martedì 23 giugno 2020

Storia e morale: esercizio sulla distinzione







Molti italiani sembrano provare una grande fatica a distinguere, nell’atto che formalizza una differenza tra fenomeni diversi, l’accertamento, la cognizione da una parte, della differenza, dal giudizio di valore che dall’altra tale distinzione presupporrebbe. E questa resistenza, questa difficoltà a distinguere l’accertamento di una differenza dal giudizio di valore, la si riscontra in molti campi. Perfino in quello, apparentemente innocuo, del giudizio estetico. Le differenze dei generi sono, infatti, sentite da molti come gerarchia di valori estetici degli stessi generi. I pittori italiani hanno dipinto, dal Quattrocento in poi, meravigliosi paesaggi. Ma non hanno mai fatto del paesaggio il soggetto della pittura. Bisognerà aspettare i pittori francesi e olandesi del Seicento perché il paesaggio assurgesse a dignità di soggetto pittorico. E così anche in letteratura: il romanzo è una cosa. Il romanzo poliziesco un’altra: un genere “inferiore”. Il fatto che possa, invece, esistere un romanzo illeggibile, brutto, e un romanzo poliziesco avvincente, bellissimo, non incrina questa percezione. Si pensi solo al fatto che per secoli i letterati italiani lamentassero che alla poesia italiana, ormai in tutti i generi all’altezza dell’antica, greca e latina, mancasse però un capolavoro nel genere sublime della tragedia. Alfieri fu visto come chi tappava il buco. Idem si dica per la musica. Per quanto tempo in Italia l’operetta è stata considerata un genere di scarto, un passatempo, rispetto alla serietà dell’opera? Che poi il Pipistrello di Strauss fosse un capolavoro e, che so, gran parte invece del teatro di Mascagni qualcosa di non perfettamente riuscito, non inficiava affatto la differenza dei generi, nobile quello dell’opera, di divertimento spensierato l’operetta. Ciò accadeva perché semplicemente non si riusciva a distinguere il giudizio di genere dal giudizio estetico e pertanto la differenza di genere diventava differenza di giudizio estetico.

Effetti più gravi, se non pericolosi, si hanno, però, quando non si riesce a distinguere, o non si vuole distinguere, il giudizio storico dal giudizio morale. Che il nazismo e il comunismo siano fenomeni storici diversi è chiaro a qualunque storico. Ma per qualcuno ciò equivale a un’assoluzione morale del comunismo. Poiché si dà per scontato, infatti, che il giudizio morale sul nazismo sia di condanna, rifiutarsi poi di equiparare il comunismo al nazismo, ostinarsi a distinguere il comunismo dal nazismo, sembra assolverlo da qualsiasi condanna. Ma non è questo che si sta dicendo. Si sta invece dicendo che si tratta di due fenomeni storici fondamentalmente diversi. E lo storico non può non tenere conto di questa diversità. Certo che se poi si passa dal giudizio storico al giudizio morale, le cose cambiano: il crimine resta crimine chiunque lo compia. Ma non è il giudizio morale di condanna che mi faccia capire che cosa sia stato il nazismo e che cosa il comunismo. Per comprendere i fenomeno avrò bisogno dell’analisi storica, e proprio l’analisi storica mi farà vedere e comprendere la differenza tra il regime nazista e i regimi comunisti, che non possono tra l’altro uniformarsi tutti al regime sovietico. E‘, dal punto di vista concettuale, come per il femminicidio. Devo distinguerlo dal semplice omicidio perché non si tratta dell’uccisione generica di un uomo, ma dell’uccisione di una donna perché donna. L’uccisione generica di una donna differisce infatti anch’essa dal femminicidio. Uccidere una donna che compie una rapina, per esempio, o un atto terroristico, è sì un semplice omicidio, perché la uccido in quanto ladra, in quanto terrorista, e sarebbe potuto essere anche un uomo a compiere lo stesso crimine. Ma quando un uomo uccide la donna che lo abbandona, la donna che gli si rifiuta, allora l’uomo compie un femminicidio, perché la uccide in quanto donna, in quanto donna che si rifiuta di sottomettersi a lui, come invece lui pretende, perché lo pretende da tutte le donne. Così difficile capirlo?



