giovedì 16 giugno 2022

Mnemosyne

 

MNEMOSYNE

Ritorno nella Bassa Padana


ELEGIA DRAMMATICA PER UN PAESE CHE NON C’È PIÙ




Una spiaggia sul Po, sul fondo il ponte tra la riva emiliana e quella lombarda, tra Boretto e Viadana. Siamo sulla riva emiliana. A sinistra la foce del fiume Enza. Quanttro persone, un uomo e una donna, non più giovani, che indossano una giacca a vento, e si soffiamo spesso sulle mani, guardano, preoccupati, il fiume che scorre; con loro un Giovane e una Giovane, vestono un maglione girocollo, saltellano, fanno esercizi di ginnastica. Alle loro spalle boschi di pioppi. Tira vento, i capelli delle due donne, lunghissimi quelli della Giovane, tremano nell’aria.



L’UOMO VECCHIO             Non è tempo, non è più tempo, questo,

di abbandonarsi all’elegia, quando anche

di conforto mi fosse ricordare

il mio tempo di lacrime. Fuggita

la mia felicità di starci, quale

felicità promette ora il ritorno

a questa terra amata che non posso

quasi più riconoscere mia terra,

che non ravviso più come mio mondo,

o, come mi credevo, mio pensiero

del mondo. La campagna tutto intorno

è solo affastellarsi di officine,

capanne abbandonate, ischeletriti

fantasmi di un’industria più sognata

che reale. Qui vedo le macerie

di un paese che lo pensava tutto

metallurgico il suo futuro: guardo

le fattorie abbandonate, piana

                                               di terra brulla, uno spiazzo deserto

che lasciano i vigneti sradicati,

i frutteti abbattuti: eccolo, guarda,

ecco il paese senza più memorie,

che non ricorda la sua terra viva,

le sue feste di mietitura, il vino

rosso a fiotti su tavole imbandite,

come sagra, che dai contadini

è celebrata per la trebbiatura,

e in autunno i canti di vendemmia,

mentre sopra le teste rossi e bianchi

grossi grappoli d’uva sui capelli

richiamano gli uccelli, e dal ronzio

li senti visitati delle vespe.

Attento che non pungano la faccia!


LA DONNA GIOVANE         Eccolo il Bel Paese, qui davanti,

                                                Hai ragione. Ricordo da bambina.

                                                Era diverso, devastato, certo,

                                                già devastato, ma diverso. Sono

                                                spariti i pesci, qui nel Po, mangiati

                                                da un ospite improvviso, un pescecane

                                                d’acqua dolce che chiamano siluro.

                                                I romeni lo pescano, lo danno

                                               per storione. Ma sì, era diverso.

Eccolo rispecchiarsi in questi vuoti

capannoni di fabbriche dismesse,

montagne di cemento abbandonate,

tettoie arrugginite tra terreni

che ignorano il passaggio dell’aratro,

eccolo rispecchiarsi senza inganni

un paese che lacera sé stesso,

che non ricorda più il suo passato.

Ma che ne avete fatto del futuro?

Che ne avete voi fatto, settantenni,

del futuro che ci si chiude addosso?


LA DONNA VECCHIA         Qui c’erano vigneti, non ricordi?

Lo dico a te che c’eri, e non vedevi

a giugno verdeggiare tra le viti

l’erba medica, colorarsi i campi

di frutteti, di sorbi, di albicocchi,

di peri, e meli, e noci; e granoturco,

e girasoli indorare la vista?

Non li vedevi, di’, non li vedevi?


L’UOMO VECCHIO             Nei canali fluiva un’acqua bruna

e trasparente, in cui ci si bagnava

nudi, e nudi ci si stendeva in mezzo

all’erba, che odorava di trifoglio

e di menta, si udivano le rane

gracidare nei fossi, e sotto i piedi,

nell’acqua del canale, un pescegatto

faceva acrobazie, guizzava lesto

senza paura a destra e a manca. Mai

nessuno si scorgeva che passasse

di là. E se passava, sorrideva,

scendeva e si spogliava e si stendeva

accanto a te nudo anche lui, sull’erba,,

ti guardava ridendo e con un tuffo

poi t’invitava a inseguirlo nell’acqua.


LA DONNA GIOVANE         Un gioco di ragazzi che mi sembra

                                                divertire. Ora l’acqua ti respinge.

L’UOMO VECCHIO             Non era solo un gioco di ragazzi.

E si accende il ricordo, io ci vedo

anche dell’altro: un malizioso gioco

di seduzione. Anzi di giovanile

seduzione. Quel gioco, allora, è vero,

si faceva più scaltro, e aveva insieme

quella lieve, e vaporosa grazia

che tra ragazzi ha il gioco di un amore.


