Molti italiani sembrano
provare una grande fatica a distinguere, nell’atto che formalizza
una differenza tra fenomeni diversi, l’accertamento, la cognizione
da una parte, della differenza, dal giudizio di valore che
dall’altra tale distinzione presupporrebbe. E questa resistenza,
questa difficoltà a distinguere l’accertamento di una differenza
dal giudizio di valore, la si riscontra in molti campi. Perfino in
quello, apparentemente innocuo, del giudizio estetico. Le differenze
dei generi sono, infatti, sentite da molti come gerarchia di valori
estetici degli stessi generi. I pittori italiani hanno dipinto, dal
Quattrocento in poi, meravigliosi paesaggi. Ma non hanno mai fatto
del paesaggio il soggetto della pittura. Bisognerà aspettare i
pittori francesi e olandesi del Seicento perché il paesaggio
assurgesse a dignità di soggetto pittorico. E così anche in
letteratura: il romanzo è una cosa. Il romanzo poliziesco un’altra:
un genere “inferiore”. Il fatto che possa, invece, esistere un
romanzo illeggibile, brutto, e un romanzo poliziesco avvincente,
bellissimo, non incrina questa percezione. Si pensi solo al fatto che
per secoli i letterati italiani lamentassero che alla poesia
italiana, ormai in tutti i generi all’altezza dell’antica, greca
e latina, mancasse però un capolavoro nel genere sublime della
tragedia. Alfieri fu visto come chi tappava il buco. Idem si dica per
la musica. Per quanto tempo in Italia l’operetta è stata
considerata un genere di scarto, un passatempo, rispetto alla serietà
dell’opera? Che poi il Pipistrello di Strauss fosse un capolavoro
e, che so, gran parte invece del teatro di Mascagni qualcosa di non
perfettamente riuscito, non inficiava affatto la differenza dei
generi, nobile quello dell’opera, di divertimento spensierato
l’operetta. Ciò accadeva perché semplicemente non si riusciva a
distinguere il giudizio di genere dal giudizio estetico e pertanto la
differenza di genere diventava differenza di giudizio estetico.
Effetti
più gravi, se non pericolosi, si hanno, però, quando non si riesce
a distinguere, o non si vuole distinguere, il giudizio storico dal
giudizio morale. Che il nazismo e il comunismo siano fenomeni storici
diversi è chiaro a qualunque storico. Ma per qualcuno ciò equivale
a un’assoluzione morale del comunismo. Poiché si dà per scontato,
infatti, che il giudizio morale sul nazismo sia di condanna,
rifiutarsi poi di equiparare il comunismo al nazismo, ostinarsi a
distinguere il comunismo dal nazismo, sembra assolverlo da qualsiasi
condanna. Ma non è questo che si sta dicendo. Si sta invece dicendo
che si tratta di due fenomeni storici fondamentalmente diversi. E lo
storico non può non tenere conto di questa diversità. Certo che se
poi si passa dal giudizio storico al giudizio morale, le cose
cambiano: il crimine resta crimine chiunque lo compia. Ma non è il
giudizio morale di condanna che mi faccia capire che cosa sia stato
il nazismo e che cosa il comunismo. Per comprendere i fenomeno avrò
bisogno dell’analisi storica, e proprio l’analisi storica mi farà
vedere e comprendere la differenza tra il regime nazista e i regimi
comunisti, che non possono tra l’altro uniformarsi tutti al regime
sovietico. E‘, dal punto di vista concettuale, come per il
femminicidio. Devo distinguerlo dal semplice omicidio perché non si
tratta dell’uccisione generica di un uomo, ma dell’uccisione di
una donna perché donna. L’uccisione generica di una donna
differisce infatti anch’essa dal femminicidio. Uccidere una donna
che compie una rapina, per esempio, o un atto terroristico, è sì un
semplice omicidio, perché la uccido in quanto ladra, in quanto
terrorista, e sarebbe potuto essere anche un uomo a compiere lo
stesso crimine. Ma quando un uomo uccide la donna che lo abbandona,
la donna che gli si rifiuta, allora l’uomo compie un femminicidio,
perché la uccide in quanto donna, in quanto donna che si rifiuta di
sottomettersi a lui, come invece lui pretende, perché lo pretende da
tutte le donne. Così difficile capirlo?
