DINO VILLATICO
IL CANTO DEL MUEZZIN1
Alla memoria di Francesco Pennisi
PERSONAGGI:
LA SIBILLA TIBURTINA
FAKHR-AD-DIN, emiro di Gerusalemme
FEDERICO II DI SVEVIA
HASSAN SABBAH, capo della setta degli Assassini
COSTANZA D’ALTAVILLA
PAPA GREGORIO IX
UNA CANTATRICE ARABA
UNA DANZATRICE
DUE GIOVANI SCHIAVI NUDI
DUE GIOVANI ARMATI
CORO DI CROCIATI, CRISTIANI DI GERUSALEMME, PELLEGRINI, ARABI, EBREI.
GERUSALEMME, la notte tra il 17 e il 18 marzo 1229, nella casa dell’emiro Fakhr-ad-Din.
Nebbia. E’ l’alba. Una figura femminile emerge a poco a poco, indistinta, dal lucore opaco.
LA SIBILLA TIBURTINA Si disperdesse
pulviscolo di sillabe
il canto che ti attende,
e contorcendosi
ti generasse
una vergine Notte,
mai l’incompiuto spasimo
s’arresterebbe
al disatteso e vano nominarti.
Ma io sussurrerò, profonda Notte,
dall’infuocata sabbia
granello per granello
l’esile striscia che trascorre
trasvolando dall’Indo
alle porte di Gade
il tenue filo di memoria
che solitario insegue
l’ombra che trasmigra.
Nel luminoso ultimo strascico
dell’orizzonte la bava lieve
rifletto di quest’ombra
dentro il bozzolo argenteo
non ancora dischiusosi
al crepitio del Sole,
per l’inatteso vocio di silenzi
che sorridendo bacerà
la bocca del giorno che si chiude.
Adonai!
E’ giorno. Due CORI avanzano verso la Sibilla, uno di EBREI e l’altro di CRISTIANI.
CORO DI EBREI Nehbel, tōpoh, nālîl, kinnôr
t’esaltino, t’esaltino
le voci che t’invocano:
scendi, Adonai,
raduna le disperse
moltitudini
della tua gente.
CORO DI CRISTIANI Chi vendica l’oltraggio
del Sepolcro violato?
Christus vincit.
SIBILLA TIBURTINA O Giorno, Giorno! Quanto
dalla profonda Notte
ti aspetto! È senza limite
la misura di lacrime
che colma le mie palpebre.
Se ripeto il mio pianto
- Adonai, Adonai -
un nuovo Sole, un nuovo Apollo,
un rinato Alessandro,
potrà rispondermi?
CORO DI EBREI Adonai, Adonai.
CORO DI CRISTIANI Chi strappa dalla perfida
mano l’indegna spada?
Christus regnat!
SIBILLA TIBURTINA Ma sarà Giorno, Apollo,
nel regno di Diana.
L’albero rinsecchito
nel Giardino paterno
germoglierà di nuovo,
e sarà Giorno, Apollo,
nella Casa del Sole
dalla Notte d’Oriente.
Il cammino retrocede,
oggi, da Occidente ad Oriente.
CORO DI EBREI Fiumi di Babilonia,
noi vi lasciammo, e liberi
tornammo nella terra:
ma quale ne fu il prezzo?
e per quanto tempo, liberi?
La nostra terra da secoli
non è più la nostra
terra. Perciò, ah! torna,
torna, Adonai.
CORO DI CRISTIANI Il sangue dei Cristiani
col sangue dei Pagani
- Christus imperat! -
si riscatta, noi soli
la verità, la vita,
Christus vincit!
non c’è giusto nel mondo
se non giusto cristiano,
Christus regnat!
Il dominio di Dio
è dominio cristiano,
Christus imperat.
SIBILLA TIBURTINA Sgabello sotto i piedi
ho teste conficcate
sulle picche di cedro,
una messe selvaggia.
Risorgi, Apollo!
Toglimi l’arsura
del Deserto dalla bocca!
CORO DI EBREI Adonai, Adonai!
CORO DI CRISTIANI Domine Deus Omnipotens,
Iesu Christe!
SIBILLA TIBURTINA Fenice d’Occidente!
Fridericus Apollo!
Adonai.
CORO DI EBREI Adonai, Adonai.
CORO DI CRISTIANI Christus vincit,
Christus regnat,
Christus imperat!
SIBILLA TIBURTINA Fridericus Apollo,
Adonai!
Scende la notte e la scena si fa buia. Al riapparire della luce, compare la SALA per il banchetto nella casa dell’Emiro di Gerusalemme FAKHR-AD-DIN, la notte tra il 17 e il 18 marzo 1229, poche ore prima dell’Incoronazione di Federico II nella cappella del Santo Sepolcro.
FAKHR-AD-DIN Il Sole esalta, entrando in questa casa,
la Notte della mia bassezza. Caro
m’è il buio, se il tuo sguardo lo rischiara.
Eppure misericordioso tocca
il cielo qualche volta il nostro nulla,
luminoso risplende sui tuguri
della nostra miseria, ma superbi
noi ci ostiniamo a chiamarli palazzi.
L’omaggio che si deve al suo Signore,
impossibile al servo che si prostra
davanti alla grandezza che l’abbaglia
del suo splendore, l’ultimo dei miei
schiavi lo compirebbe, se bruciato
d’Amore come tu per te mi fai
dal midollo dell’essere bruciare.
Entra, dunque: respira nel profumo
degl’incensi l’aroma che a te manda
l’anima mia felice di vederti.
Entra FEDERICO. I due si abbracciano e si baciano.
FAKHR-AD-DIN teneramente avvinto a Federico, quasi gli sussurra le parole nell’orecchio: M’è testimone Dio, Amico, e legge
in questo istante il mio pensiero e muove
la mia lingu’a parlare. La mia lingua,
ispirata così da Lui, ti dice
ora che in questa notte ascolteremo
parole che nessuna bocca, prima,
ha pronunciato. I nostri cuori, uniti,
stupiranno di quello che diranno
le nostre bocche, e faranno silenzio.
Memoria un giorno serberà la mente
delle parole, ricordando questo
silenzio e i nostri cuori tremeranno
di lontananza per il desiderio.
Parlami, Amico. Intatta pergamena,
la mia mente ti si offre e aspetta il segno
che la tua bocca parlando v’incida.
FEDERICO Vivere sospirando a chi non nega
grovigli di ragione e sospirare
vivendo da chi al culmine mi lega
di un più folle sospiro di guardare.