LA DONNA VECCHIA        Non me lo avevi detto mai, canaglia,

                                                che ci venivi a fare questi giochi.

                                                Magari di nascosto hai continuato

                                                a farli anche quando ti sei sposato,

                                                quando sei diventato padre. Forse

                                                perfino con tuo figlio, o glielo hai

                                                insegnato, mostrato, dove, come

                                                si fa. Che schifo! Non me lo hai mai detto.


L’UOMO VECCHIO             Perché, voi donne non lo facevate?

                                                Avevate anche voi sul fiume i vostri

                                                nascondigli, avevate nei canali

                                                i vostri appuntamenti, le segrete

                                                vostre adunanze per segrete intese.


L’UOMO GIOVANE             Ma che male facevano? Io non vedo

                                                niente di male se amavano i giochi.

                                                Chi non li ama? In segreto può darsi

                                                li condanna chi più li ha fatti, oppure

                                                desiderava farli. Sorvoliamo.


LA DONNA VECCHIA         Sorvolare? No, me la paghi, giuro.

                                                E tu, mio smerdocchello, ma che dici?

                                                Se lo approvi, vuol dire che ti piace

                                                anche te, svergognato, divertirti

                                                con questo tipo di giochetti. Porco!


L’UOMO GIOVANE             E a chi non piace? Ma parliamo d’altro.


L’UOMO VECCHIO             Oh! stava qua l’industria, stava in questa

terra di vigne, terra di frutteti,

nei campi di frumento e granoturco,

di girasoli, stava in questa vita

l’ansia, la frenesia di cambiare

la vita, di scrollarsi dalla schiena

i fagotti dei sacchi di frumento,

di spazzare la paglia dalle stalle,

e scaricare le palate piene

di letame sul grande letamaio,

accanto all’aia, sotto gli alti pioppi -

ma dove sono finite le aie,

e dove i pioppi che dai tetti rossi

svettano sulle case e sui frutteti?

Assidue nevi, e più selvaggi venti

li hanno abbattuti del costante soffio

del tempo che appiattisce la memoria.


LA DONNA VECCHIA         Non sospettavo in te la nostalgia

                                               di questa inesistente, immaginaria

                                               Arcadia. Dimmi quando un contadino

                                               è stato mai felice della sua

                                               condizione di contadino. Sogni

                                               di esteta. Quando mai l’hai vista, idiota,

                                               la fatica dei campi, la stanchezza

                                               di un’aratura, e quello sfinimento

                                               incessante, perenne, del lavoro

                                               nelle stalle? Sei solo un sognatore.

L’UOMO VECCHIO            Oh stava qui quel sogno naufragato

di moderno: sottrarre la fatica

al lavoro dei campi, convertirlo

nell’allegro lavoro degli automi,

e compensarlo con altra l’allegria:

di coglierne felici quel compenso

che merita il lavoro del cervello,

senza lo sfinimento delle braccia,

senza quel lento logorio degli anni

che la fatica scava sulla faccia,

e godersi la vista dei covoni,

dei cesti pieni d’uva, delle forme

rotonde di formaggio che un puntello

incide per l’assaggio, e finalmente

sprofondare nell’acqua dei canali

limpidi e bruni, rallegrarsi al tocco

dei pesci, alla frescura che sorprende

la pelle nel contatto, quando il corpo

s’immerge all’improvviso dentro l’acqua,

e sentirsi lavati, liberati

dalla stanchezza uggiosa del lavoro,

annusare nell’intimo l’odore

di letame che arriva dalla terra,

e poi tornati a casa, fiutare

come segugi il tiepido profumo

di latte appena munto, ed ascoltare

la sera, lungo il fiume, il gracidare

costante delle rane, percepire

l’ululato di gufi e di civette,

sorprendere tra siepi il luccichio

delle lucciole, e poi sdraiarsi a terra,

guardare il cielo, e non pensare a niente.


IL GIOVANE                         Che abbiamo fatto, invece? abbiamo quasi

demolito i ricordi, cancellato

una storia: inquinato, fiumi, laghi,

torrenti, prosciugata nei fossati

e nei canali l’acqua, smantellati

gli argini, e siccità, allagamenti

sconvolgono la terra; l’inseguita

modernità ci è scivolata via

dalle mani così come ci sfugge

dalla rete un’anguilla. Sempre fisso

il pensiero dell’oggi, del domani

si rinvia il progetto, perché l’oggi

ci chiama, ma non ci si fida, invece,

del domani, e si cerca quell’istante

che abolisca il futuro, lo preceda,

lo compia in un adesso ed abolisca

il passato. Disposti a rapinare

l’occasione immediata, e a lavorare

d’astuzia, ci spaventa quel domani

che vogliamo attuato nel presente.

