giovedì 27 agosto 2015

Tubinga, la torre di Hölderlin



Al rientro da Strasburgo, Colmar, Stoccarda e Tubinga, l’immagine e la voce del poeta Hölderlin mi echeggia perenne nella mente. Così mi sono nati questi versi. Il filosofo è Hegel, il pazzo di Torino Nietzsche. Scardanelli è l’eteronimo “inventato” da Hölderlin durante i decenni di prigionia, nella notte del suo delirio, indietreggiando, illuso, nel secolo dei lumi, come in un paradiso perduto. Poesie datate 1757. L’innominato scienziato dei “buchi neri” è naturalmente Hawking. Il resto sono allusioni al pensiero di Hölderlin, Hegel, Empedocle (Hölderlin scrisse un dramma, incompiuto, sulla morte del filosofo, che si suppone si gettasse nel cratere dell’Etna), Eraclito, la cui teorie dell’eterno divenire delle cose fu stimolo sia per Hölderlin, che per Hegel. Non sono estranee, a questi versi, le recenti riflessioni sul tempo della fisica quantistica e della neurobiologia.

                                         LA TORRE


Pensieri sento forse tra queste acque
di Tubinga fluire: scorre il fiume
trascinandomi via lontano, e l’acqua
sembra assorbire secoli di angoscia,
illuminarsi per ogni riflesso
che il remo schizza in aria scintillando
sotto l’ombra dei faggi che nell’acqua
s’annegano, e non lasciano nuotare
che le foglie, intralciate dai castori,
che sguazzando, ci frugano col muso,
e divertiti, con attento sguardo,
ci vedono passare, mentre sotto
s’interrompono i guizzi delle trote.
Ma in alto, più severa che solenne,
e silenziosa, minacciosa incombe
la mole del Collegio, e sulla riva,
chiara e snella si posa, misteriosa,
la torre dove fu, fuori del mondo,
e fuori di se stesso, imprigionato
un poeta. La storia non è suolo
per la nostra felicità, ci dice
un filosofo amico del poeta,
ma è scritta nelle sue pagine vuote.
Che cerchi, dunque, tu, poeta che una
morte già proclamasti degli dei,
ma che il respiro riscoprire invano
t’illudi originario di quell’erma
ignuda, che Natura solo invoca
questa nostra demenza di supposti
esiliati? da quale paradiso,
poeta, e quale lingua ha nominato
questo esilio? Non c’è che un buco nero,
lo spazio delle nostre imperiture
illusioni, disinnescata, come
nel tuo cervello, la miccia del nulla.

Se nulla fosse l’esile percorso
da una nicchia che si apre al mondo, all’altra
che chiudendosi ce n’espelle. Il buco,
dicono adesso, lascia le sue prede.
Ma per chi? Torno al buio della mente
che spenta più non si riaccende. Voce
di chi sa quale afasico poeta,
fantasma di se stesso, intemerato,
forse solo supposto, Scardanelli.
L’autunno è qui, per il passaggio estremo
d’innominati inverni, forse solo
l’ultimo, prima dell’impronunciato
commiato. Ma da che? Da questo estivo
prefigurato inverno che separa
le nostre mani? Fosse pure il ciclo
di vite irreversibili a legare
questa mia alla tua mai contattata
musica, che da fogli senza storia
mi segnalano un punto di contatto,
oh, la tua voce, dimmi, la tua voce
che non mi fu concesso di ascoltare,
tranne che per alcuni scarabocchi,
può trapanare il muro di quel buco?
Io so che capiresti la mia lingua,
come, senz’ascoltarne il suono, posso
impossessarmi della tua. Finisce
senza lamenti il mio e tuo lamento.
Nemmeno un grido – ma, se non il mio,
da quale cielo, da quale celeste
schiera di messaggeri? - angeli dice,
direbbe la tua lingua, e ti fa eco,
angeli, anche la mia – nemmeno un grido,
se grido mi risponde. E dunque il buco
esiste, e non è vero che la voce
catturata, precipitando dentro
quel nulla, possa uscirne. O a non sentirla
sono io soltanto. Guardo la tua torre.
Tutto intorno è silenzio. Ci entro, come
si entra nella propria tomba. Leggo,
sui muri, ingigantiti, i versi scritti
dentro la tua prigione. E leggo, sotto
il vetro di bacheche protettive,
le inascoltate voci di una lingua
tuttora indecifrabile. Ma mi dici –
non so come, ma sento che mi parli –
mi dici: la poesia non si traduce,
non abbiamo il vocabolario adatto,
e resta indecifrabile per questo.

