“La
verità su quei fatti, su quel delitto, in realtà dal mondo non fu
mai conosciuta … Ovvero: non fu mai rivelata.
“Del
morto il mondo non ha saputo mai niente: due righe di giornale, un
trafiletto in cronaca, e quindi l’oblio. L’uomo, il suo destino,
il fatto …, come uno dei tanti dei cento misteri italiani …,
tutto inghiottito nella nebbia e dal polverone di menzogne che
avvolge l’Italia da oltre settant’anni. Uno dei minori, in
verità, ma non il primo né l’ultimo …” (pag.22)
Credo
che stia qui il nodo di tutto il romanzo. Il più politico di quanti
scritti da Mario Quattrucci. Non che negli altri la politica non
c’entrasse, e c’entra sempre in ogni caso la narrazione di una
società, ma in questo è proprio il soggetto principale del
racconto. Non rivelerò, certo, né l’identità dell’assassinato
né quella dei suoi assassini, perché sarebbe rovinare a chi vi si
accingesse a farlo la lettura del poliziesco. Ma che tipo di
poliziesco sia questo nuovo romanzo di Quattrucci, questo, sì, posso
tentare di definirlo.
Intanto
il contesto storico: 1956. XX Congresso del Partito Comunista
dell’Unione Sovietica. Invasione dei carri armati sovietici a
Budapest (ma di ciò il romanzo non ne parla). Stretta conservatrice
dei governi italiani, nel clima della guerra fredda e delle pressioni
politiche degli USA, oltre che delle imposizioni (eh sì, ci furono!)
del Vaticano. Epurazione degli antifascisti e dei “resistenti”
all’interno delle forze armate e della polizia. L’epurazione dei
fascisti, complice in qualche modo perfino Togliatti che sollecitava
una riconciliazione nazionale, invece non ci fu. In questo l’Italia
seguì una via diversa e opposta a quella della Germania, che invece
volle sgombrare dall’amministrazione e dalla politica del paese
ogni eredità nazista. Ma anche di questo il romanzo non parla. E
proprio in quegli anni comunque cominciarono a formarsi strani
servizi segreti, deviati, uffici di Affari Riservati,
associazioni sovversive che avrebbero segnato dolorosamente la vita
politica dell’Italia fino a tutti gli anni ‘70. In questo senso
il romanzo è un utile memorandum per chi abbia la memoria corta, per
chi ancora parla di pericolo comunista, quando invece il pericolo
veniva se mai dall’altra parte, e se non abbiamo fatto la fine di
certe repubbliche sudamericane è solo perché l’Italia si trova in
Europa : e questo va a chi ancora pensa che l’Europa costituisca
per l’”Itagliano” un ostacolo, un impedimento, una minaccia
allo sviluppo delle sue vere risorse politiche; a chi sostiene, e lo
va gridando, che l’Europa ci soffoca.
Il
quadro che ne esce non è consolante. Il delitto verrà conosciuto,
rivelato, solo per l’ostinazione di un ex-commissario antifascista
e di un gruppo di giovani comunisti. Ma la rivelazione sarà più
dolorosa di un colpo di Stato, di un tentativo di sovversione (che
pure ci furono) sventato, perché il crimine non andava cercato dove
ragionevolmente lo si poteva sospettare, bensì altrove. Ma mi fermo
qui, per non rivelare di più. Il romanzo è scritto nella solita, e
bellissima, prosa colloquiale di Quattrucci, infarcita di punti
sospensivi, di espressioni romane e di altre regioni – c’è
perfino un “burdel” (ragazzo) ch’è vocabolo romagnolo – e
non mancano allusioni dotte, sono anzi l’aspetto costante, che
ritorna, in tutti i romanzi di Quattrucci, a indicare la
complementarietà di cultura e società, la non divisibilità di un
livello alto, chiuso nelle torri d’avorio, e di uno basso che si
occupa solo delle miserie umane. Un romanzo non può, non deve farlo.
Potrà delimitare i suoi campi semiologici un saggio, uno studio
scientifico, ma non un romanzo: come già c’insegna Manzoni, e
ancora più, il maestro sempre sottinteso di queste pagine: Gadda.
Due,
di queste allusioni, sono una chicca, una vera goduria per chi le
riconosce: si trovano a pagina 25: “continuiamo a credere che se la
storia non è maestra di niente che ci riguardi pure senza conoscerla
non possiamo comprendere niente nemmeno noi”. L’allusione è a
una poesia di Montale, in Satura. Montale, a dire il vero, scrive
ironicamente “magistra”, alludendo al proverbio latino che la
poesia smentisce: historia magistra vitae. La seconda, qualche rigo
più sotto, al paragrafo seguente: “E dunque narriamola questa
storia. Anche se essa non fu che un fattaccio, un fatterello, un
inciso minuscolo nella vicenda del mondo, un brufolo sulla pelle del
tempo”. Quel “brufolo” è tratto dallo Zibaldone di Leopardi.
Veramente Leopardi parla di “bruscolo”: “Il tutto esistente; il
complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un
neo, un bruscolo in metafisica” (pag. 4174, Bologna, 17 aprile
1826). E con questo pensiero consolante – in tempo di segregazione
antiepidemica – consoliamoci ricordando le malefatte degli italiani
che gli italiani così presto dimenticano. Oggi più che mai, sembra
consigliarci Quattrucci, vanno invece tenute presenti: perché Dio –
o chi per lui – non voglia che si ritorni a perpetrarle, da parte
dei soliti noti. Gli indizi non mancano. Sta solo a noi che restino
soltanto indizi.
Mario Quattrucci, Quel
delitto del ‘56. La verità su quei fatti, su quel delitto non fu
mai conosciuta … Ovvero non fu mai rivelata, Sestri Levante,
Oltre Edizioni, “Letture del mondo”, 2020, pagg. 134, € 14,00
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