Ora, questo rifiuto della distinzione dei giudizi, del riconoscimento che i giudizi operano su campi diversi, desta rigetto, suscita perfino rivolte, da secoli, già da quando Machiavelli distinse il campo del giudizio politico da quello del giudizio morale. Legittimi entrambi, ma da punti di vista diversi, ciascuno nel proprio ambito di competenza. Guai dunque a confonderne i piani. Sarebbe, anzi, il caso che tutti ricominciassimo a riflettere sul percorso che ha condotto il pensiero occidentale ad approfondire la natura di queste distinzioni. A cominciare proprio dal Principe di Machiavelli, dove per la prima volta è distinto chiaramente il campo dell’essere dal campo del dover essere. Il giudizio di un campo non può, senza infrangere la logica, imporsi all’altro campo. Poi è venuto Spinoza: più che nell’Ethica, la distinzione va studiata nel Trattato teologico-politico. E’ lì che Spinoza analizza con acume insuperato il meccanismo che fa nascere il giudizio. Proprio da Spinoza trae quindi Hegel, due secoli dopo, ma con la mediazione di Goethe, l’impulso ad approfondire il concetto della distinzione dei giudizi, dopo la straordinaria indagine della Fenomenologia dello Spirito, più specificamente, per quanto riguarda il giuizio storico, nella Filosofia della storia. Infine arriva Nietzsche che, nella Genealogia della morale, dimostra come il giudizio morale sia sempre la conseguenza di un condizionamento storico, sia legato cioè alla situazione storica, e sociale, del momento in cui il giudizio stesso è formulato. E con ciò Kant è mandato in cantina. Non che il giudizio morale venga perciò abolito, si badi. Ma se ne riconosce la sua storicità, la sua immanenza negli avvenimenti della storia. Capisco che qualcuno si senta a questo punto crollare il mondo addosso, togliere la terra sotto i piedi. Ma faccio un solo esempio: non è oggi cambiata la nostra sensibilità, e dunque il nostro giudizio morale, sulla schiavitù? Ciò che per Aristotele e su su fino a Whashington, era tollerabile, anzi legittimo, oggi non lo è più. Sia Aristotele sia Whashington possedevano schiavi. Era la cultura del loro tempo, che nasceva dalla strutturazione economica fondata sul lavoro degli schiavi e la conseguente conformazione delle classi sociali. Non si tratta né di condannarli né di approvarli, bensì solo di capirli. Oggi non potrebbero possedere schiavi. Non che oggi non la si pratichi la schiavitù, anzi! Ma legalmente la si è abolita ed è pertanto riprovevole riconoscerla legittima. 

 

Ecco: vogliamo esercitarci, adesso, a fare un bel po’ di distinzioni e vogliamo cominciare a capire che le semplificazioni, le omologazioni non solo non conducono a nessuna spiegazione, ma sono anzi pericolose, dannose? Perché non ci fanno vedere la realtà come davvero è, ma ci illudono che sia come ci piace desiderare che sia. Questa furia devastatrice che oggi sembra trascinare tutti a demolire i monumenti e i simboli di un passato schiavista, di una cultura razzista, è rivoluzionaria solo in apparenza. Di fatto attua come meglio non si potrebbe la cancellazione del passato, la conoscenza della differenza del passato, e omologa tutto il nostro passato all’attuale presente: crede di contrastare il capitalismo, il liberismo, e di fatto non fa che attuarne l’esigenza estrema, cancellare ogni memoria di ciò che eravamo, di modo che ormai non si viva che in unico uguale presente in cui tutti siano solo i consumatori di questo presente e nient’altro. Anche l’equiparazione del nazismo e del comunismo fa parte di questa cancellazione della memoria storica, di questo appiattire tutta la storia al nostro individuale e ripetitivo presente, a un amorfo e insignificante hic et nunc. Corollario: anche nell’ambito della morale si devono fare distinzioni, va distinto, infatti, il principio di una esigenza morale, diffusa in tutte le epoche e in tutte le culture, dalle morali particolari e concrete effettivamente concepite, praticate, richieste, via via nella storia e tra le diverse culture. Anche qui, la confusione nasce dalla mancanza di distinzione e dall’elevare a principio universale la singola, storica, esigenza morale del momento e della cultura in cui si vive. In altre parole, dovunque si rifiuti una distinzione, in qualunque campo, per qualsiasi conoscenza, ci si rifiuta alla realtà, ch’è sempre distinzione, complessità, varietà, differenza, e ci si consegna, inermi, a qualunque potere voglia approfittare dell’opportunità finalmente ottenuta di una massa omologa, senza memoria, e disponibile a lasciarsi dominare da chiunque la illuda di concederle tutti i piaceri della vita. Chi sa che in questo modo non si raggiunga quel silenzio invocato, morendo, dal principe Amleto. Ma sarebbe un silenzio che, come scrive Joyce, uguaglia morti e viventi (Dubliners, The Dead).

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