Di parole colmiamo soddisfatti

sempre la bocca, ma di azioni, fatti,

mai riempiamo le mani. Andiamo bene,

ci diciamo, lo ripetiamo ad ogni

piè sospinto. Per questo poi restiamo

fermi. No, non va bene, non va bene

per niente. Quel domani cancellato

eccolo qui: ci guarda con spavento,

è quest’oggi che abbiamo inaridito.


LA VECCHIA                      Ma non è vero, protesta qualcuno.

E’ un male immaginario. Vi sbagliate.

Anzi, tutto andrà bene. E così sia.

Non dite questo, non lo proclamate

a destra e a manca, tutti quanti siete,

voi giovani? Che avete fatto, voi,

per cambiare le cose, per fermare

il disastro? Be’, te lo dico: niente!


IL GIOVANE                         E dovevamo noi cambiarlo, il mondo?

                                                Noi riparare il disastro che voi,

                                                solo voi, con ostinazione avete

                                                pezzo per pezzo fatto così bene

                                                fino a quest’oggi cupo e desolato?


IL VECCHIO                        No, non è tempo, non è tempo, questo,

per l’elegia. Ma i versi, non so come,

non so se maledetti o benedetti,

sembrano reclamarla. Oh questi versi!

Se ne scrivono ancora. E, come sempre,

sanguina il cuore! Corre dai nostri occhi,

sotto forma di stille, una poltiglia

che ingombra il bulbo e preme dentro l’occhio

le palpebre più spessa di una pasta,

si raggruma e di lacrime un intralcio

ottenebra la vista del presente.

Ma guardate che cosa abbiamo fatto

di questo nostro fragile paese!


LA VECCHIA                        Ha parlato il poeta! Mi portasse

                                                a casa qualche soldo la poesia.

                                                Maiale e sognatore. Questo sei.

                                               Fandonie e porcherie sono materia

                                               della tua vita e della tua poesia.

                                               Ma gli dai pure ragione a codesto

                                               sbarbatello?


IL GIOVANE                                                  Lo sbarbatello forse

                                                ha veduto più cose, fino adesso,

                                                di quante ne figura la sua mente

                                                di vecchia incattivita.


LA VECCHIA                                                               Taci, taci,

                                               non parlarmi di cose, non parlarmi

                                               di vita. Che ne sai, tu, smerdocchello,

                                               della vita? Ma vivila, sprecata,

                                               sprecata l’hai, la vita, fino adesso.

                                               Ti mantiene tua madre. Ma sta’ zitto!

IL VECCHIO                         Non vedo tutto intorno che macerie,

del passato non scorgo che le scorie,

gli scarti che ostruiscono la vista

del ricordo, materia di seconda

mano, che la scomparsa silenziosa

ci presenta di ciò che avvenne. E sia.

Ma l’informe del tempo non assume

una forma per questo suo sparire.

L’accaduto, succede che ti sfugge

dalle mani, lo senti come un nulla

che ti grava sul cuore, che ti pesa

come un granito sul cervello. Toglie

voce, toglie respiro, toglie il canto.


IL GIOVANE                         Ci vorrebbe, chi sa, una poesia

senza canto, parole scaricate

dalla bocca per caso, senza fuoco,

a dire le parole di quest’oggi

senza parole, a raccontare questo

tempo senza passato, questo tempo

senza domani.


IL VECCHIO                                                   Come posso, dunque,

ancora figurarmi un’elegia

e anche figurarmela attuale?


LA GIOVANE                         Ma perché pensa che abbia bisogno

                                                il mondo di elegia? Ce n’è perfino

                                                troppa. Ce n’è perfino negli annunci

                                                pubblicitari. La smetta con questa

                                                lagna dell’elegia che non è tempo

                                                di scriverla, cantarla. Ma da quanto

                                                si dice e si ripete che per sempre

                                                è morta la poesia? I morti siete

                                                voi. Voi che non sapete più ridirla.


IL VECCHIO                         Non è più tempo di elegia. Ci resta,

anche dell’elegia, solo il ricordo,

in questo tempo che non ha ricordi,

ma nemmeno speranze, ch’è la forma

del ricordo se guarda nel futuro.

