venerdì 30 agosto 2024

Una sciarada oracolare

 

Una sciarada oracolare


Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus1.


Principio della filosofia scolastica, da Aristotele, integrata da Leibniz, al quale si deve l'aggiunta "nisi ipse intellectus".


Ad Alessandro Liburdi


Amico mio, com'è lontano il senso

delle cose, se un senso hanno le cose

quando noi le guardiamo che non sia

l'intento di guardarle. Mi dichiari,

con elegante e liquido disegno

di un bozzetto marino, un battibecco

sulla spiaggia di voci che beffarde

si scambiano le sillabe straziate,

equivocate, di sciarade intente

a masticare mastici di nomi

figurati, di un Dino, un Alessandro

che chiedono responsi conclusivi

a boschivi elfi2 di Britannia, a numi

che sorseggiano l'acqua tumultuosa

dell'Indo3, e interrogata la trimurti4

si rintanano a casa con le mani

vuote e le orecchie chiuse e sigillate

dal silenzio del mondo, più loquace

di una folla sbraitante nei mercati.

La tua sciarada, che mi schiude il nulla,

il nostro nulla di esiliati, almeno

di scacciati dal mondo dei vincenti,

non sai quanto, potrei considerarla

oracolo di Dioniso, o di Sciva5,

un Om6 che muove la perenne ruota

dei desideri: delle cose, penso,

non ha ragione di preoccuparsi,

perché le cose stanno là, fissate

fuori di noi, e noi non conosciamo

nemmeno se ci stanno per davvero,

o se ce le fingiamo. Figurarsi

se possiamo sapere di che cosa

sono fatte. E con questa mia sapienza

d'insipente, di un homo sapiens presto

dagli elfi trasformato in transeunte

bestia insipiens, chiedo venia al senno

del tuo parlarmi, al senso che indovini

nei miei versi, mi prostro al tuo cantarmi,

e anch'io ti canto una canzone nuova,

che si veste di versi regolari,

di pochi endecasillabi studiati.

La regolarità del metro, amico,

dirà la mia costanza di compagno

letterario, e non c'è maggior guadagno,

in un mondo che sperpera le cose,

di questo nostro duraturo sforzo

di mantenere, tra di noi, lo stile

di un'amicizia che rispetta il cuore

ma non trascura il più segreto stigma

che al cuore unisce la comune nostra

virtù di benedire la scrittura.


Fiano Romano, 30 agosto 2024

1Niente c'è nell'intelletto che prima non fosse nei sensi, tranne lo stesso intelletto.

2Alfredo, il mio nome, di cui Dino è il diminutivo, etimologicamente significa "consigliato dagli elfi".

3Alessandro Magno toccò le rive dell'Indo.

4I tre dei dell'Olimpo indù: Brahma, Visnù e Sciva.

5Sciva e Dioniso sono probabilmente lo stesso dio. Creatori e insieme distruttori della vita.

6La sillaba dal cui suono, pronunciandola, Brahma crea il mondo, o piuttosto le apparenze che chiamiamo mondo.



Alessandro Liburdi


Corrono strade per l’erba e lumiere

appaiono qua e là, paludi e piante:

aride cose spente, o vive e fiere.


A che son esse fatte? A che di tante

non una all’altra eguale? E il riso dopo

le lacrime, e il pallore del sembiante?


A che ci giova il tutto, e questo giuoco

eterno, noi pur grandi e sempre a tondo

erranti, e soli sempre e senza scopo?


E tante cose simili nel mondo?…

Eppur chi dice “sera” una parola

dice onde un senso doloroso e fondo,


come da favo un grave miele, cola.


Hugo Von Hofmannsthal, Ballata della vita eterna


Per Dino


Altre sciarade (ed è già settembre)


Amico mio, ai piedi del Soratte millenario,

riguarda un attimo quella dedica in alto:

non l’eterno, irraggiungibile Loris1

insomma... asburgico,

ma quel Per Dino...

ma sai che, a ripeterlo forte,

quel complemento di fine

(che poi è anche un moto per luogo

attraverso il non luogo della virtualità che ci unisce

e di questa distanza geografica che ci separa)

dico, lo sai che se lo ripeto

pare quasi una bestemmia,

o un’interiezione colorita?...

Anche quello, uno smontaggio di parole,

gioco enigmistico da ombrellone

da spiaggia ritirato in secca

ora che finalmente il caldo che assorda

abbacinante delle città afose

delle campagne riarse

lascia spazio alle elegie di settembre.

E tornando al dio che pure appare

da qualche parte in quel tuo nome d’elfo

ci sono dei, quegli dei che nomini

che certo non temono qualche blasfemia:

lì da qualche parte, a Oriente,

lì dove non andrò mai dal vivo,

accontentandomi spietatamente

della forza di certi sogni aperti come gli occhi

spennellando la ringhiera, grattando

la terra del mio orto, leggendo qualche libro nuovo:

sognando quel tempo, mai stato forse, ma passato,

che i poeti vivevano tranquilli,

magari al giogo di qualche signore, ma bastanti

a sé stessi e verso la gloria eterna.

E invece ora, tu lo sai, io lo so,

che ci tocca vivere: lo spettacolo indecente

della pornocrazia, la ferocia delle lingue

prima ancora delle guerre, e

da qualche parte, forse, il sogno di una pace.

Di certo siamo condannati,

come modesti urobori da cortile,

a dire e ridirci la nostra ignoranza circolare

in mezzo a gente che si illude di saper tutto,

quelli sì esecrabili condannati

a un’insipienza leggera e martellante,

vita da becchime, superficiale:

loro e gli accapo di chi non ci capisce niente

e vive, sopra-vive solamente;

a noi altro, ci ha dato in fortuna la sorte:

confidarci per fortuna amici,

urlare la nostra umiltà a parole,

sublimare coi versi il nostro, l'universale, dolore.


1 Le sue prime prove, Hofmannsthal, le presentò con quello pseudonimo, un nome che richiama Laurento, la città dell’alloro: la città dei poeti,


Ceccano, 2 settembre 2024 

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