ricordando, vedono negli occhi della madre dell’assassino.

Nel padre, invece, vede il niente, il vuoto, che prende la forma dell’inganno, della menzogna, il figlio non ha ucciso la sorella, la Rosi è stata ammazzata da ladri criminali e Nicolás è stato trascinato via e gettato nel burrone. La menzogna è la maschera del nulla, la maschera del dolore che s’impedisce di riconoscere un assassino nel figlio. Ma sono forse più veri la consapevolezza, o il mormorio segreto, calunnioso degli altri? La fotografia sulla lapide del cimitero sembrerà all’uomo e allo scrittore rivelare il mistero di quell’orrore. Lo sguardo dell’amico, infatti, come gli appare dalla fotografia della lapide, è già pieno di quell’orrore. Ma non perché l’amico fosse un mostro. Anzi lo scrittore, e l’amico, riconosce in quello sguardo qualcosa del proprio sguardo. Ciascuno di noi può possedere uno sguardo simile, contenere dentro di sé un mostro nascosto. Ma ritorniamo un momento indietro. Ecco la scena dell’inizio, la scena della scoperta del crimine.

Nada …
Y eso es lo que nadie entiende. La nada de lo que no puede ser dicho. La nada que comienza poco a poco a apoderarse del todos los rincones de la escena. La nada que te paraliza y nubla tu mente. La nada y dos preguntas:
¿Quién ha matado a la Rosi?
¿Quién se ha llevado a Nicolás? (pag.15)
Pocos meses más tarde, también ella moriría, de pena, o de incomprensión, de esa imposibilidad de entender cómo la vida se da la vuelta de un momento para otro y todo se tuerce ya sin remedio”. (pag. 34)

(Niente …
E questo è ciò che nessuno capisce. Il niente di ciò che non può essere detto. Il niente che comincia a impossessarsi di tutti gli angoli della scena. Il niente che ti paralizza e annebbia la mente. Il niente e due domande:
Chi ha ammazzato la Rosi?
Chi si è portato via Nicola?)

Pochi mesi più tardi, sarebbe morta anche lei, di pena, o d’incomprensione, di quell’impossibilità di capire come la vita da un momento all’altro volta la faccia e tutto ormai si storce senza rimedio).

Questo romanzo è di una intensità spaventosa, scritto con un controllo della scrittura quasi maniacale, distante, e perciò la scrittura si fa ancora più esplosiva. Tanto più che è un romanzo che esplora qualcosa che è realmente accaduto, e accaduto allo stesso scrittore e l’assassino era il suo migliore amico dell’adolescenza, l’amico del cuore. Ma non è una confessione. E tanto meno la cronaca di un delitto. E’ un romanzo, solo un romanzo, ed è insieme il racconto, la ricerca di come si scrive un romanzo, non qualsiasi romanzo, ma il romanzo che si scrive su un ricordo di qualcosa di terribile accaduto venti anni prima, qualcosa d’insopportabile che viene subito rimosso, ma che ora riaffiora, e riaffiorando “evoca demoni”, tutti i demoni, della vita e della scrittura, dell’amico suicida, dello scrittore, di “tutti gli altri”.

L’esergo del romanzo è una frase di Susan Sontag: “La memoria è, dolorosamente, l’unico rapporto che possiamo avere con i morti”.

E’ il romanzo che affronta i demoni della giovinezza, anzi li evoca, come si è detto, e come confessa lo stesso Hernández, che nel momento di scriverlo è insieme sé stesso e scrittore, lo scrittore che riflette sulla scrittura di questa evocazione. Molti, dunque, i piani che s’intrecciano. Nella più pura tradizione spagnola, anzi hispanoamericana. Da Cervantes a Calderón, da Borges a Piglia.

Quando le vede uscire dalla chiesa, le due bare, dell’amico, e della sorella uccisa, non fanno capire quale corpo sia racchiuso in ciascuna. Questa indeterminatezza accresce il dolore, confonde assassino e vittima. Il giovane amico dell’assassino, non ancora scrittore, si chiude in camera propria, si butta sul letto.


“Nicolás …, dices ahora tendido en la cama.
Y evocas en una imagen la vida que has pasado junto a él.
Nicolás …, repites en voz alta.
E intentas, por primera vez, comprender la muerte”. (pag. 180)

(Nicola … , dici adesso steso sul letto.
Ed evochi in un’immagine la vita che hai trascorso insieme a lui.
Nicola … , ripeti a voce alta.
E cerchi, per la prima volta, di capire la morte).

In una fotografia la figura finora in secondo piano, quella della vittima, prende corpo. E lo scrittore si accorge che al racconto manca il personaggio di lei. Va a trovare un’amica di Rosi. Mentre parlano l’amica fuma una sigaretta dietro l’altra e non nasconde il suo odio per l’assassino. Lo scrittore nota che l’amico da lui amato può essere odiato dagli altri. Anche questo, un dolore inespresso, irredento. Lo scrittore – e l’amico – va nel cimitero a visitare la cappella della sventurata famiglia. E lì capisce che il romanzo non era la storia di un crimine, ma il prendere consapevolezza di tutto questo dolore inspiegato, inspiegabile, indicibile, senza redenzione, né in questa vita né in nessun’altra. Ed eccole le righe finali. La conclusione di un grande romanzo, uno dei più belli tra quelli scritti negli ultimi anni, anzi forse negli ultimi decenni.

“Regresarás entonces a estas notas dispersas. Darás forma a los garabatos que una tarde arrojaste a la basura. Comprenderás que el muro de niebla jamás logrará disiparse, que la noche amarga permanecerá anclada en el tiempo. Pero también intuirás por fin lo que late dentrás de la bruma. Descubrirás entonces las grietas por donde la luz se cuela. Y entenderás por vez primera lo que importan las palabras. Las que duelen y las que salvan. Las que se escriben en un cuaderno y las que se dicen al oído. Las que se guardan en el alma y las que tardan media vida en llegar”. (pag. 305)

(Ritornerai allora a questi appunti dispersi. Darai forma agli scarabocchi che un pomeriggio gettasti nella spazzatura. Capirai che il muro di nebbia non arriverà mai a dissiparsi, che la notte amara rimarrà ancorata nel tempo. Ma intuirai anche finalmente ciò che pulsa dietro la bruma. Scoprirai allora le grate attraverso le quali sgocciola la luce. E capirai per la prima volta ciò che importano le parole. Quelle che fanno male e quelle che salvano. Quelle che si scrivono in un quaderno e quelle che si dicono all’orecchio. Quelle che si custodiscono nell’anima e quelle che tardano mezza vita ad arrivare).

Fiano Romano, 19 giugno 2018

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