Ma perdo i giorni e l’ore e chi mi prega
è muta bocca e non oso sperare
che nel silenzio degli occhi la piega
delle sue labbra m’inviti a parlare.
Dunque un solo sospiro è a me silenzio
e canto, un solo sguardo mi si dona
e mi respinge: amaro e dolce, assenzio
e smarrimento, ogni ora mi perdona
ciò che mi toglie e io così presenzio
il gelo e il fuoco che da me s’intona.
FAKHR-AD-DIN Grazia concede la tua bocca all’aria
di trasportare fiori di parole,
sulle tue labbra il pensiero le spinge
a germogliare. Sono fatto, udendoti
parlare, ape che succhia il dolce nettare
d’Amore dal superno ultimo favo
stesso in cui tutto l’essere s’addensa.
Amico.
Si divincola dolcemente dall’amplesso, s’inchina, scivolando con la mano sui tappeti.
Via! distendi le tue membra
su questa seta del Katai lontano,
abbandona il tuo corpo alla delizia
di sospendere il Tempo e di svuotare
il cuore, i sensi lasciati da molli
affetti gentilmente accarezzare.
D’ogni parte Bellezza qui t’avvolge:
e dovunque è profumo, sguardo, canto,
abbandono d’amplessi e di sapori.
Batte le mani. UN GIOVANE SCHIAVO completamente ignudo porta un piatto d’oro ricolmo di frutta e lo depone ai piedi dell’ospite imperiale, dopo di che gli si sdraia accanto sul tappeto. UN ALTRO SCHIAVO, anch’egli appena adolescente e nudo, entra con una brocca d’oro e versa il vino nelle coppe che Federico e Fakhr-ad-Din ricevono colme dal primo schiavo. Quindi anch’egli si distende sul tappeto e poggia il capo sulle ginocchia di Federico. Suoni di danza. Entra UNA DANZATRICE e comincia una danza che danzerà fino a quando Fakhe-ad-Din non le farà cenno di smettere.
FAKHR-AD.DIN Non è divina questa quiete in mezzo
agli orrori di guerra che da Oriente
e Occidente minaccia i nostri regni?
Che cos’è il Tempo, se possiamo, vedi,
per una sola notte qui fermarlo?
Al-Kamil dall’Egitto, oltre a donarti
salute e offrirti grazia di perpetua
amicizia, ti manda questo foglio.
E’ un’insidia del Papa: suggerisce
di ucciderti, cogliendoti a sorpresa
sulla Via del Sepolcro. Vecchio infame!
E costui vi governa? Si fa Dio
sulla Terra? Potere così grande,
da voi, chi gli concede?
FEDERICO La paura.
Tu guardi nella rete delle stelle,
guardi il volto mutevole del Cielo
e osservi il lento muoversi degli astri.
Ma chi discopre o vede, oltre quei fuochi,
oltre il cristallo azzurro che ci copre,
chi la presenza indovina di un Dio?
O Dio si manifesta di Pensiero,
anzi Pensiero del Pensiero, il Dio
che lassù muove tutte quelle stelle
e che da noi, quaggiù, muove la vita
con il solo respiro di pensarla?
Un Dio tranquillo, un Dio di pura quiete,
come la chiara pagina ci dice
del Filosofo e come ci commenta
da Cordoba il Filosofo di Spagna.
Ma tu, che nel trascorrere dei giorni
affondi il tuo passare, e solo assorbi
dal rapido fluire di stagioni
che nascono e tramontano il tuo fiato,
cui solo dal finire del piacere
t’è concesso di cogliere e fermare
il piacere che resta, tu che ignori
permanenza che il breve permanere
non sia degli eccitati sensi al fioco
fremito di un contatto, il trasalire
del cuore se osa un labbro trasmutarsi
nell’offerta di un nodo, tu che cedi
all’illusione di restare quando
intorno la mutevole incostanza
dei venti ti convince a disperare,
tu che non dormi, ma che invece guardi
in sogno il tuo delirio e ne catturi
rabbrividendo il muto arrestarsi
e più fosco, nel fremito del sangue,
trasenti, quasi ardente, nelle vene,
il suo inarrestabile diluvio,
di Dio, che sai? e svaporata in aria
della tua luce l’ultima scintilla,
ritornato alla Notte, in quel tuo Buio,
dell’anima che viaggio prefiguri?
Eppure per il popolo, davanti
al muftì, giudicato dallo sguardo
severo di un imàm, di Dio non parli
anche tu? Ne parliamo tutti quanti,
quando parliamo con chi a Dio devolve
il senso intero della propria vita.
O con chi sa che Dio nasconde quanto
vogliamo che tra noi resti nascosto.
Il popolo ci crede, e questo basta.
Ma tra te stesso sai che se ne parli,
quando ne parli, nomini un Assente.
Noi due, amico mio, di queste cose
siamo da lungo tempo esperti. Voce
del cuore c’è più spesso la ragione.
E ne ridiamo. Ma che cosa sanno
quelli che ancora spaventa la morte?
FAKHR-AD-DIN Il popolo? Un potente ciò che vuole
gli fa credere. Ma costui comanda
ai potenti: lo temi anche tu.
FEDERICO Devo
temerlo, devo rispettarlo, devo
inchinarmi davanti a lui, calzarmi
calzari di umiltà, come un suo servo,
e come un pellegrino, un penitente,
indossare gli stracci di ubbidienza.
Lo fanno tutti. Devo conformarmi
al costume comune. Basta un niente,
una parola fuori posto, un gesto
incontinente, per mandarlo in bestia,
la bestia più feroce tra le bestie,
la bestia della religione. Devo
dunque adeguarmi per restare in sella,
volentieri la belva mi vorrebbe
disarcionare, un giorno, se potesse.
Disarcionato, mi vedrei finito.
Egli lo sa, perciò mi bracca e insegue,
mi calunnia, sobilla i miei vassalli,
devasta le mie terre, muove contro
di me predicatori e cavalieri.
Mi odia, e l’odio suo è, come il mio,
smisurato, implacabile, costante.
Un Dio gli arma la mano, un Dio che scaglia
contro di me, contro l’Impero, Roma.
Quel Dio, devo ammazzarlo. Nell’Impero
pace nessuna, potere nessuno,
sarà mai saldo, se da me distrutto
quel Dio non è, o da me stesso Dio
sul trono io non mi ponga. Ecco la lotta,
ecco l’odio che il campo dei Cristiani
divide in schiere opposte e lo sconvolge.
