mercoledì 21 luglio 2021

Nicolai Pfeiffer tra Mozart e Brahms


 

Nicolai Pfeiffer


Woflgang Amadeus Mozart

Concerto for Clarinet K, 622

Rondo K. 373

Sperai vicino al lido K. 368

Symphony No. 29 in A Major K 201


Nicolai Pfeiffer, clarinet

Markus Syenz, conductor

ORT Orchestra della Toscana


NOVANTIQUA NA55

Affinità elettive


Brahms

Clarinet Sonata op. 120

Piano Pieces op. 119


Nicolai Pfeiffer

Felix Wahl


Cavi Music 8553394


Nicolai Pfeiffer non è solo un bravissimo clarinettista, ma è soprattutto un musicista completo. Fare musica è il suo modo di pensare, forse perfino di essere. Per esempio, si confronta con la lettura di una partitura riconsiderandone da capo la scrittura, la revisione, l’interpretazione, la confronta con il manoscritto, le prima edizione, le successive, per stabilire una versione quanto più possibile vicina alle intenzioni del compositore. Nasce così da questo lavoro, per la Henle Verlag, la pubblicazione dell’Urtext del Concerto in si bemolle maggiore di Johann Stamitz, appena data alle stampe, anche in una riduzione per clarinetto e pianoforte, elaborazione pianistica di Michail Lifits. Della sua intelligenza interpretativa esistono però due incisioni: le due sonate per clarinetto e pianoforte op. 120 di Brahms, al pianoforte collabora Felix Wahl, che interpreta anche i quattro Klavierstücke op. 119, etichetta Cavi-music; e il concerto per clarinetto K. 622 di Mozart, con l’Orchestra della Toscana diretta da Markus Stenz, che dirige anche, sempre di Mozart, la bellissima sinfonia in la maggiore K. 201. Pfeiffer si misura anche con due pagine, da lui stesso trascritte per clarinetto, che Mozart ha destinato al violino, il Rondo K 373, e l’aria “Sperai vicino al lido” K. 368, etichetta Novantiqua. Cominciamo da Brahms. Le due sonate per clarinetto appartengo all’ultima produzione da camera, il Quintetto op. 115, i pezzi per pianoforte op. 116,117,118,119, questi ultimi inclusi nell’incisione e suonati da Felix Wahl. L’ultimo Brahms è un compositore consapevole di trovarsi alla conclusione non solo del proprio percorso compositivo, ma di un’intera stagione musicale. Si guarda indietro, è attratto perfino dalla musica clavicembalistica francese del XVII-XVIII secolo, sostiene la pubblicazione moderna, la prima, dei Pièces de clavecin di Couperin. Ma, come l’ultimo Beethoven – e l’ultimo Schumann -, prosciuga anche la sua scrittura fino a una enigmatica, scarna asciuttezza. Le due sonate, osserva Pfeiffer nelle note del booklet, nascono in un periodo della vita di Brahms rattristata da perdite, amici che scompaiono. L’umore triste non può non influire sulla scrittura. Ma Brahms non è uomo, né compositore, che ceda alla confessione intima. Come la perdita della madre si sublima nel Requiem tedesco, così la morte di Bülow è trasfigurata in una sorta di addio al mondo musicale tedesco, da Mozart a lui, Brahms, attraverso Beethoven e Schumann. Il giovane Brahms aveva costruito alcune variazione su un tema che Schumann dichiarò gli fosse dettato dallo spirito di Schubert. Schumann stesso vi costruisce sopra alcune variazioni, e sono la sua ultima musica. Lo stesso tema è intonato dal violino nell’Adagio del Concerto per violino. Ma non è una novità, per Schumann, assorbire il senso di una fine: il Carnaval è costruito su una cellula derivata dal nome ASCH, il villaggio in cui si immagina il corteo carnevalesco, la bemolle do si naturale. Asch, in tedesco, come l’inglese ash, significa cenere. Una via trasversale per dire memento mori. Mercoledì delle ceneri. Schuberti diceva che non esistono melodie allegre, che tutte le melodie sono tristi, perché anche quelle che sembrano allegre raccontano il ricordo di una gioia, non la gioia presente. Probabilmente le cose non stanno così, e la musica può cantare anche la gioia. Non può cantarla, per Schubert. E Schumann? La Dichetrliebe si apre con l’evocazione di un bel giorno di maggio. Ma poiché si racconta la fine di un amore, il bel giorno di maggio è ricordo dell’amore finito, del giorno in cui non si sapeva che sarebbe finito. Beethoven, invece, si che racconta la gioia, ma la racconta solo come vittoria sul dolore superato. C’è, tuttavia, una pagina in cui anche Beethoven sembra avvicinarsi alla nostalgia schubertiana. E’ l’ultimo tempo della sonata op. 109. Un tema ternario, quasi di valzer lento, con variazioni. Le variazioni suscitano una tempesta musicale, ma si concludono con la riesposizione del tema. E dopo tutte le avventure che il tema ha affrontato nelle variazioni il suo ritorno suona con struggente, infinita tristezza. Anche se siamo in mi maggiore. Ma torniamo al clarinetto di Nicolai Pfeiffer. Mozart e Brahms sono due mondi che si confrontano a specchio. Il clarinetto, vivo Mozart, è uno strumento moderno. E’ proprio Mozart a scoprirne l’ombra moderna, oscura, nostalgica. Anche perché gli preferisce in genere il corno di bassetto, lo strumento al quale in realtà è destinato il concerto, dal timbro più scuro. Gluck, Stamitz ne sono come Mozart attratti, anch’essi

