CARTER | BEETHOVEN | MUMFORD
TEMPO E TEMPI
PINA NAPOLITANO
ODRADEK ODRCD378
1 cd
Accostare le ultime due sonate
di Beethoven alla musica pianistica di Elliott Carter è una bella
sfida. E intitolare poi la registrazione Tempi e tempi, titolo i una
poesia di Montale, da Satura, amara, sconfortata, come tutta l’ultima
poesia di Montale. “Non c’è un unico tempo: ci sono / molti
nastri che … raramente s’intersecano”. In quel momento “si
palesa la sola verità”. Ma “viene subito chi sorveglia i
congegni” e “si ripiomba … nell’unico tempo”. Poesia di
un’attualità che fa male. In questa nostra epoca che anela
all’omologazione universale. In musica non è diverso. I tempi che
s’intersecano sono appunto quelli in cui si palesa la verità,
perché molteplici, non unici. E allora può succedere che Beethoven
e Carter ci mostrino due facce di uno stesso rapportarsi con il
proprio tempo: affidare la voce non all’appello che seduca, al
lenocinio gradevole, ma al lavoro capillare del contrappunto,
rendendo, apparentemente, quasi indecifrabile la pagina, e più
simile al caos, al rumore, che al canto, la musica. Ma sta proprio in
quell’intrico inestricabile, in quel rumore aggressivo, invece, la
verità che si palesa, lo specchio che non deforma, perché ci butta
addosso non una visione unica e gratificante della vita, bensì la
complessa e coerente interferenza di più visioni. Pina Napolitano
sembra amare le vie difficili. Lo Schoenberg che sembra uscire dal
sentiero, in Elegy, un cd dedicato al concerto per pianoforte di
Schoenberg accostato al terzo concerto per pianoforte Bartók.
O Brahms the progressive, in cui le ultime pagine pianistiche di
Brahms sono accostate a pagine pianistiche di Berg e di Webern. Tutte
incisioni della Odradek. Pina Napolitano sembra volerci togliere
dalle orecchie i filtri con cui individuiamo gli stili, le epoche, i
compositori, per farci aggredire, più che dal suono, dal pensiero
che genera un certo modo di elaborare i suoni. Allora ecco che si
rivelano affinità insospettate, che non sono somiglianze
stilistiche, ma impostazioni di pensiero musicale. Come in questo cd.
Carter e Beethoven non hanno niente apparentemente che gli accomuni,
salvo il fatto, non trascurabile, che compongo musica complicata,
complicatissima, in qualche modo, appunto, aggressiva. E tuttavia
d’impatto immediato, già al primo ascolto. Anche Carter, almeno
per chi sia abituato a confrontarsi con le musiche del secondo
novecento. E casca subito un pre-giudizio. Che questa musica sia
calcolo di scrittura, ma inascoltabile, sgradevole, di fatto non
musicale, un compito matematico, non una composizione. Niente di più
falso. Come l’impatto emotivo della musica beethoveniana si
appoggia in realtà su una scrittura complicatissima, elaboratissima,
così la scrittura complicata, elaborata di Carter scatena anch’essa
un immediato impatto emotivo. Soprattutto gli splendidi Two Thoughs
about the Piano. Nelle Night Fantasies affiorano invece memorie del
lavoro egualmente capillare di uno Schumann; schizzi fantastici che
dello stile schumanniano non hanno niente, ma ricostruiscono a loro
modo un affine percorso di miniature calibratissime. I Two Elliott
Carter Tributes di Jeffrey Mumford completano, densamente, la
trilogia novecentesca. Beethoven è affidato alle sue due ultime
sonate. Un abisso di visionarietà interminabile, ma anche di
struggente tenerezza, di capricciosa fantasia improvvisatrice, ed è
tutta beethoveniana la sapienza con cui cui è misurata e controllata
l’estrosità dell’improvviso che interrompe il tema cantabile nel
primo tempo dell’op. 110, o la rudezza degli accordi che bloccano e
chiudono il lamento dell’adagio prima della ripresa della fuga.