FAKHR-AD-DIN Angoscia tanta, come regge il cuore?
FEDERICO Pensando che una notte come questa
può, per un breve istante, cancellarla.
Bevi, dunque. Dimentica per questa
notte l’angoscia che divide gli uomini.
FAKHR-AD-DIN Nella casa del Kadì Shams-ed-Din,
che qui a Gerusalemme ospite accoglie
la tua persona, benigno cantare
lasciasti i nostri muezzìn. Votava
a silenzioso invito di preghiera
il muezzìn, per tuo rispetto, il caro
Shams-ed-Din. Ma rispetto dimostrasti
invece tu per la sua fede. Dunque
cantano i muezzìn nella sua casa,
cantano i muezzìn per cinque volte,
dall’alba all’ombra dolce della sera,
nella casa del Kadì Shams-ed-Din.
Ebbene, Amico, guarda come adesso
l’Emiro Fakhr-ad Din, per tuo rispetto,
la Legge Santa infrange del Corano:
per questa sola notte, a te cristiano,
perfuse le sue vene di dolcezza,
l’oblio ti dona dell’Islàm, e questa
coppa tracanna colma fino all’orlo,
omaggio del profeta galileo.
Beve.
E’ vino greco. Rosso come il sangue.
E come il sangue inebria, Federico.
FEDERICO A me cristiano? Non più di te, forse;
né più di me tu sogni oltre la vita
il sogno del profeta. Allah, Gesù,
perché mentirci? Dio noi non abbiamo
che quest’istante, il saengue che ci scorre
nelle vene e che per un Dio versare
ci disgusta. Perciò tu m’offri vino
greco, ch’io bevo a tutto ciò che fugge.
Beve.
Perciò tu m’offri questi due fanciulli,
e m’offri la tua bella danzatrice…
Fakhr-ad-Din fa cenno alla danzatrice di accostarsi a Federico. Ella esegue.
FEDERICO … che qui, davanti a te, con la mia bocca,
ora per amor tuo commosso bacio.
Porge una mano alla danzatrice, che soridendo gli offe la sua. Egli l’attira dolcemente a sé, la cinge con le braccia e la bacia. I due, piano, si lasciano cadere sul tappeto e si perdono in un dolcissimo amplesso.
FAKHR-AD-DIN sorride, beve, e affonda una mano nella chioma di uno dei due giovinetti, i quali, abbandonato Federico alle carezze della danzatrice, si erano andati a coricare ai piedi dell’Emiro, che li accoglie gioioso, scherzando anzi con loro, carezzandoli e stuzzicandone con un dito l’amabile sesso, ancora quasi infantile. Canta:
Dolcezza è il sogno della vita, dolce
quanto più breve il sogno. Amaro, Amico,
ogni altro dolce che d’oblio non sogna.
Bacia sul collo prima uno, poi l’altro giovinetto. Piange e invoca la cantatrice:
Oh! Nuzhat-az-Zamàn2, dolce Delizia
del Tempo, dove sei? Continua il canto.
Entra NUZHAT-AZ-ZAMAN la cantatrice, con un liuto (un ‘ud iraqeno). Dopo in breve, ma dolcissimo, preludio, canta:
NUZHAT-AZ-ZAMAN Sognata ogni dolcezza, vivi sogni,
ma non lo sai. Se lo sapessi, quanto
vivendo credi il sogno in cui ti sogni,
non sarebbe che l’ultimo tuo schianto.
Ma coraggio! Che serve? Bevi ancora
dalla tua coppa la fragile speranza
che quanto il cuore tuo seppe finora,
non era inganno, ma verosimiglianza.
Inseguire non fosse che il tuo sogno,
la tua fuga dal tempo, quale giorno
misurerebbe il fragile bisogno
che dove c’è un addio sogna un ritorno?
Dolcezza è il sogno della vita e agogna
quanto più lungo il sogno. Amaro, Amico,
ogni altro dolce che d’oblio non sogna.
Più dolce se dal sogno ti districo.
FEDERICO si alza, fissa l’Emiro e scoppia in una fragorosa risata.
FAKHR-AD-DIN batte le mani e NUZHAT-AZ-ZAMAN scappa via. La DANZATRICE si rannicchia ai piedi di Federico e gli avvolge le gambe con le braccia.
FEDERICO E tutto questo, perderlo dovremmo,
dimmi, per chi? per quale fede? quale
infimo sogno di supremazia?
quale Dio decretò che superiore
fosse l’arabo al popolo cristiano,
che un rozzo contadino di Biscaglia
insultare potesse impunemente
il rabbino di Troyes3? forse il mento
sbarbato del Tedesco è più gradito
a Dio dell’unta barba di un Ebreo?
l’occhio celeste di una incantatrice
Irlandese attraente più del nero
sguardo di una Persiana? Guarda i campi
di battaglia: tra Franchi e Bizantini,
Dio chi favorirà? tra Curdi e Turchi,
Allah chi sceglie? Ma di che colore,
il tuo sangue, di che colore il mio?
A volte penso che soltanto un nome
è Dio, quello che diamo a tutti i nostri
crimini, per giustificarli agli occhi
di chi altrimenti ce ne chiederebbe
ragione. Forse so più cose, amico,
di quante viste abbia la tua prudenza.
FAKHR-AD-DIN batte le mani e la DANZATRICE fugge via insieme ai due GIOVINETTI: Adesso siamo soli. E ti rispondo.
FEDERICO Ti sgomenta una donna, una tua schiava?
e due fanciulli?
FAKHR-AD-DIN Dire posso tutto
quello che voglio, anche davanti a loro.
Sono soltanto servi. Discrezione
mi consiglia, però, di non turbare
la loro ingenua fede. Tu, superbo,
dal tuo scranno di faticata scienza,
chi sa, potresti riderne, sarebbe,
però, credimi, un passo falso. Sono
loro che saldo tengono il tuo trono,
e proprio perché sono ingenui. Il bene
sta raramente dove ci aspettiamo
di trovarlo. Più spesso, dove il pegno
è perdere la nostra millantata
sapienza. Da costoro un sì lo afferri
non già con gli argomenti, ma con una
carezza o, meglio, corrugando il ciglio.
Non siamo uguali. Anche se di diversa
fede, e forse, anzi, di nessuna, uguali
dirci noi due possiamo. Ma la figlia
d’un panettiere di Friburgo meno
ti conosce del gran vizir di Bursa.