Brahms – ma in mezzo non è passata invano l’esperienza di Schumann – sembra volergli affidare un messaggio di ripiegamento su sé stesso, di riflessione. In partitura è scritto che il clarinetto può essere sostituito da una viola. Ma è evidente, anche a un primo, ingenuo ascolto, che la musica è pensata per il clarinetto. Pfeiffer asseconda questa idea, il suono è pastoso, morbido, il fraseggiare sinuoso, flessibile, sembra quasi strabordare dalla misura della battuta. Felix Wahl lo insegue, il pianoforte gareggia con il clarinetto nell’anelito di cantare, di non sostare, ma di moltiplicare le dinamiche, improvvisi pp dopo un forte o viceversa. I due strumenti si abbracciano - e che cos’altro è il contrappunto se non un amplesso perennemente rinviato? - , s’inseguono, gareggiano in effusione di canto, in ritrosia d’improvvisi sforzati. Ma ciò che più attrae è l’evidenza con cui sia il clarinetto, sia il pianoforte mettono in risalto la scrittura della pagina, il suo procedere da cellule minime, un intervallo, un ritmo particolare racchiuso in una breve successione di suoni. L’arte della variazione non è solo dedurre variazioni da un tema, ma anche procedere via via da intuizioni fulminee, da brevi sollecitazioni, coerentemente, come se tutto il discorso sia variazione o sviluppo della cellula di partenza. Pfeiffer e Wahl godono nel farcelo riconoscere, questo procedere per piccoli passi da una stessa cellula tematica. Probabilmente è in questo che Schoenberg leggeva la “progressività” della musica di Brahms. Che però ha radici già nella scrittura mozartiana. Il clarinetto, per Mozart, come la voce femminile, è l’incarnazione dell’idea platonica di canto. Canta sempre, non smette mai di cantare. Ed è forse proprio per questo canto dispiegato che Brahms nutriva così profonda nostalgia, sentendolo ormai impossibile nel suo tempo. Pfeiffer vi si abbandona, se ne lascia assorbire, con sensualissimo godimento, ed è così che si ascolta finalmente un Mozart il cui canto è un lungo, quasi carnale, irresistibile canto di seduzione. Mozart non è per caso il cantore di Don Giovanni. Kirkegaard ci aveva visto giusto: la musica di Mozart è la realizzazione perfetta del puro istante di piacere, del canto che canta la vita che scorre, che fugge, che non si lascia afferrare. E proprio per questo, il canto serba un retrogusto amaro, quasi una consapevolezza della propria caducità, di quanto effimero sia ogni piacere. La musica di Mozart è forse la musica più complessa, ambigua, sfuggente che sia mai stata composta, proprio perché racchiude l’inafferrabilità stessa della vita e ne propone la rappresentazione. Si ascolterebbe per ore Pfeiffer intonare la lunga, indefinita, interminabile melodia che attacca l’Adagio del concerto. E quanto d’irrequieto, d’irrisolto, di provvisorio si racconti nell’effervescenza del Rondò finale. Rappresentazione dell’irrisolto, naturalmente, non irresolutezza della musica, che anzi è tra le musiche più definitivamente risolte che siano mai state composte. Ma c’è un punto in cui Pfeiffer ci fa venire i brividi. Ed è quando avvia il secondo tema, nel primo tempo. Sembra quasi esitare, affondare in un cupo riflesso alla ricerca di un tema. Si riprende subito, e il tema finisce per cantare meravigliosamente. Tuttavia il buio è stato intravisto. E più avanti invade anche la serena luminosità del tema. Eccolo, Mozart: dove finisce la gioia, dove comincia la tristezza, e quale è dolore e quale tristezza, si penetrano, si confondono in un unico respiro che racconta appunto l’inafferrabilità della vita, il flusso di piacere e dolore, di allegria e di tristezza, in cui tutto si mescola, e tutto diventa l’altro, indistinguibile il confine tra un sentimento e l’altro, tra un momento e l’altro della vita. Markus Stenz, a capo dell’Orchestra della Toscana, sostiene bene tutto questo complesso e ambiguo gioco. Lo riafferra nella bellissima Sinfonia in la maggiore K. 201, tra le pagine più complesse e intricate del Mozart giovanile (giovanile a 18 anni? Mozart era in realtà già maturo a 15 anni, tanto da scrivere la tragica scena delle tombe nel Lucio Silla – ci ritornerà con più distacco e ironia nella scena del cimitero, nel Don Giovanni). Pfeiffer, in questa registrazione, cede alla tentazione, in cui oggi cadono molti, di suonare con il clarinetto musiche che Mozart ha pensato per il violino e per la voce umana. Un tempo le trascrizioni o le trasposizioni erano diffusissime. Il purismo novecentesco le aveva quasi bandite. Oggi, in epoca di riciclo perpetuo del riciclabile, ritornano. Confesso di non amarle. Ma Nicolai Pfeffer vi sfoggia una tale abilità, una così tenera cantabilità, una così accattivante sensualità sonora, che è difficile resistere al piacere di abbandonarvisi. Goethe lo aveva capito profondamente, e ce lo confessa in modo mirabile: alle affinità elettive è impossibile resistere. Ma perché si dovrebbe, quando è così dolce annegarvi?


Fiano Romano, 21 luglio 2021



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