sabato 18 giugno 2016

Il canto nella musica di Brahms: Intermezzi critici.



 Queste riflessioni ne hanno prodotte altre, che aggiungo in coda. Potrei chiamarle Divagazioni brahmsiane. Oppure: Intermezzi.

Breve riflessione su un aspetto della musica di Brahms che può trarre in inganno sia l’interprete sia l’ascoltatore. Brahms è attratto, come pochi altri musicisti del secondo Ottocento, dal canto a gola spiegata, soprattutto se di origine popolare, o in ogni caso simile al canto popolare (Mahler ne farà tesoro). Ma se ne vergogna, o piuttosto sa che non è più possibile intonarlo con la spontaneità e freschezza di uno Schubert. Inoltre Brahms è tedesco, tedesco del Nord, come Schumann, nemmeno di Monaco, e non è austriaco, tanto meno viennese. Ma proprio per questo ama Vienna come nessuna altra città: perché gli offre quel canto che è il suo sogno, la sua utopia, ma che ritiene irrealizzabile. Vienna è anche Johann Strauss, padre e figlio. Oltre che Schubert. Ed è la porta dell’Ungheria. Nella brumosa Amburgo il canto popolare aveva, per lui, l’accento delle canzoni di taverne sul porto o di postriboli, dove il padre, ancora bambino, e poi ragazzo, lo portava a suonare, sfruttando la sua incredibile abilità d’improvvisatore. Ma i suoi modelli musicali sono alti: Beethoven e Schumann, tra i tedeschi, e Chopin. Anche Liszt, per la tecnica pianistica. Sono come una diga alla tracimazione di un canto inadeguato, di una confessione impudica. Ecco, tutto questo ritorna nella sua musica come ricordo, utopia, nostalgia. E quando è spudorato, esplicito, ritorna come contraffazione: le danze ungheresi, i canti gitani (Zigeuner Lieder), dove può gridare “ich liebe dich” (io ti amo), con un motivetto che sarà ripreso da Mahler nel Canto della terra. Io li possiedo registrati alla Carnegie Hall da Christa Ludwig e Leonard Bernstein al pianoforte: sublimi! Nonostante questa ritrosia, il canto a gola spiegata fa irruzione anche nelle opere più severe: il secondo tema del secondo concerto, il secondo del concerto per violino, quasi un tango, l’attacco del quintetto con clarinetto, e tanti altri luoghi. Proprio la tensione tra la spinta all’afflato effusivo e il controllo del pudore, quasi un segreto timore di scoprire troppo le carte, più che dell’intelligenza critica, costituisce il fascino del melodizzare brahmsiano, d’una densità espressiva che fa paura. Aveva ragione Schoenberg: è la via che porta al prosciugamento (rimozione?) definitivo della melodia. E Schoenberg lo sa bene: lo rende perfino evidente nel percorso dei Gurre Lieder. Su quella riva si arriva quasi all’afasia di un Webern. Che non è vera afasia, ma l’estrema concentrazione, anzi contrazione di una melodia nel respiro istantaneo di un solo suono. Di Brahms si leggano al pianoforte, se si è capaci, o si ascoltino, gli ultimi pezzi per pianoforte, l’op. 116, 117, 118, ma soprattutto 119. Se volessimo assegnare un nome a questo atteggiamento di Brahms, dovremmo dire che è la consapevolezza della fine, ma il rifiuto di accettarla. Ed è per questo che lo sentiamo così vicino a noi, così contemporaneo: alla lettera, uno del nostro stesso tempo.

Fiano Romano, 18 giugno 2016


Stravinsky doveva avere in mente qualcosa di simile quando compose il Concerto di Basilea. E nella poesia antica è l'atteggiamento di Callimaco e di Orazio. Il moderno è sempre l'esperienza di una perdita. Ci pensino tutti coloro che s'illudono di ricuperare tale e quale un passato concluso. Il passato lo si può rievocare, ritrasformarlo, ma mai riprodurlo, anche nella vita.

La Quarta Sinfonia è disperazione pura, estratto di disperazione. E' il culmine di un percorso che Brahms comincia con il Requiem tedesco. “Selige sind die Toten”, beati sono i morti. Brahms era ancora giovane, aveva 35 anni. Ma la morte della madre divide in due la sua vita. La perdita lo Invecchia subito, Brahms abbandona il proprio corpo alla deformazione. A 50 anni è già un vecchio, grasso e con le rughe sotto gli occhi. C' qualcosa che non ha mai rivelato. E' l'artista più riservato che esista. Affida ogni rivelazione alla sua musica. Ma anche qui, come con un codice cifrato. L'aveva imparato dall'amatissimo Robert (Schumann) a cifrare la propria musica. Brahms non ama il gesto plateale, l'esibizione del sentimento. Ma la sua musica è intricata, contorta, reticente, e perciò incredibilmente densa, intensa, e proprio perciò sublime come poche altre. Tra l'altro, il tema che apre la sinfonia nasce da un passaggio - poche battute - dell'adagio dell'op. 106 di Beethoven. Brahms vi riconosce la sua stessa consapevolezza di un declino, di una fine. Si parla tanto dell'ammirazione di Brahms per Beethoven, ma pochi si soffermano sul fatto che Brahms non ammira, né tanto meno imita uno “stile” beethoveniano. Sente, invece, in Beethoven un sentimento affine di chiusura, di esperienza di fine. Il bello, il sogno è passato, è finito. L'ultima delle variazioni Diabelli rievoca Haydn. Dopo tutto l'inferno di 32 variazioni, Beethoven evoca il fantasma di Haydn (lo aveva già fatto nell'Ottava Sinfonia, una sinfonia meravigliosa, sembra già lo Stravinsky neoclassico), il fantasma di un equilibrio perduto. Haydn è il bello già realizzato, ma ormai irrealizzabile. A meno che non si buttino sulla carta gli schizzi delle Bagatelle, nel tentativo di arrestare l'attimo. Haydn è, anche, il segno di un fallimento: il fallimento dell’utopia illuministica. Beethoven è come Faust che ode i lemuri scavargli la fossa, ma crede che sia il lavoro di una futura società operosa. La Germania, tra Otto e Novecento, aveva già visto che cosa sarebbe accaduto dell'Europa. Il giacobino e sordo Beethoven che "sente" i Francesi bombardare Vienna, deve avere "sentito" con disperazione questa fine. Arrestarla è impossibile. Ma far sentire il proprio rifiuto, la propria protesta, questo sì: e Beethoven lo proclama a tutto il mondo in ogni nota della sua Nona Sinfonia.

Mi sorgono molte riflessioni su questo concerto (il secondo per pianoforte), che fu una folgorazione giovanile. Da allora Brahms è per me una sorta di modello, l’esempio di una modernità che sa di dovere voltare le spalle al passato, ma ne soffre terribilmente. Adora la cantabilità, ma deve frenarla, strangolarla, perché la sa finita, inattuale. Ne traggano lezione tutti gli Allevi del mondo.

Fiano Romano, 19 giugno 2016


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