Puoi scopare una contadina, l’occhio
di un conte o di un emiro sempre un muro
alzerà tra il tuo stemma e la sua faccia.
Dunque, che cerchi? Il mondo non è fatto
come ti piacerebbe che lo fosse.
I ragazzi t’avrebbero concesso
il culo volentieri, e la sua fica
la danzatrice. Ma da loro nulla
più ti sarebbe stato regalato.
Non lo sperare. Avvezzi sono i loro
corpi al sopruso, tutti i giorni, tutti
i momenti, da tutti – n’hai goduto
anche tu, no, dell’arrendevolezza
dei loro corpi? - ma sopruso, dimmi,
perché, perché violenza perpetrare
ai loro cuori ignari di violenza,
che non sia la violenza dello stupro?
C’è una violenza assai peggiore, amico,
della violenza che oltraggia un corpo. Quella
che fa violenza all’anima.
FEDERICO Violenza
all’anima? che dici? La conosco
questa violenza, su di me non solo,
da Innocenzo, ma tra le vostre file
di fedeli e devoti musulmani.
FAKHR-AD-DIN Federico, che fai? mi lasci solo?
Vuoi dirmi che non so le nefandezze
della mia parte? Le ignorassi, cosa
che non posso, il giudizio cambierebbe?
Esamina le tue. Ma enumerare
nefandezze, di quale nefandezza
ci scagiona?
FEDERICO La storia ci racconta
favole incomprensibili. La storia
che vorrei raccontata, c’è qualcuno
che possa raccontarmela, e non dirmi
ch’è stata invece tutta un’invenzione?
Violenza usare all’anima! Violenza,
il desiderio? Ma comprendi, Emiro,
desiderare, fuori d’ogni legge,
che cosa sia? c’è legge che un confine
possa configurarci al desiderio,
di oltrepassare il nostro desiderio?
Per qualcuno è sopruso già l’avvio
del desiderio. Ma per chi confine
del desiderio è il suo desiderare,
quale bocca concederà il suo bacio?
Lo inganneranno i sensi? E sarà bocca
per lui qualunque favola gliene apra
una, dovunque in corpo di ragazzo
o di donna gli sembrerà che bocca
sia l’apertura che l’accoglie? oltraggio,
gli parrebbe la verità? o sempre
è vero, da qualunque parte arrivi,
il piacere che appaga?
FAKHR-AD-DIN Per qualcuno,
anche uccidere dà piacere. Vero
piacere. Dal dolore procurato
che s’infligge. Sarebbe da cercare
anche questo, anche questo sembrerebbe
una bocca che accoglie? il bacio freddo
dell’angelo che a tutti chiude gli occhi,
bacio d’amore? Verità tu quale
potresti al cuore che ti si abbandona
con certezza affermare, e con certezza,
anche, nel tuo segreto, confermare?
FEDERICO E sia. Non capirebbero. Tacere
perciò si deve a loro da chi a loro
chiede la vita, vita mai che cosa
sia, e se bene toglierla, donarla,
o male sia, raccoglierla perduta
nel momento in cui l’alito finisce,
senza che sappia chi la lascia il vero
prezzo di ciò che lascia. La parola
offendere potrebbe la coscienza
di un giovinetto, quando lo degrada
a mente di un adulto e gli propone
non una bella fiaba, ma l’incerta
verità ch’è la sola verità
che un adulto conosce. La violenza
di un’illusione può più duramente
ferire di una verità svelata.
E paradiso si promette quale,
dimmi, dopo la morte, da chi crede,
a questi vostri giovinetti? Pazzi!
Ieri ho parlato con Hassan Sabbah.
UNA CELLA SULLA CIMA DI UNA TORRE. IN FONDO UNA GRANDE FINESTRA APERTA.
IL VECCHIO DELLA MONTAGNA e FEDERICO si guardano, l’uno di fronte all’altro, fisso negli occhi. DUE GIOVANI ARMATI stanno ritti ai lati del Vecchio.
FEDERICO Vi chiamano Assassini. Vostra vita
è la morte. Vi teme anche il Sultano
al-Malik al-Kamil, là nell’Egitto,
più di quanto non tema in Occidente,
da noi l’Imperatore il Papa. Quale
forza vi dà potere? quale mente
vi guida? armato avete con che scopo
la fedele follia di una masnada
imberbe, giovinetti che al suicidio
aspirano, che cercano la morte,
quasi la vita un incubo paresse
dal quale risvegliarsi. Parla, Vecchio.
Il colore degli abiti, lo sguardo
corrucciato, la fronte corrugata,
mi mostrano la nera cerimonia
d’una spietata idolatria. T’indigna,
forse quanto ti dico, ma t’indigna,
chi sa, di più, la libertà che ostento.
Ebbene, a questa libertà ti chiedo
di rispondere: a nulla gioverebbe
eliminarmi, conosciamo questo
tuo rifugio, sarebbe un gioco farti
fuori insieme alla tua ghenga di pazzi.
Ti conviene parlare. A me conviene
risparmiarti la vita, per ognuno
dei cavalieri che m’ammazzi, quasi
vinco la mia battaglia, senza alzare
per colpirvi una lancia. Cresce l’odio
per voi perfino tra le vostre fila.
E insieme all’odio cresce la paura.
E chi ha paura, assai pericoloso
può diventarti. Dura molto poco
il potere che nasca dal terrore.
Ma spiegami il mistero che li acceca,
e spiegami di questa disperata
fedeltà la radice che non vedo,
il nodo che li stringe come un cappio
alla gola. Non sembrano ragazzi.
Non sembrano guardare. Il loro sguardo
è vuoto. Come di un automa, come
l’occhio del Golem. Sembrano accecati.
Si offrono lieti al bacio della morte,
e sorridenti, quasi fosse il bacio
tiepido di una donna. Li ho veduti
morire, ad Acri, sotto il mio pugnale:
ma non era un morire l’amoroso
languore che nel volto li sbiancava.
E quale vita può per loro darsi,
oltre questa, più bella della loro
stupita giovinezza? Parla, Vecchio.
Ti ascolto in un silenzio disperato.
HASSAN SABBAH Ma nel Silenzio si rivela il Nulla.
Tu sei di molti principi sovrano,
come dicono, ma così lontana
è la tua terra che di queste cose
digiuna serbi ancora la tua mente?