Povero Eliot! Non c’è più nemmeno

quel tuo presente che contiene

il passato e il futuro in uno stesso

tempo. C’è solo la desolazione

di un tempo che non è più tempo, un tempo

che ha ingoiato il tempo. Come posso,

dunque, cantare ancora un’elegia,

che altro non è se non la voce stessa

del tempo che ritorna, che s’insedia

nel presente, lo colma fino all’orlo

di tutto il suo passato, e lo prepara,

scardinate per sempre le parole

che dicono il passato, a pronunciare

le parole che dicono il futuro?


IL GIOVANE                         Non ho la voce giusta. O non è questo

il tempo giusto. No, non è più tempo

per l’elegia. Ma, forse, non è tempo,

ormai, per nessun canto. Fuori moda.

Il nostro tempo è un tempo che non canta.

Un tempo di parole senza ritmo.

E dunque un tempo che non ha parole.

Ma sì, lei ha ragione. Questa strana

sintonia tra le sue e mie parole

sembra la sintonia inosservata

dai più del mondo ch’è scomparso e quello

che non appare. Tutti e due diciamo

quasi la stessa cosa. Lamentiamo

un mondo che non c’è, ma che vorremmo

vedere vivo e nuovo intorno a noi.


IL VECCHIO                        Taci, per sempre, voglia di elegia.

Sei venuta in un tempo che t’ignora,

non ha bisogno di te, non ti vuole.

Appenderò la partitura al ramo

di una quercia. Bambino a questa quercia

altissima, davanti la mia casa,

gli uccelli che cantavano credevo

che fossero divini. Io gli parlavo.

Chi sa che un dio – sbirciando lo spartito -

non se ne appropri, e ricantando nota

per nota il canto, ne diffonda il suono,

e questo tempo che non sa cantare

ricanti insieme al dio quei vecchi canti,

e il tempo tornerà di nuovo tempo

di parole, di nuovo ancora tempo.


LA VECCHIA                        Chi sa! Nei labirinti del ricordo

il tempo non è tempo, ma miscuglio

di spezzoni del tempo. Sovrapposte

figure riavvicinano lontane

separazioni, e gioie immaginate

perenni le si sente svaporare

all’improvviso come schizzi d’acqua

su lamine roventi. Ma rovente,

sembra, è soltanto l’affollarsi fitto

dei desideri inattuati oppure

solo per un istante attinti e presto,

più che rimpianto, immedicata voglia

di una ripetizione inutilmente

eppure furiosamente attesa,

defraudati alla fine dello stesso

desiderarla. Perdere chi si ama

devasta più che non essere amati.

Quando è avvenuto, amico, che dai nostri

pensieri uno di noi s’è allontanato?


IL VECCHIO                         La fatica non è che sulle spalle

gravano gli anni, il peso dei ricordi,

ma misurarli, quando del segmento

di tempo che ti tocca, la Ragione

prevede presto che verrà la fine,

il Sentimento si smarrisce, cede

all’improvviso scollamento, al buco

tra cuore e cosa, vede quanto fioca

illumini la luce del pensiero

anche la poca quantità di vero

che supponevi inossidata, in mezzo

alle incertezze mai più scardinate

dei tuoi scarsi contatti con il mondo.


LA VECCHIA Ragione, sentimento, che diffusa

sensazione di controllare questa

nostra sopravvivenza! e tocca invece

la tua pelle l’insidia di un nemico

inavvertito della vita, anch’esso,

però parte ma che vorresti fuori,

della vita, invisibile da dentro

ti penetra le vene di quel falso

paradiso che ingenuo tu chiamavi

Natura: oh niente è naturale, tranne

la tua disperazione. Sentimento,

ragione, le tue maschere di fuga,

il buco in cui nascondere la tua

questa sì senza scampo inossidata,

immutabile inadeguatezza.


LA GIOVANE                       Ragione e sentimento li racchiudi

in un gioco che trucca le tue carte,

ma poi li espelli con un solo fiato

di paura – la vita, che ti giochi

come se fosse tua e con quel fiato

potessi pronunciarla – ma qualcuno

la chiama poesia. Tu sai che invece

nemmeno la poesia può addolcire

il mondo, il mondo si avvelena, e crepa,

anche senza la tua poesia. Noi siamo

- dice qualcuno – della stessa pasta

dei sogni, ma chi dice che anche un sogno,

volatile com’è, non possa dentro

racchiudere un inferno? Vedi, dunque,

se ancora ti è possibile cantare

un’elegia. Chi sa, più che i ricordi,

a scomparire sembrano le cose.