Ecco, Pina Napolitano ci regala l’esperienza di cogliere già
all’ascolto il pensiero che ha generato la musica. Tocco,
fraseggio, dinamica non sono tanto strumenti di una volontà
espressiva – anche! - ma soprattutto il grimaldello per sforzare
l’architettura musicale e penetrare dentro il laboratorio del
compositore, dove finalmente si riconosce la radice intellettuale
anche del canto.
M. RAVEL J.F. BROWN
L.ALEXANDRA
SONGS OF NATURE AND FAREWELL
HEMISPHAERIA TRIO
FEAT. ANDREA OLIVA
Da Vinci Classics C00239
1 cd
Il soprano Damiana Mizzi, il
violoncellista Roberto Mansueto e il pianista Marcos Madrigal
compongono l’Hemisphaeria Trio, che unendosi al flautista Andrea
Oliva ha registrato un interessante ciclo di musiche da camera per
voce e, appunto, pianoforte, flauto e violoncello. Un capolavoro
assoluto, di una concezione addirittura visionaria, vista la data di
composizione, 1926, apre il ciclo: le Chansons Madécasses di Ravel.
Canzoni popolari del Madagascar tradotte in francese da Evariste
Parny. Ravel non è nuovo all’assunzione di melodie popolari. Si
pensi alle due splendide Mélodies Hebraiques. Alla Rapsodia
spagnola, al Bolero, al jazz dei due concerti per pianoforte. Ma il
suo non è l’atteggiamento etnomusicologico né di Bartók
né di Falla. Non lo interessa l’assunzione di moduli estranei alla
tradizione europea colta, ma vuole anzi inserire proprio all’interno
di questa tradizione sollecitazioni che gli possono venire da mondi
ad essa estranei. E’ l’orecchio a guidarlo, a cogliere gli
accostamenti timbrici inusitati, le scansioni ritmiche irregolari,
l’intonazione melodica di scale diverse dai modi e dalle tonalità
europei. Se poi si tratta di lavorare su testi poetici, allora vi si
aggiunge un lavoro sottilissimo di dizione musicale del testo. Nella
Chansons madécasses sperimenta la possibilità di tradurre
musicalmente il silenzio particolare dell’e finale francese, muta
nel linguaggio parlato, percettibile in poesia e nel canto, con
l’intento di equiparare il canto al parlato. Suscitò polemiche a
non finire. E perfino proteste dei cantanti. Non ci riprovò più. Ma
le tre canzoni sono una meraviglia. Non si sa se ammirare di più la
sillabazione della voce o le combinazioni timbriche e ritmiche degli
strumenti. Per certi versi in una partitura come questa si possono
perfino intravedere gli esiti delle due Improvisations sur Mallarmé
di Boulez, nel Pli selon pli. La rassegna del disco si conclude con
un altro capolavoro raveliano: la seconda della canzoni di
Shéhérazade, per voce e orchestra, del 1903, La flûte
enchantée. Qui la parte orchestrale è trascritta per pianoforte,
violoncello e flauto. In mezzo, tra le due pagine raveliane, due
partiture assai diverse tra loro e diversissime da Ravel. I Songs of
Nature and Farewell di James Francis Brown, del 2011, i tre testi
tratti dalle Rimes familières di Camille Saint-Saëns,
e Chant d’amour de la Dame à la Liocorne della compositrice rumena
Liana Alexandra, su poesie di Etienne de Sadéleer. Ciò che
maggiormente incuriosisce è scoprire Saint-Saëns
poeta, e poeta niente male. Adieu è una poesia di una desolazione
abissale, e Brown la rende bene. Ma strano a dirsi, e ancora più a
sentirsi, queste musiche appaiono assai più datate di quelle di
Ravel. E non perché nell’insieme rispettino l’andamento tonale –
non sono i soli, oggi, a farlo – ma proprio perché l’armonia
tonale non è adottata in maniera personale, inventiva. Sono pagine
molto gradevoli, accattivanti, ma, per esempio, non appare
particolarmente curata la scansione e dizione della lingua francese.
Non è la prima volta che ascoltando accostate pagine di Ravel e
pagine di compositori assai posteriori, il più moderno, il più
nuovo risulta proprio Ravel. Bravissimi, comunque i quattro
interpreti, assai precisi e fluidi, molto espressivo il canto, e
lodevole l’intento di far conoscere pagine altrimenti poco
conosciute al grande pubblico.
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