Viaggio, dai Franchi fino a questa Torre,
così lungo sofferse la tua vela
che per strada dimenticasti leggi
e costumi di chi lo scettro in pugno
stringe? o davvero la radice dove
s’interri del potere non conosci?
T’accolse alunno la Sicilia.. Seme
di saggezza, la lingua del Profeta
al Vero t’educava. Delle antiche
carte, quasi a te solo in Occidente,
il suo segreto l’Ellade t’apriva.
Ed osasti perfino profanare
la tua intelligenza con la lingua
dei rinnegati figli di Giudea.
Tutto il bene, ma pure tutto il male,
sembri avido di bere, da qualunque
fonte ti scaturisca il suo liquore.
Questo ti rende strabico. Minacci?
Spocchioso nanerottolo tedesco!
La morte non mi fa paura. E mille,
dopo di me, vedresti dalla terra
sorgere che calpesto, armate guardie
dell’Islàm, a distruggerti e annientarti!
Mi stupisci e - permetti? - mi deludi.
Piccolo, calvo, rossa e rada intorno
alla bocca la barba, corto il raggio
dello sguardo, saresti un re? del Caso
dunque sarebbe figlia la corona
d’Imperatore che ti cinge il capo?
Principe dei Credenti qui si chiama
chi ci governa, principe di Dio,
perché solo da Dio forza gli viene
di reggere la Terra e di guidarla.
FEDERICO Che credi? anche per noi da Dio deriva
ogni potere. Ma non ho bisogno
di un prete che si faccia mediatore,
tra Dio e me, di quel potere. Questo
mi divide dal Papa e mi condanna
all’esilio tra il popolo cristiano
che beve la sua bava come fosse
sputata dalla bocca di Dio Padre!
HASSAN SABBAH Tu, principe dei principi, non vedi?
Tu, Re dei Re, o, come nella vostra
lingua ti fai chiamare, Imperatore,
ignori ancora, come fossi imberbe,
da dove nasca il grande tuo potere?
Oh, non da Dio. Ma da chi crede in Dio.
Ascoltami. Non parlo invano, quando
parlo, chiunque mi si piazzi in faccia!
Per ognuno dei vostri cavalieri
che ammazo, diecimila nuove bocche
mi aspettano nel luogo a te proibito
per soddisfare tutte le mie voglie.
E dunque: ascolta quanto devo dirti.
Oltre l’istante che c’ingoia, il Tempo
all’occhio si squaderna della mente
e vi leggo segreti che nessuno,
nato di donna, oggi, conosce. Posso
fartene parte, posso reclutarti
tra gl’iniziati. Posso il suo Sigillo
dischiuderti, che mano di mortale
non disserra. Ma tu non sei mortale.
Perciò ti parlo. Sgombro dai tuoi occhi
la nebbia che ti rende cieco. Ascolta.
Nessuna forza magica sostiene
il mio potere. Oltre la mia, nessuna
mente mi guida. Un esaltato, forse,
mi crederai. Ma perché non piuttosto
un Veggente? Uno sperimentatore?
uno che ha visto il Nulla, ed è convinto
che quel Nulla sia Dio? potresti, forse,
per ubbidire al tuo razionalismo,
credermi un sognatore, un impostore.
ma perché no, dimmi, un illuminato?
Ti sembrerebbe cinico e banale?
Può darsi. I nostri mistici da molte
parti del mondo ci hanno spalancato
questo Mistero. Noi li credevamo
visionari poeti, credevamo
di dovere tradurre in quotidiana
esperienza il linguaggio fiammeggiante
delle loro visioni: interpretare
quelle strane, volubili figure.
Dicono la realtà. Vedono Dio
così com’è, l’Abisso senza fondo
in cui s’annega l’essere. Una meta
che il termine dei pochi e brevi giorni
a me predestinati mi oltrepassi
e il fragile respiro dei miei anni
dopo di me prolunghi, non conosco.
La mia parola è disperata quanto
il tuo silenzio. Ed è guardando dentro
il vuoto Abisso, nell’oscuro Nulla,
che m’arriva la forza, con cui reggo
le sorti del mio popolo. Nel cuore
posso allora di questi giovinetti,
senza turbarmi, insieme alla certezza
di una fede, con arte distillare
a goccia a goccia, lentamente, il dolce,
seducente terrore della vita.
FEDERICO Da lungo tempo, Vecchio, volgo in mente
pensieri come questi. Ma credevo,
da vero rozzo figlio di Tedeschi,
che solo in Occidente le radici
s’interrassero dello scetticismo,
del disinganno, e di quella mortale
malattia ch’è il tedio della vita.
HASSAN SABBAH No, non tedio: terrore. Mi fraintendi.
FEDERICO Non ti fraintendo affato. A passi lenti,
ma ti sto dietro, Vecchio, e ti raggiungo.
Mi sbagliavo, naturalmente. Prima
ancora che da noi, tra le brumose
pianure del lontano Nord, m’accorgo
che invece qui, tra le assolate dune
del deserto, già qui, nell’afa spessa
di fiumi sonnolenti, Dio si veste
da giullare, si maschera da guitto,
e gioca a nascondino con i saggi.
Sotto il cielo purissimo d’Oriente,
niente ci appare allora meno impuro
della faccia invisibile di Dio.
Vesta la mitra o indossi caffettano
e turbante, il suo grido è sempre un grido
di morte che si espande tra la gente,
e spada o scimitarra, d’ogni lato
rotolare vedrai a centinaia,
a migliaia, le teste di Cristiani
e Musulmani. Che sia croce o luna
lo stendardo, distinguere non conta:
ma chiedilo ai decapitati quanto
valga uno stemma, quanto li assecondi
il colpo di una lancia, quanto appaghi
il sapore del sangue nella bocca,
a che giovi la fulminante asprezza
d’una freccia che a un tratto si conficca
nell’occhio. Chiedi, chiedi, e se resisti
al loro sguardo, interroga i fanciulli
che con animo lieve mandi tutti
a morire. Non credo che al tuo Dio,
che al Dio di Roma o di Bisanzio, o Dio
quale che sia nel mondo, la mattanza
inutile, ingiustificata, folle,
che tra noi si perpetua e si comanda,
possa sembrare un simbolo di gloria.
E dunque Allah, Maometto, Islàm, o Cristo,
Bursa, Costantinopoli, se questa
guerra santa la chiamano Cristiani
e Musulmani, un gioco vi è giocato,
certo, da tutti noi, ciascuno trova
poi l’interesse che gli piace, trova
la giustificazione. Ma del gioco
chi conosce le regole? Chi muove
le pedine? Chi sa tutte le mosse?
