Al rientro da Strasburgo, Colmar, Stoccarda e Tubinga, l’immagine
e la voce del poeta Hölderlin mi echeggia perenne nella mente. Così mi sono
nati questi versi. Il filosofo è Hegel, il pazzo di Torino Nietzsche.
Scardanelli è l’eteronimo “inventato” da Hölderlin durante i decenni di
prigionia, nella notte del suo delirio, indietreggiando, illuso, nel secolo dei
lumi, come in un paradiso perduto. Poesie datate 1757. L’innominato scienziato
dei “buchi neri” è naturalmente Hawking. Il resto sono allusioni al pensiero di
Hölderlin, Hegel, Empedocle (Hölderlin scrisse un dramma, incompiuto, sulla
morte del filosofo, che si suppone si gettasse nel cratere dell’Etna), Eraclito,
la cui teorie dell’eterno divenire delle cose fu stimolo sia per Hölderlin, che
per Hegel. Non sono estranee, a questi versi, le recenti riflessioni sul tempo
della fisica quantistica e della neurobiologia.
LA TORRE
Pensieri
sento forse tra queste acque
di
Tubinga fluire: scorre il fiume
trascinandomi
via lontano, e l’acqua
sembra
assorbire secoli di angoscia,
illuminarsi
per ogni riflesso
che
il remo schizza in aria scintillando
sotto
l’ombra dei faggi che nell’acqua
s’annegano,
e non lasciano nuotare
che
le foglie, intralciate dai castori,
che
sguazzando, ci frugano col muso,
e
divertiti, con attento sguardo,
ci
vedono passare, mentre sotto
s’interrompono
i guizzi delle trote.
Ma
in alto, più severa che solenne,
e
silenziosa, minacciosa incombe
la
mole del Collegio, e sulla riva,
chiara
e snella si posa, misteriosa,
la
torre dove fu, fuori del mondo,
e
fuori di se stesso, imprigionato
un
poeta. La storia non è suolo
per
la nostra felicità, ci dice
un
filosofo amico del poeta,
ma
è scritta nelle sue pagine vuote.
Che
cerchi, dunque, tu, poeta che una
morte
già proclamasti degli dei,
ma
che il respiro riscoprire invano
t’illudi
originario di quell’erma
ignuda,
che Natura solo invoca
questa
nostra demenza di supposti
esiliati?
da quale paradiso,
poeta,
e quale lingua ha nominato
questo
esilio? Non c’è che un buco nero,
lo
spazio delle nostre imperiture
illusioni,
disinnescata, come
nel
tuo cervello, la miccia del nulla.
Se
nulla fosse l’esile percorso
da
una nicchia che si apre al mondo, all’altra
che
chiudendosi ce n’espelle. Il buco,
dicono
adesso, lascia le sue prede.
Ma
per chi? Torno al buio della mente
che
spenta più non si riaccende. Voce
di
chi sa quale afasico poeta,
fantasma
di se stesso, intemerato,
forse
solo supposto, Scardanelli.
L’autunno
è qui, per il passaggio estremo
d’innominati
inverni, forse solo
l’ultimo,
prima dell’impronunciato
commiato.
Ma da che? Da questo estivo
prefigurato
inverno che separa
le
nostre mani? Fosse pure il ciclo
di
vite irreversibili a legare
questa
mia alla tua mai contattata
musica,
che da fogli senza storia
mi
segnalano un punto di contatto,
oh,
la tua voce, dimmi, la tua voce
che
non mi fu concesso di ascoltare,
tranne
che per alcuni scarabocchi,
può
trapanare il muro di quel buco?
Io
so che capiresti la mia lingua,
come,
senz’ascoltarne il suono, posso
impossessarmi
della tua. Finisce
senza
lamenti il mio e tuo lamento.
Nemmeno
un grido – ma, se non il mio,
da
quale cielo, da quale celeste
schiera
di messaggeri? - angeli dice,
direbbe
la tua lingua, e ti fa eco,
angeli,
anche la mia – nemmeno un grido,
se
grido mi risponde. E dunque il buco
esiste,
e non è vero che la voce
catturata,
precipitando dentro
quel
nulla, possa uscirne. O a non sentirla
sono
io soltanto. Guardo la tua torre.