Dal campanile dello Stift, guardando
sotto, mi si disegna, tutto intorno,
la città. M’è matita l’occhio. Il fiume
fluisce lento, fino all’orizzonte,
tra foreste e colline. Il divenire,
qui, si fa acqua, si fa bosco, case,
colline. Ma non c’è nessun ritorno,
checché ne pensi e n’abbia scritto il pazzo
di Torino: risposta non gli venne
nemmeno dal cavallo che abbracciava.
Resta quel grido, e resta la visione
di un’isola. Il suo nome, impronunciato.
Almeno prima dell’Apocalisse.
Frygt og Bæven, Johannes de Silentio,
nel segreto, lo scava, lo sprofonda
nel buco che l’inghiotte. La caverna
si anima di figure che crediamo
reali, e da un barlume immaginario
ci acceca l’illusione di parvenze
che spariscono. Dimmi, allora, amico –
oh! ma se del dolore umano amico
non è il poeta, dove cercheremo,
in chi, l’amico che conosca il nodo
delle parole, ne sciolga, per noi,
il groppo insopportabile di vano
sforzo che non scalfisce il labirinto
d’insensatezza dentro cui vaghiamo –
dimmi, poeta, se hanno significato
le parole, e se sì, quali dovremo
non per entrare, ma per attraversare
le sbarre che ci sprangano, adoperare,
e respirare finalmente l’aria
dell’esistente, ciò che non sparisce:
perché non è il non essere ch’è male,
ma l’essere che a un certo punto cessa
e sprofonda nel nulla. Lo conosci,
questo sparire? A volte, più tremendo,
si annuncia nel cervello, prima ancora
che con un colpo solo abbatta il corpo
e ciò che un’ironia maldestra chiama
soffio vitale, l’anima. Sai dirlo,
per animare che cosa? Non vedo
quali confini infranga, se li infrange.
Il sacrificio solo in apparenza
fu interrotto, e la mano trattenuta,
sul punto di vibrare il colpo estremo,
l’unico, a dire il vero. Non prevista,
l’interruzione. Eppure la parola
che lo racconta, il colpo, lo interruppe.
O, non ancora voce, il Messaggero
trascorse in volo uno spazio taciuto?
L’angelo quella volta, senz’aprire
bocca, sembra, rispose. La scomparsa,
se di vittima o nome, un dio nascosto,
la incise sull’altare vuoto: Patmos.
E come per Ifigenia, la voce
che sottrasse la vittima, fu detta
solo per quella volta. Per riudirla,
adesso, per sentirne la sostanza,
e comprenderne finalmente il senso,
dobbiamo rifondarne la pronuncia.
Appena pronunciata, la parola
sparisce. La memoria di una lingua
naufraga nell’oblio, e in quell’abisso
d’inesistenza polverizza i sensi,
neutralizza l’idea stessa di lingua.
Che mi dici, poeta? Dietro sbarre
di silenzio, non era il non parlarne,
la tua inesistenza. L’ostinarti
proprio a parlarne, invece, ti salvava.
Il linguaggio dobbiamo ricrearlo
ogni volta da capo. Indecifrato,
e sempre indecifrabile il messaggio.

Fiano Romano, 27-28 agosto 2015
                                  

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