Forse appieno nessuno. Può cadere
la Regina, può cedersi un Cavallo.
Ma poi lo scacco al Re, lo Scacco
Matto, non è la fine della nostra
partita, ne prepara un’altra, forse
di rivincita. Ma di quale parte?
Di tutte e di nessuna. L’una e l’altra
sgominate sul campo. Sterminate.
Ebbene, allora più di una pedina
non vale il Dio che chiede il nostro sangue.
O la partita se la gioca tutta
quanta da sé, figura, segno, stampo,
di cosa indecifrabile, di cosa
che non ha nome o che il suo nome prende
d’accatto. E dunque dietro questo nome
- se di cosa o di Dio, non so - non altra
è l’ambizione che corrode il gelo
di quella mente, se non l’intenzione
di dominare e di delimitare
un dominio: tu, uomo, qui non passi!
Non è così? Ma questo, lo sapevo!
Di tale gioco, Vecchio, già conosco
tutte le mosse e tutte le varianti.
HASSAN SABBAH Ma quello che non sai e che divide
in aspre lotte l’Impero Cristiano,
è che tu dio non sei, ma invece un altro
nell’Impero, ne assume, non il nome,
che non può, ma l’ufficio di vicario,
se ne proclama delegato in terra,
per mandato divino. Ogni potere,
non è dall’uomo, ma da Dio concesso.
Diventa tu dio, Federico, e tutto
da tutti avrai. Non d’essere sfamato
ti fa preghiera il popolo, ma dagli
l’illusione di vincere la gloria
dei secoli, ti seguirà dovunque.
FEDERICO Divide anche l’Islàm quel sacro nome,
Dio non la pace, ma la spada in terra
ha condotto, lui stesso condottiero
delle schiere avversarie, delle opposte
fazioni, degli eserciti nemici.
Divide Dio vassallo da vassalo,
califfo da califfo, e sparge sangue
musulmano per mano musulmana,
così com’è cristiana molto spesso
quella mano che sangue di cristiano
fa scorrere nei campi di battaglia.
HASSAN SABBAH Gioco anche questo. Esercizio di morte.
Non so nel vostro campo di Cristiani.
Ma chi combatte, qui, combatte sempre
per l’Islàm. E perciò m’infastidisce
che tu ti ostini a fare paragoni.
Nessun confronto tra l’Islàm e voi
centra davvero la questione, tocca
il nodo della fede musulmana.
Nell’Islàm si ubbidisce a chi comanda.
Non importa per chi, né sotto quale
insegna, se un’insegna c’è, e se insegna
musulmana sarà quella che guida,
basta che venga stretta forte in pugno
da mano salda che ai credenti mostri
la strada da percorrere. Ci andranno
giubilando, convinti di parlare
con Dio stesso, di cui sei l’inviato.
Il popolo è una cagna che al mendico
mostra le zanne, ma lecca la mano
che la percuote. Libero, si perde.
E s’affretta a inventare altri padroni.
FEDERICO Ma fino al punto di avere paura
della vita, ottenerlo come puoi?
HASSAN SABBAH Bastano pochi eletti, i più reattivi,
i cuori più sensibili, i più puri.
Saranno agli altri esempio di devota
fedeltà, di coraggio, d’ardimento.
Li chiameranno eroi, li ammireranno.
Invidieranno la loro immatura
felicità. Ti sembra poco? Guarda.
Fa un cenno ai due giovani armati, che cacciano subito un urlo stridulo di gioia e si buttano giù dalla finestra della torre.
LA SCENA DI PRIMA. L’EMIRO sdraiato fuma oppio dal becco del narghilè. FEDERICO, cupo, in piedi, l’osserva.
FEDERICO Li strappano così alla vita. Il Vecchio
li alleva nel più rigido ascetismo
per anni: ma descrive il paradiso
di delizie, piaceri voluttuosi,
destinato ai campioni della fede.
Un giorno li stordisce con hashìsh4.
Per quest’erba li chiamano Assassini.
Poi li risveglia in mezzo al paradiso
promesso, dove il murmure leggero
delle fronde li adesc’a dolci sguardi.
E vedono ruscelli che hanno le acque
gialle, bianche e vermiglie per il miele,
il latte e il vino che vi scorre dentro.
Zampilli di fontane, ombre vaganti
di rondini, usignoli e pettirossi
fanno bordone al lieto e vario aspetto
del giardino, e col dolce e lieve suono
del mormorio dell’acqua e dei bei canti,
s’intenerisce ai giovinetti il cuore,
si ridestano gli assopiti sensi.
Soavi donne e teneri fanciulli
fingono urì graziose e delicati
efèbi, donne e ragazzi nell’arte
esperti d’ogni vincolo d’amore,
disposti ai più volubili viluppi,
pronti a spillare dagli estenuati corpi
dei giovani guerrieri i più estasiati
effluvi, le più torbide effusioni.
Un attimo di questo paradiso
basta a bruciare in loro la memoria
d’ogni altro tempo che non sia l’istante
di quell’intensa voluttà, di quella
perenne ebbrezza, che li succhia, esausti,
nel vortice di quello sfinimento.
Da quel momento, non aspira ognuno
che a rinnovare quelle sensazioni,
che a ripetere il dolce ultimo istante
che li ha sfiniti e dunque il desiderio
s’aggroviglia nell’ansia di un’attesa.
Il Vecchio lo sa bene. Li addormenta
un’altra volta. Quando li risveglia,
rivedono le mura della torre:
e anelano alla morte per lo spasmo
disperato di quel perduto istante.
FAKHR-AD-DIN Felice istante! più felice morte!
che da vivace morire a immortale
vita i sensi trapassa e in un istante
immortalmente fa morire il cuore!
L’INTERNO DEL DUOMO DI MESSINA. E’ il settembre 1197. COSTANZA D’ALTAVILLA fissa, torva, il feretro su cui giace il cadavere di ENRICO VI.
COSTANZA Annegato nell’acqua del tuo corpo,
o stupratore, non esisti più!
Ora sei - finalmente! – ciò che fosti
sempre: pietra - , o predone della figlia
di Ruggero e del Regno dei Normanni.
Te lo dice, al tuo sangue raggelato,
la madre di tuo figlio Costantino5.
Grida, adesso, il tuo grido di selvaggio!