Tutto
intorno è silenzio. Ci entro, come
si
entra nella propria tomba. Leggo,
sui
muri, ingigantiti, i versi scritti
dentro
la tua prigione. E leggo, sotto
il
vetro di bacheche protettive,
le
inascoltate voci di una lingua
tuttora
indecifrabile. Ma mi dici –
non
so come, ma sento che mi parli –
mi
dici: la poesia non si traduce,
non
abbiamo il vocabolario adatto,
e
resta indecifrabile per questo.
Dal
campanile dello Stift, guardando
sotto,
mi si disegna, tutto intorno,
la
città. M’è matita l’occhio. Il fiume
fluisce
lento, fino all’orizzonte,
tra
foreste e colline. Il divenire,
qui,
si fa acqua, si fa bosco, case,
colline.
Ma non c’è nessun ritorno,
checché
ne pensi e n’abbia scritto il pazzo
di
Torino: risposta non gli venne
nemmeno
dal cavallo che abbracciava.
Resta
quel grido, e resta la visione
di
un’isola. Il suo nome, impronunciato.
Almeno
prima dell’Apocalisse.
Frygt og Bæven, Johannes de
Silentio,
nel
segreto, lo scava, lo sprofonda
nel
buco che l’inghiotte. La caverna
si
anima di figure che crediamo
reali,
e da un barlume immaginario
ci
acceca l’illusione di parvenze
che
spariscono. Dimmi, allora, amico –
oh!
ma se del dolore umano amico
non
è il poeta, dove cercheremo,
in
chi, l’amico che conosca il nodo
delle
parole, ne sciolga, per noi,
il
groppo insopportabile di vano
sforzo
che non scalfisce il labirinto
d’insensatezza
dentro cui vaghiamo –
dimmi,
poeta, se hanno significato
le
parole, e se sì, quali dovremo
non
per entrare, ma per attraversare
le
sbarre che ci sprangano, adoperare,
e
respirare finalmente l’aria
dell’esistente,
ciò che non sparisce:
perché
non è il non essere ch’è male,
ma
l’essere che a un certo punto cessa
e
sprofonda nel nulla. Lo conosci,
questo
sparire? A volte, più tremendo,
si
annuncia nel cervello, prima ancora
che
con un colpo solo abbatta il corpo
e
ciò che un’ironia maldestra chiama
soffio
vitale, l’anima. Sai dirlo,
per
animare che cosa? Non vedo
quali
confini infranga, se li infrange.
Il
sacrificio solo in apparenza
fu
interrotto, e la mano trattenuta,
sul
punto di vibrare il colpo estremo,
l’unico,
a dire il vero. Non prevista,
l’interruzione.
Eppure la parola
che
lo racconta, il colpo, lo interruppe.
O,
non ancora voce, il Messaggero
trascorse
in volo uno spazio taciuto?
L’angelo
quella volta, senz’aprire
bocca,
sembra, rispose. La scomparsa,
se
di vittima o nome, un dio nascosto,
la
incise sull’altare vuoto: Patmos.
E
come per Ifigenia, la voce
che
sottrasse la vittima, fu detta
solo
per quella volta. Per riudirla,
adesso,
per sentirne la sostanza,
e
comprenderne finalmente il senso,
dobbiamo
rifondarne la pronuncia.
Appena
pronunciata, la parola
sparisce.
La memoria di una lingua
naufraga
nell’oblio, e in quell’abisso
d’inesistenza
polverizza i sensi,
neutralizza
l’idea stessa di lingua.
Che
mi dici, poeta? Dietro sbarre
di
silenzio, non era il non parlarne,
la
tua inesistenza. L’ostinarti
proprio
a parlarne, invece, ti salvava.
Il
linguaggio dobbiamo ricrearlo
ogni
volta da capo. Indecifrato,
e
sempre indecifrabile il messaggio.
Fiano
Romano, 27-28 agosto 2015
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