IL VECCHIO                        Casali, fattorie, nella pianura

e lungo il Po, fin dentro l’acqua, rive

di terriccio sassoso, o bianche spiagge

che mutano dimora col mutare

delle correnti, travolgono muri

di mulini, steccati di giardini,

vecchi ponti di barche, folti boschi

di pioppi, il pianto languido sull’acqua

di sospiranti salici, caduta

lieve di foglie come un lungo addio

che il fiume si trascina via lontano.

Adoravo nuotare sotto i rami,

abbandonarmi nudo alla carezza

di quei rami cadenti. Era, può darsi,

come un bacio segreto delle piante,

forse l’impercepibile venuta

di una ninfa, e la mia estenuata

ansia di unione si placava in una

sorta di nuova, di avvolgente, acuta

trafittura, in una eiaculazione.


LA VECCHIA                        La trafittura, oggi, è la scomparsa

dei salici. Ma fossero scomparsi

solo dal campo antico di quegli anni

sulle rive dei fiumi e dei torrenti

i salici piangenti che un sorriso

destavano nel cuore: senz’avviso,

inaspettatamente, crudelmente

il vortice del tempo ingoia e annienta

gl’inabitati sguardi, le perdute

carezze dell’amato e lascia, dove

ci si ricorda un bacio, nello stesso

punto, l’inappagato desiderio.


IL GIOVANE                         L’inappagarsi della vita sembra,

se proprio se ne cerca un senso, tutto

il senso della vita. E in quest’assenza,

l’impulso, dall’interno della vita,

o può darsi la giustificazione

mossa dal sangue stesso nelle vene,

che genera, che quasi ci costringe,

e ci autorizza l’elegia. Ma quale

consolazione avremo noi dal canto

che ci mostra le perdite, i delitti,

le disfatte del fiato che pronuncia

un amore, o che implora un aiuto?


IL VECCHIO                         Appendo al gancio la mia lira. Solo

se mi appaga il silenzio. E nel silenzio

vorrei che risuonasse l’elegia.

Ma quanto siamo venuti dicendo

fino a questo momento, amica troppo

forse da me sottratta ai miei pensieri -

ma includerti come potevo, amica,

se non c’eri? - di’, quanto abbiamo detto

finora, non è forse un’elegia?


IL GIOVANE                         Come ti sento a me fratello, vecchio!

                                               Le inesaurite, inesaudite stille

se avrò contate della sofferenza

che spegne il fiato, ripigliarmi come

saprò dei giorni estinti la perduta

mia voce? come della consumata

gioia la ormai fuggita tenerezza

potrò senza rimpianto ricordare?

Ecco che mi rispunta dalla pelle

questo pianto che cerca le parole.

Come se le parole una segreta

consolazione dessero al dolore.

Che invece resta, e morde più vorace

il cuore. La poesia non consola:

guarda, ragguaglia, esamina, racconta.

E a un mondo senza senso dona il senso

di figurarne il torbido groviglio.

La distanza degli anni non confonde

la memoria. Anche di un solo momento,

di una sola perduta voce, un solo

contatto che non si è trattenuto, scava

deserto di millenni dentro il cuore.


LA VECCHIA                        Visitarlo, conoscerlo vorrei,

senza pentirmi, un mondo confortato,

ma non ho che disordinati spazi

dentro cui soffre ogni vivente forma.

L’elegia, oggi, non è più rimpianto,

non ha maschera che nasconda il volto,

né morso in bocca che freni la lingua,

l’orrore è denudato, la miseria

denunciata. Bellezza, se si cerca,

è questa libertà che osserva e parla.


LA GIOVANE                        Il nostro è il tempo non più del lamento,

di un’elegia che pianga. Il nostro è tempo

dello sguardo che sveste, della bocca

che dice l’indicibile, dà nome

al male che si vede, ma nessuno,

o per paura, o perché ne fa parte,

ha voglia di additare. Il nostro è tempo

del solitario che denuncia, tempo

del pazzo che osa dire ciò che dire

sembra proibito, inopportuno, cosa

che fa vergogna o, peggio, compromette.


IL GIOVANE Il nostro è il tempo di chi è contro, il tempo

di chi rifiuta. Tempo di tiranni -

uno o molti che siano – richiede

voce di libertà, di opposizione,

l’elegia del futuro è questo canto

che non piange, che guarda, alza la voce,

e invece di nasconderle, le crepe

della vita le mostra, le risana,

se può una poesia risanare

il male che da secoli, millenni,

offusca, tramortisce, uccide il mondo.

Quest’elegia che non è elegia,

oggi dobbiamo a chi vive: lamento

forse, ma che non muore finché il sole

risplenderà sulle miserie umane.


Brescello, 26 agosto – Fiano Romano, 12 settembre 2020


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