LA SCENA DI PRIMA. L’EMIRO annega nell’oppio, FEDERICO lo guarda, tra il compassionevole e il disgustato, gli si accosta, lo scuote.
FEDERICO Amico, e se ragione avesse il Vecchio?
Se prigionieri d’un errore, i nostri
pensieri vaneggiassero? Se un sogno,
solo un sogno, la mente vagheggiasse?
Forse il mondo non sa, non vuole fare
a meno dell’idea d’un Dio sapiente,
di uno sguardo indulgente che ci guidi.
Piuttosto morirebbe, che accettare
un mondo senza Dio o senza un Dio
provvidenziale. Che la provvidenza
possa imporsi con la violenza di una
guerra, non lo spaventa. Poco importa
il mucchio di cadaveri che funge
da basamento a quest’imposizione
di un ordine. Che sciocco quel sovrano
che crede invece di consolidarlo,
un ordine, con patti e con trattati
di riconciliazione! La rivolta
non gli verrà dal popolo o dagli altri
sovrani: gli verrà dal bianco e bieco
spettro di Roma, dal vicario in terra
del giudizio divino! Giudicare!
Qual è più sogno, dimmi: il mio, d’un regno
senza fede o la fede che organizza
un regno? Bah! Diverso non mi pare
l’ostinato Gregorio da quel Vecchio
farneticante. Sono entrambi un calco
di fanatismo cieco, ottuso e pazzo!
FAKHR-AD-DIN Tu possiedi un Impero vasto quasi
quanto il mondo, soltanto il nostro Impero,
e, dicono, in un più lontano Oriente,
nei deserti dell’Asia, un altro Impero,
fors’è più vasto. Ma perché temerlo,
se puoi parlare, come in questa notte,
la nostra lingua e abbandonarti al sonno
tra i nostri incensi? Dormi, Federico.
Oltre i sensi, conosci qualche cosa
che puoi chiamare, senz’ombra di dubbio,
verità? quanto al vero che dai sensi
t’è mostrato, se senza te lo pensi,
puoi ancora pensarlo vero? Dormi.
E respira con me l’oblio del mondo.
FEDERICO Dimenticare il mondo? Non è quello
che cerco. A piene mani è sparsa in terra
la tenerezza della vita, il bello
m’assale e mi commuove. Ma veloce
trascorre il giorno ch’è concesso ai sensi.
Rapida giunge a chiuderlo la notte.
Prima di quella notte voglio bere
con i miei occhi dallo spazio aperto
tutta la luce che mi raggia il sole.
FAKHR-AD-DIN Lontano è il sole, assai lungo il cammino
che il suo raggio percorrerebbe fino
a sfiorarti le palpebre socchiuse.
La luce che ci arriva è solo un’ombra,
un’offuscata macchia, di quel fuoco.
FEDERICO Mai dunque il Sole? mai la pura luce
del suo perenne fuoco nello sguardo?
Una volta vederla. Una soltanto,
e di dolce pienezza poi morire.
FAKHR-AD-DIN Ti basti ‘l sogno che sognò tua madre.
Brevi minuti dura il nostro giorno.
E dunque quando noi guardiamo il giorno,
e c’illudiamo di ficcare l’occhio
nella sua luce, non vediamo invero
nient’altro che lo sfarfallio di un’ombra,
il breve istante che s’imprime come
una traccia volubile nel cuore.
Ma tu nemmeno di quest’ombra sembri
ricevere un riflesso. Che pienezza
vuoi dunque catturare, se la vita
che vivi ti si sfila tra le dita
come una tenue e vuota ragnatela?
Pertanto non guardare oltre lo spazio
che il tuo sguardo misura, Federico.
Che cosa troveresti? Altri confini,
altre misure, altri modelli. Un altro
chiuso spazio, che come questo nostro,
scandiscono ordinate altre figure
del Tempo.
FEDERICO Il tempo!
FAKHR-AD-DIN Puoi fermarlo, dimmi?
dominarlo?
FEDERICO Nemico m’è da sempre.
Mentre parlo mi sfugge, s’allontana.
E sento che lo perdo. Che svanisce.
Non è sostanza: non posso toccarlo
né pensarlo. Potrei una parvenza
supporlo tutt’al più del movimento
delle stelle, rispecchierebbe allora
quaggiù la geometria del loro passo.
Se così fosse, il tempo esiste, esiste
anche se non l’afferro, anche se sfugge
al mio pensarlo. Ma se il tempo esiste
fuori di me, senza di me; se scorre
senza ch’io possa regolarlo, senza
ch’io sappia anche minimamente agire
sul suo flusso e determinarlo, allora
il tempo mi sconfigge, esattamente
come la morte.
FAKHR-AD-DIN E dunque? che concludi?
dove ti perdi? Dormi, Federico, dormi.
Non è sostanza, certo, e non lo tocchi,
il tempo, né lo pensi: non almeno
come definizione, inadeguata
qualsiasi idea che tenti contenerlo
nei termini ristretti di un concetto.
Perché dunque ti ostini ad affermare
che il tempo esiste? L’ombra di se stesso,
chi sa, l’anafferrabile misura
del nostro scomparire, l’incompiuto
tentativo di chiudere il fermaglio
del domani, sospendere la corsa
della ruota che muove ciò che ancora
non accade. Ma, più probabilmente,
l’ombra del suo dissolversi nel punto
in cui ci sembra già di trattenerlo,
anzi l’ombra dell’ombra, che a guardarla
voltandoci ci mostra le sue spalle
e si disperde al passo della sera.
Sei potente. Ti credono sapiente.
Puoi dischiudere ai popoli un Impero,
rivelare una nuova fede, aprire
nuovi confini al regno della Legge.
Ma non è senza prezzo questo immenso
potere che t’acquisti. Ogni potere
sembra quasi racchiudere in se stesso
un germe infetto, sprigionare forze
terribili, non già divine, quanto
piuttosto demoniache. Una tale
possessione non può colmare il cuore,
ma lo svuota. Più si è perciò potenti,
più si spalanca immenso dentro il vuoto.
Ai sudditi dai terra, fede, legge.
Ma per te non hai terra, non hai fede,
non hai legge. Per questo sei potente.
Diventa uno dei sudditi che muore
in una delle tue battaglie, lascia
il possesso di tutte le tue terre,
invéntati una fede ed ubbidisci
a una legge, invece di crearla,
non cercheresti più nessuna luce.