Ora,
questo rifiuto della distinzione dei giudizi, del riconoscimento che
i giudizi operano su campi diversi, desta rigetto, suscita perfino
rivolte, da secoli, già da quando Machiavelli distinse il campo del
giudizio politico da quello del giudizio morale. Legittimi entrambi,
ma da punti di vista diversi, ciascuno nel proprio ambito di
competenza. Guai dunque a confonderne i piani. Sarebbe, anzi, il caso
che tutti ricominciassimo a riflettere sul percorso che ha condotto
il pensiero occidentale ad approfondire la natura di queste
distinzioni. A cominciare proprio dal Principe di Machiavelli, dove
per la prima volta è distinto chiaramente il campo dell’essere dal
campo del dover essere. Il giudizio di un campo non può, senza
infrangere la logica, imporsi all’altro campo. Poi è venuto
Spinoza: più che nell’Ethica, la distinzione va studiata nel
Trattato teologico-politico. E’ lì che Spinoza analizza con acume
insuperato il meccanismo che fa nascere il giudizio. Proprio da
Spinoza trae quindi Hegel, due secoli dopo, ma con la mediazione di
Goethe, l’impulso ad approfondire il concetto della distinzione dei
giudizi, dopo la straordinaria indagine della Fenomenologia dello
Spirito, più specificamente, per quanto riguarda il giuizio storico,
nella Filosofia della storia. Infine arriva Nietzsche che, nella
Genealogia della morale, dimostra come il giudizio morale sia sempre
la conseguenza di un condizionamento storico, sia legato cioè alla
situazione storica, e sociale, del momento in cui il giudizio stesso
è formulato. E con ciò Kant è mandato in cantina. Non che il
giudizio morale venga perciò abolito, si badi. Ma se ne riconosce la
sua storicità, la sua immanenza negli avvenimenti della storia.
Capisco che qualcuno si senta a questo punto crollare il mondo
addosso, togliere la terra sotto i piedi. Ma faccio un solo esempio:
non è oggi cambiata la nostra sensibilità, e dunque il nostro
giudizio morale, sulla schiavitù? Ciò che per Aristotele e su su
fino a Whashington, era tollerabile, anzi legittimo, oggi non lo è
più. Sia Aristotele sia Whashington possedevano schiavi. Era la
cultura del loro tempo, che nasceva dalla strutturazione economica
fondata sul lavoro degli schiavi e la conseguente conformazione delle
classi sociali. Non si tratta né di condannarli né di approvarli,
bensì solo di capirli. Oggi non potrebbero possedere schiavi. Non
che oggi non la si pratichi la schiavitù, anzi! Ma legalmente la si
è abolita ed è pertanto riprovevole riconoscerla legittima.
Ecco:
vogliamo esercitarci, adesso, a fare un bel po’ di distinzioni e
vogliamo cominciare a capire che le semplificazioni, le omologazioni
non solo non conducono a nessuna spiegazione, ma sono anzi
pericolose, dannose? Perché non ci fanno vedere la realtà come
davvero è, ma ci illudono che sia come ci piace desiderare che sia.
Questa furia devastatrice che oggi sembra trascinare tutti a demolire
i monumenti e i simboli di un passato schiavista, di una cultura
razzista, è rivoluzionaria solo in apparenza. Di fatto attua come
meglio non si potrebbe la cancellazione del passato, la conoscenza
della differenza del passato, e omologa tutto il nostro passato
all’attuale presente: crede di contrastare il capitalismo, il
liberismo, e di fatto non fa che attuarne l’esigenza estrema,
cancellare ogni memoria di ciò che eravamo, di modo che ormai non si
viva che in unico uguale presente in cui tutti siano solo i
consumatori di questo presente e nient’altro. Anche l’equiparazione
del nazismo e del comunismo fa parte di questa cancellazione della
memoria storica, di questo appiattire tutta la storia al nostro
individuale e ripetitivo presente, a un amorfo e insignificante hic
et nunc. Corollario: anche nell’ambito della morale si devono fare
distinzioni, va distinto, infatti, il principio di una esigenza
morale, diffusa in tutte le epoche e in tutte le culture, dalle
morali particolari e concrete effettivamente concepite, praticate,
richieste, via via nella storia e tra le diverse culture. Anche qui,
la confusione nasce dalla mancanza di distinzione e dall’elevare a
principio universale la singola, storica, esigenza morale del momento
e della cultura in cui si vive. In altre parole, dovunque si rifiuti
una distinzione, in qualunque campo, per qualsiasi conoscenza, ci si
rifiuta alla realtà, ch’è sempre distinzione, complessità,
varietà, differenza, e ci si consegna, inermi, a qualunque potere
voglia approfittare dell’opportunità finalmente ottenuta di una
massa omologa, senza memoria, e disponibile a lasciarsi dominare da
chiunque la illuda di concederle tutti i piaceri della vita. Chi sa
che in questo modo non si raggiunga quel silenzio invocato, morendo,
dal principe Amleto. Ma sarebbe un silenzio che, come scrive Joyce,
uguaglia morti e viventi (Dubliners, The Dead).
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