FEDERICO Nel mio sangue c’è febbre di predone,
da mia madre ho bevuto latte amaro
di nomade. Non possedessi imperi,
il mio pensiero vagabonderebbe
per sentieri mascosti, nei deserti
del cuore e, chi sa, nuovi sapori
succhierebbe da qualche ignoto frutto,
qualche vista vedrebbe che lo appaghi,
dai deserti dell’anima.
FAKHR-AD-DIN tornando in sé, dai fumi dell’oppio:
Torniamo
dunque ai deserti della vita. Ascolta.
Il Sultano d’Egitto ti concede
quello che chiedi: puoi comunicare
ai tuoi Crociati che Gerusalemme
da domani si schiude ai pellegrini
del Sepolcro. E non uno fu trafitto
sul campo dei tuoi uomini o dei nostri.
Nessun Arabo ottenne dal Sultano
dono più grande di questo che, vinto
da folle amore per la tua saggezza,
graziosamente a te Cristiano dona
al-Kamil al- Malik, nostro Sultano,
Principe ovunque amato dei Credenti.
FEDERICO s’inchina all’Emiro, chiude le braccia in croce sul petto e, curvandosi fino al pavimento, gli bacia i piedi:
A questo folle amore saggiamente
risponderà la mia follia e il cuore
follemente dirà la mia saggezza.
Ai tuoi piedi s’inchina in questo bacio
d’immensa gratitudine un Impero.
Nemmeno il Papa ottenne un tale ossequio
dalla mia dignità d’Imperatore,
e con tanta umiltà concesso. Pensa
che alla tua Notte, indecifrato Amico,
ora s’inchina per Amore il Sole.
FAKHR-AD-DIN Siamo dunque al commiato? Non partire.
FEDERICO Se mi si desse scelta tra lasciarti
e morire, direi: morire. Tanto,
però non m’è permesso. Doloroso
desiderio m’accende di follia
la mente. Il mare del ritorno s’apre
come un deserto davanti al mio sguardo.
Ma non è quella di chi parte vera
partenza e di chi resta non è vera
separazione l’allontanamento,
se oltre il deserto degli sguardi dolce
memoria stringe in petto nostalgia
di ritorno e la mente solo trema
a pensarlo. Ma udrò la vostra voce,
la sera, dalla torre di Palermo,
nel canto del muezzìn. E voi, da questa
terra, la mia, nei canti del Sepolcro.
FAHKR-AD-DIN Immemori deserti, Amico, lascia
dietro di sé la Notte: e nessun fiore,
per noi, dopo, dischiuderà la Luce
che da segrete vene noi beviamo,
ogni ora che tra noi senza parole
nel muto incanto scorre di uno sguardo.
Ciò che dicemmo, che ascoltammo, è niente:
ciò che ancora vorremmo dire, meno
che niente. Ricordarlo sarà poca
cosa. Ma ciò che invece ci tacemmo,
questo sarà per noi nostra memoria,
dolore di dolcezza non dischiusa.
Io non penso, non penso più. Sì, certo:
è come dici. Udrai la nostra voce,
la sera, dalla torre di Palermo,
nel canto del muezzìn. E noi, da questa
terra, la tua, nei canti del Sepolcro.
Ma nessuno la voce udrà dell’altro.
La voce, dico, che tra noi respira
anche in silenzio l’eco della voce
che interrogando aspetta la risposta.
Il Silenzio in cui ora annegheranno
le parole che ci vorremmo dire,
non sarà più di attesa, ma di vano
desiderio e sospiro di un Assente.
IL SANTO SEPOLCRO. Una folla immensa assiste all’incoronazione di FEDERICO. Si odono, mescolati, canti arabi, canti arabi dei Cristiani di Siria e d’Iraq, canti dei Cristiani Latini, Greci e Slavi, e infine canti ebraici. FEDERICO avanza lentamente fino all’altare, davanti al quale il Vescovo lo aspetta con la corona d’Imperatore. Ma, giunto davanti a lui, FEDERICO gli strappa la corona dalle mani e se la pone da sé sul capo. I canti diventano grida di acclamazione e di esultanza. Improvvisamente, in alto, sinistramente illuminata, compare, assisa sul trono di Pietro, la figura solenne di Papa GREGORIO IX.
GREGORIO IX L’empio ha colmato intera la misura
della sua smisurata empietà. Fino
alla fine ha finito l’infinita
operazione della finitezza
del Male. Per un’opera dannata
di dannazione universale, stringe
la Croce sul Sepolcro la perversa
mano di un rinnegato. La Superbia
di Satana condusse a patteggiare
con l’Infedele un infedele Servo
della Chiesa, di modo che un’impresa
cui solo una conquista giusta e santa
poteva imporre crisma di cristiana
e misericordiosa spedizione,
oggi sembra graziosa concessione
di un idolatra falso e usurpatore.
Nessun patto intercorrere può mai
tra il Dio cristiano e quello musulmano,
nessuna tregua si concede al Male,
quando l’armata che lo sfida in campo
è l’armata del Bene: perché Cristo
è il bene, e non c’è Bene se non Lui.
Questo superbo Staufen, Federico,
che dite Imperatore, troppi segni
lo dichiarano come l’Anticristo!
L’Apocalisse dunque s’avvicina.
Ma noi, Servo dei Servi di Dio, noi
da questo soglio, qui, che fu di Pietro,
e che fu benedetto dal suo sangue
di martire, lanciamo l’anatema!
E rinneghiamo il patto, noi, Gregorio
Nono, noi, Papa e Vescovo di Roma,
noi, Vicario di Cristo sulla terra,
dal profondo odio di Dio, dal profondo
odio nostro essere condanniamo
all’eterna e totale interdizione
dai Sacramenti, a dannazione eterna,
il peccatore che lo sottoscrisse,
e gli proibiamo accesso ai luoghi sacri,
gli proibiamo di chiedere ubbidienza,
d’imporre leggi, d’essere un sovrano:
è un reietto di Dio, finché la morte
a sguardo umano il suo fetido corpo
non sottragga e finché l’anima dannata
non bruci al fuoco eterno dell’Inferno!
FINE
Bettona, agosto 1978.
Prima revisione: Roma, 19 ottobre 1994.
Ultima revisione: Roma, sabato 1 gennaio 2005.
1 Pronunciare muezzìn, col la zeta dolce di zefiro.
2 La z si pronuncia dolce e sonora come la s dell’italiano bisogno.
3 Pronunciare, all’antica: Tróies.
4 Far sentire l’aspirazione iniziale.
5 Il primo nome di Federico.
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